martedì 18 giugno 2013

Se il malato costa troppo. Come si colma il divario tra medico e paziente senza scorciatoie disumane (Cancelli)

Se il malato costa troppo

Come si colma il divario tra medico e paziente senza scorciatoie disumane

di Ferdinando Cancelli

Anne-Laure Boch, neurochirurgo in un grande ospedale parigino, ha senza dubbio voluto sostenere, come lei stessa dice, una tesi provocatoria. Quando la medicina genera degli handicappati, l'articolo da lei firmato pubblicato sul numero 174 della rivista «Le Débat», solleva infatti alcune delicatissime questioni sulla medicina moderna e lo fa in modo esplicito, senza temere di lasciare che il lettore si avventuri in «una realtà brutta, spaventosa, persino mostruosa», quella che la Boch descrive vivendola dall'interno come professionista. Come però spesso capita confrontandosi con i problemi più complessi, lo sforzo può essere ripagato da una comprensione più profonda degli stessi.
Se da un lato la medicina «si batte per prevenire, guarire o curare le situazioni di handicap», dall'altro -- questa la tesi dell'autrice -- è ormai la principale generatrice degli handicap stessi. Principalmente quattro sono i meccanismi implicati in un tale fenomeno. In primo luogo gli incidenti nella presa in carico dei malati. L'autrice fa l'esempio dello stato vegetativo che di per sé «non è mai uno stato naturale». Un trauma cranico, un'emorragia cerebrale, un'anossia in seguito a un arresto cardiaco sono situazioni che portano spesso alla morte se il paziente non viene sottoposto a misure di rianimazione; ma, proprio mantenendo il paziente in vita, il risultato può essere quello di vederlo scivolare dal coma allo stato vegetativo, situazione nella quale resterà, se nutrito e idratato in modo clinicamente assistito, fino al decesso per complicazioni.
Il secondo meccanismo che l'autrice indica come causa di disabilità è il prolungamento della vita per le persone “deboli”. In altre epoche un paziente paraplegico, ad esempio per un trauma midollare, non avrebbe ricevuto un trattamento anticoagulativo per la prevenzione delle embolie polmonari, non sarebbe stato curato per i problemi renali, non si sarebbe giovato di un nursing specializzato e indubbiamente sarebbe deceduto molto più precocemente. Gli stessi anziani, secondo la dottoressa Boch, sono spesso handicappati perché «dipendenti» per le funzioni più essenziali come nutrirsi, vestirsi, lavarsi e la dipendenza rappresenta l'altra faccia dell'handicap soprattutto in una società nella quale la «vecchiaia non è più un'eccezione» a causa dell'allungamento della vita ottenuto dall'arte medica.
Terzo meccanismo implicato è la trasformazione delle malattie acute in malattie croniche. Molti sono gli esempi che l'autrice cita a questo proposito: se fino a pochi decenni fa in molti casi i tumori avevano un decorso rapidamente infausto, non sono rari oggi casi di pazienti che “convivono” con la propria neoplasia per anni passando da una chemioterapia o una radioterapia all'altra; la sclerosi laterale amiotrofica (Sla), che porterebbe rapidamente a morte per paralisi dei muscoli respiratori, è una malattia che può durare anni se il paziente viene ventilato meccanicamente attraverso una tracheotomia.
Infine l'ultimo meccanismo, forse il più insidioso, è quello di convincere i sani che sono malati, quella che l'autrice definisce la «tendenza normativa» della medicina. In un piccolo villaggio della campagna francese il dottor Knock, in un film degli anni Cinquanta, era riuscito a riempire lo studio medico del suo predecessore prima sempre vuoto semplicemente convincendo gli abitanti del fatto che «ogni persona sana è un paziente che non sa di esserlo»: la moderna medicina genera malattie o stati di handicap allo stesso modo, definendo come «patologiche» entità psichiche (si pensi al nuovo manuale diagnostico e statistico Dsm5 appena uscito per la psichiatria) o fisiche (quale sia il livello rischioso di colesterolo per una persona ancora nessuno sa dirlo con sicurezza ma le prescrizioni di farmaci si sprecano), che magari non lo sono affatto.
Qual è la conseguenza, sostiene ancora l'autrice, di questa “produzione” di handicappati? È la creazione di un divario (décalage) tra ciò che la medicina realizza e ciò che la società chiede alla stessa: “lo stare bene”, “il guarire”. Ecco che allora la medicina corre ai ripari prospettando due soluzioni: da un lato la ricerca, sempre più “applicata” e sempre meno “di base”, secondo il principio che «se la medicina non ha ancora perfettamente guarito tutte le malattie è semplicemente perché la società non le dà tutti i mezzi necessari per la ricerca». Dall'altro la soluzione è rappresentata a monte dalla diagnosi prenatale con lo scopo di eliminare in utero futuri soggetti deboli e a valle dall'eutanasia e dal suicidio assistito, pratici mezzi di alleggerimento del peso, l'handicap appunto, che tali malati rappresentano per la società.
«Niente potrà -- conclude Boch -- limitare la domanda sociale di morte medicalmente assistita se la medicina continuerà ad alimentare il flusso dei grandi handicappati e specialmente delle persone anziane dipendenti».
Alla fine dell'articolo, pur se parzialmente confortati dall'autrice che specifica, come medico, di essere personalmente contraria all'eutanasia e al suicidio assistito ma non -- aggiunge -- al «suicidio privato al quale potrebbero ricorrere alcuni grandi malati», si sente il bisogno di riprendere fiato e di riflettere. La «tesi provocatoria» dalla quale l'autrice parte contiene alcuni stimoli non trascurabili sebbene tenda a una visione parziale dei problemi affrontati e ceda alla tentazione di generalizzare. In particolare la conclusione poco sopra riportata pare piuttosto forzata e discutibile.
Innanzitutto, una considerazione preliminare: ancora una volta logiche meramente economiche sono alla base di molti fenomeni che l'autrice descrive. Spingere una chemioterapia fino agli ultimi giorni di vita di un paziente rappresenta in molti casi una sproporzione dalla quale la buona pratica medica dovrebbe astenersi ma alla quale gli interessi di molte case farmaceutiche potrebbero spingere. Stesso discorso vale per la “tendenza normativa” particolarmente evidente in alcune branche della medicina: se essere di cattivo umore diventa una patologia, magari da trattare con uno psicofarmaco, sarà più contento il dottor Knock di turno con relativo farmacista al seguito. E parimenti le soluzioni contro la vita prospettate dalla medicina, sia a monte sia a valle, spesso nascondono interessi economici. Detto in altri termini, fino a che un malato è sottoponibile a terapie che giovano agli interessi di qualcuno è bene tenerlo in vita a ogni costo, quando lo stesso soggetto rischia di far spendere più di quanto non faccia guadagnare diventa rapidamente “una vita non degna di essere vissuta”. Se poi il malato stesso si convince da solo, per l'immensa pressione sociale e mediatica che deriva dal culto del corpo sano e dell'efficenza, ancor meglio.
Sotto questo aspetto la medicina palliativa è un esempio evidente: spesso con farmaci a basso costo si ottengono grandi risultati e ciò rende tale branca della medicina molto meno appetibile per le industrie del farmaco rispetto ad esempio all'oncologia. Ma il malato oncologico in fase avanzata di malattia costa dal punto di vista assistenziale e ciò lo rende spesso poco gradito a una società sempre più legata alle leggi dell'economia più che all'etica.
Come prima anticipato, dall'articolo di Boch emerge il rischio delle generalizzazioni. Fino a che su questi argomenti non si esamina il caso singolo si perdono particolari che possono essere fondamentali per arrivare a un giudizio etico corretto. Un paziente affetto da insufficienza renale cronica dializzato tre volte alla settimana può essere un ottimo nonno, un marito affetto da Sla e ventilato meccanicamente potrebbe voler continuare a vedere la propria moglie accanto a sé e via di questo passo.
Davvero quelli che genera la medicina moderna sono pazienti handicappati? Vi è unanimità nella definizione stessa di handicap? Fino a che punto spingersi nell'applicare terapie complesse? Quando una terapia o un mezzo di sostegno vitale è “accanimento terapeutico” e quando non lo è? Le domande sono molte e molto complesse. A nostro modo di vedere la riflessione bioetica su questi problemi aiuta molto a patto di non prescindere dal contesto. Una terapia o un mezzo di sostegno vitale sono proporzionati quando raggiungono gli obiettivi clinici che si propongono: ad esempio una ventilazione meccanica in un paziente con Sla che riesca a mantenere una buona ossigenazione del sangue.
Ma allora è sufficiente dare un giudizio oggettivo medico per dire che un trattamento proporzionato va sempre applicato? No. Come la pratica clinica tutti i giorni ci insegna, occorre avere il parere soggettivo del paziente: quella stessa ventilazione che il medico giudica “proporzionata” potrebbe per il paziente non esserlo e risultare quindi “straordinaria” (nel caso del giudizio soggettivo si preferisce usare i termini di “ordinario” e “straordinario”). Chi costringerebbe un paziente a essere ventilato contro la propria volontà? Potremmo quindi dire, semplificando, che un trattamento non è da mettere in pratica se è sproporzionato (senza efficacia medica dimostrata) o straordinario (il paziente non lo vuole).
Il problema è più complesso qualora ci si trovi nel caso di un paziente non in grado di esprimere la propria volontà (coma, stato vegetativo o altre situazioni di «incompetenza»). In tali casi la legge francese in vigore (detta legge Leonetti, del 22 aprile 2005) afferma che sarà il medico a dover decidere sulla base delle eventuali dichiarazioni anticipate di trattamento che il malato potrebbe aver fatto, del parere di un rappresentante terapeutico (se nominato in precedenza dal paziente), della famiglia o degli amici. Il valore che tale legge assegna alle «direttive anticipate», così sono definite in Francia, è consultivo, cioè non vincolante e il medico, qualora la decisione di sospendere un trattamento in atto metta a rischio la vita del paziente, deve avvalersi della consulenza di un collega in una procedura definita «collegiale» e precisata dalla legge.
Potrebbe essere questa una soluzione concreta agli interrogativi sollevati dalla dottoressa Boch: non una medicina che rinuncia alle proprie possibilità di cura, non una medicina prona a interessi economici, non una medicina che sceglie di sbarazzarsi in fretta dei pesi che ha creato, ma una medicina che ragiona. Ricca di umanità, guidata dalla riflessione etica che la illumina da secoli, magari anche conscia degli errori commessi e in grado di imparare dagli stessi, una medicina che ascolta e accetta i propri limiti e sta sempre dalla parte della vita più fragile. Solo così, pensiamo, si colmerà il divario tra medico e paziente, solo così si eviteranno pericolose e disumane scorciatoie.

(©L'Osservatore Romano 18 giugno 2013)

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Sarà che sono un ex malato oncologico con postumi permanenti, ma leggere certe cose dà i brividi. Mi sembra che siamo diventati tutti dei prodotti che vanno un tanto al chilo.
Che schifo.
E dire che vivo sulla mia pelle il mercimonio di industrie farmaceutiche che non hanno alcun interesse a che si curino definitivamente certi problemi. Quindi la medicina non sempre spinge nell'accanimento terapeutico, purtroppo è vero proprio l'inverso: ci si accontenta del palliativo, di un medicinale cioè che cura a valle e non a monte, tanto costa uguale e paga sempre il malato!
Sul non avere soldi per la ricerca, stendiamo un velo pietoso. Se vedo quella trasmissione apposita, cambio subito canale. A scuola sto diffondendo la vera informazione sulle lobbies farmaceutiche affinché non si facciano prendere in giro da associazioni che si fanno un mare di pubblicità, ma dalle quali non si cava un ragno dal buco. Provato e sperimentato da me!
Sul resto dell'articolo, non è che abbia visto tutta questa umanità, ma solo tanta vivisezione di un vasto campionario umano. Il che è ben diverso. Mi aspettavo di trovare qualcosa sul rapporto medico-paziente, ho trovato una logica che passa dal supermarket all'aula di giustizia.
Bah, mi fermo qui, forse sono troppo coinvolta, a dirla con il politically correct. Condivido solo l'ultima tesi esposta, cioè il fatto che la pubblicità e le informazioni incontrollate che non passino da un filtro medico serio, possano condurre persone sane a rovinarsi minimo il fegato con integratori presi a caso (faccio l'esempio più banale!). E quindi ad aver bisogno di medicinali veri...ma qui basta il buon senso e il criceto salta giù dalla ruota...

Ester. :-)

Anonimo ha detto...

Ester come è vero quello che dici !!!Rita

Anonimo ha detto...

Ho sperimentato questa triste realtà nel corso della malattia di mio padre. dato che era affetto da una grave patologia no suscettibile di guarigione, gli son state negate determinate terapie perché troppo costose per un paziente di età superiore a 70 anni!!!! (ne aveva 74). Anche quando lavoravo in ospedale e son stata costretta ad andarmene nel 1997, non si potevano somministrare terapie costose a pazienti di qualunque età se non fossero stati suscettibili di guarigione. Ho sempre ritenuto questa modalità di comportamento una terribile scelta di "selzione della razza" di stampo nazista, ma la politica economica sanitaria punta al risparmio e non al bene del paziente e l'imperativo è : non prescrivere! Chi suoera il budget disponibile viene sanzionato