mercoledì 10 luglio 2013

Le radici dell'astio nei confronti di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. La “Dichiarazione di Colonia” e i suoi sostenitori

LE RADICI DELL'ASTIO NEI CONFRONTI DI JOSEPH RATZINGER-BENEDETTO XVI. LO SPECIALE DEL BLOG

Cari amici, grazie al lavoro della nostra Gemma proseguiamo nella nostra ricerca sulle radici dell'astio nei confronti di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI.
Oggi parliamo della cosiddetta "Dichiarazione di Colonia", firmata da un numero considerevole di teologi tedeschi, dal clero e da un gruppo di laici, con lo scopo di fare parecchie rivendicazioni (le stesse che si fanno oggi) circa l'autonomia della teologia ed il maggior peso delle comunita' nella scelta dei vescovi. Da notare il modo in cui si utilizza la parola "coscienza".
Molti fattori scatenarono il "caso" Colonia ma indubbiamente molti teologi trovarono il modo di riaffermare, anche mediaticamente, la loro posizione dopo la pubblicazione di "Rapporto sulla fede", il libro intervista del card. Ratzinger con Vittorio Messori.
La Dichiarazione ebbe un certo successo anche in Italia. Analizzeremo il "caso" Italia in un successivo post perche' la questione ci riguarda direttamente.
Vediamo ora la genesi del documento in lingua tedesca. Notiamo come Joseph Ratzinger, Prefetto della Cdf ma non certo Papa, sia tirato in ballo in ogni polemica possibile ed immaginabile.
Notiamo anche come persino Giovanni Paolo II fu accusato di fare troppe concessioni ai seguaci di Lefebvre. Alla fine gli argomenti sono sempre i soliti...
R.

Contro il Magisterium. La “Dichiarazione di Colonia” e i suoi sostenitori

Con il termine “Magistero della Chiesa”, la Chiesa cattolica indica il proprio insegnamento, con il quale  ritiene di conservare e trasmettere attraverso i secoli il “Deposito della Fede”, la dottrina rivelata agli Apostoli da Gesù.
Tale Magistero può essere ordinario o straordinario: il Magistero ordinario è la modalità normale con cui la Chiesa comunica il suo insegnamento tramite encicliche, lettere pastorali e altri scritti o attraverso la predicazione orale da parte del Papa e dei Vescovi, mentre il Magistero straordinario consiste in un pronunciamento di un Concilio ecumenico o del papa “ex-cathedra” che definisce una verità di fede di natura dogmatica.
Essendo il Magistero uno dei pilasti essenziali della Chiesa, chiunque si voglia considerare cattolico è tenuto ad accettare e seguire scrupolosamente i suoi dettami e, qualora si decidesse di non farlo, la conseguenza immediata è quella di porsi “extra-ecclesiam” (è accaduto, ad esempio, nel 1870 quando, non accettando alcuni Vescovi il dogma dell’infallibilità papale proclamato da Pio IX al Concilio Vaticano I, formarono una Chiesa indipendente, detta “Vetero-Cattolica”).
Ma cosa può accadere nel caso un gruppo di coloro che sono incaricati di trasmettere il Magistero e di sorvegliare sulla sua osservanza, Vescovi e Sacerdoti, decida, pur rimanendo formalmente all’interno della Chiesa cattolica, di mettere in discussione l’“auctoritas” magisteriale?
E’ quanto è accaduto nel 1989 con la “rivolta” di un nutrito gruppo di teologi e Prelati tedeschi, firmatari della cosiddetta “Dichiarazione di Colonia”, che ha avuto ampio seguito internazionale e che ha segnato uno dei punti più difficili e controversi del lungo Pontificato di Giovanni Paolo II.
Per comprendere i termini della questione, dobbiamo, innanzitutto, inquadrare la situazione nel suo contesto storico.
Il 16 ottobre 1978, al termine di un Conclave piuttosto breve, venne eletto “CCLXIII Successore di Pietro” il Cardinale polacco Karol Józef Wojtyła, già noto agli “addetti ai lavori” sia per la sua grande capacità comunicativa e di appeal sui giovani che per la sua intransigenza verso ogni forma di “deviazionismo para-marxista” (cioè, sostanzialmente, legato alle tendenze di sinistra). Il nuovo Papa, che assume il nome di Giovanni Paolo II, da subito si lancia in un programma di “ricostruzione” delle basi sociali, dogmatiche e teologiche su cui si fonda la Chiesa.
In quest’ottica, il 25 novembre 1981, Papa nomina Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’organo della Santa Sede che si occupa di vigilare sulla correttezza della Dottrina cattolica, il Cardinale di Monaco e Frisinga Joseph Alois Ratzinger, teologo conservatore tra i più noti della Chiesa, che manterrà tale carica fino all’elevazione al Soglio Pontificio (19 aprile 2005) con il nome di Benedetto XVI.
Da subito l’opera di ristrutturazione della Chiesa del Papa e di quello che, a tutti gli effetti, era il suo più stretto collaboratore fu evidente, con l’instaurazione di un clima di notevole “intransigenza dogmatica” che fece sì che buona parte della “sinistra ecclesiastica” parlasse di un “passo indietro” verso le posizioni più retrive della Chiesa pre-Concilio Vaticano II.
In particolare, le idee del Cardinal Ratzinger sul governo della Chiesa diventarono molto chiare quando, nel 1985, rompendo una lunga tradizione di discrezione dell’ex Sant’Uffizio, egli accettò di farsi intervistare dal giornalista italiano Vittorio Messori, già autore di due saggi su Gesù. Dall’incontro dell’agosto 1984 in un’ala chiusa del seminario di Bressanone, nacque il libro Rapporto sulla Fede che, oltre a riscuotere successo in termini di vendite, non mancò di provocare numerose critiche all’interno e all’esterno della Chiesa cattolica.
Su cosa si appuntavano tali critiche?
Sostanzialmente, il nodo più problematico riguardava la visione del Prefetto sui risultati del Concilio Vaticano II.
Egli, infatti, aveva dichiarato che, ancor prima della fine del Concilio, si era reso conto che esso aveva provocato una crescente sensazione che nulla all’interno della Chiesa fosse stabile e che tutto potesse essere rivisto.
In particolare, il Cardinale aveva detto: “Il Concilio sembrava essere simile a un grande parlamento della Chiesa, che potesse cambiare e rivoluzionare tutto a modo suo” e in cui era evidente  “un crescente risentimento nei confronti di Roma e della Curia, che appariva come il vero nemico di ogni rinnovamento e il progresso”.
Il problema, sottolineava Ratzinger, era che, mentre le divisioni e gli scontri crescevano, si diffondevano idee egualitaristiche, tali per cui di si domandava perché se i vescovi potevano cambiare la Chiesa e la Fede stessa, il resto del popolo di Dio non poteva fare la stessa cosa.
Inoltre, tutti sapevano che i nuovi argomenti dei Vescovi nascevano dai teologi che, a loro volta, avevano “cominciato a sentirsi i i veri rappresentanti della conoscenza, e per questo motivo non potevano più mostrarsi soggetti ai Vescovi”.
Il risultato di questo processo era che nella Chiesa, a almeno per quanto riguardava l’opinione pubblica, tutto sembrava poter essere oggetto di revisione e  anche la Professione di Fede non sembrava più intoccabile, ma da sottoporsi alle verifiche degli studiosi.
Dietro a questa tendenza degli specialisti a dominare l’Istituzione ecclesiastica, si era sviluppato un altro fattore: l’idea di una sovranità ecclesiale popolare, con la propagazione dell’idea di una “Chiesa dal basso” o di una “Chiesa del popolo” che, in particolare nel contesto della teologia della liberazione, sembrava essere diventata  l’obiettivo stesso della riforma.
A seguito della pubblicazione di questa diagnosi che, per altro, trovava in quel periodo perfetta corrispondenza nelle decisioni magisteriali, improntate alla soppressione di qualunque forma di “dissenso modernista” all’interno della Chiesa, era quasi naturale che un folto gruppo di teologi tedeschi, seguiti da colleghi dell’Europa centrale e meridionale, finisse per denunciare quello che definivano il pensiero “autoritario e esclusivista” che permeava le azioni di Ratzinger e la sua mancanza di attenzione verso il parere di tutti i cristiani (il cosiddetto “sensus fidelium”), sia in materia di promulgazioni del Magistero che riguardo alla funzione dei teologi stessi nel governo della Chiesa.
Ne risultò, nel 1989, una sorta di “lettera aperta”, promossa dai teologi tubinghesi Norbert Greinacher e Dietmar Mieth e da un primo gruppo di “dissidenti” e sottoscritta da 162 professori di teologia cattolica di lingua tedesca (e, in breve tempo, in Olanda, da circa 17.000 laici ed ecclesiastici e, nella Repubblica Federale Tedesca, da circa 16.000 parroci e laici, oltre che da circa cento gruppi cattolici), a cui seguirono dichiarazioni analoghe in Belgio, Francia, Spagna, Italia, Brasile e negli Stati Uniti. La dichiarazione è stata inoltre sottoscritta, in Olanda, da circa 17.000 e, nella Repubblica Federale di Germania, da circa 16.000 parroci e laici, oltre che da circa cento gruppi cattolici.
Tale “lettera aperta”, che ebbe come motivo ultimo scatenante una questione locale di successione vescovile (l’“affare di Colonia”), passò alla storia come “Dichiarazione di Colonia” e vale oggi la pena di essere letta integralmente dal momento che, pur nella sua brevità, dà perfettamente conto delle opposte posizioni e del clima di scontro che, vent’anni fa, oppose la Chiesa romana a buona parte della sua stessa “intellighenzia”.
* * *
DICHIARAZIONE DI COLONIA – “CONTRO L’INTERDIZIONE – PER UNA CATTOLICITÀ APERTA”
Diversi fatti accaduti nella nostra chiesa cattolica ci inducono a fare una dichiarazione pubblica. Sono soprattutto tre ordini di problemi a preoccuparci:
1. La curia romana mette risolutamente in pratica l’idea di coprire unilateralmente le sedi episcopali di tutto il mondo senza tener conto delle proposte delle chiese locali e ledendo i loro diritti acquisiti.
2. In tutto il mondo, in molti casi, viene negata a teologi e teologhe qualificati l’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento. Si tratta di un grave e pericoloso attentato alla libertà di ricerca e di insegnamento, oltre che alla struttura dialogica della conoscenza teologica, che il Concilio Vaticano II ha ribadito in molti testi. Il conferimento dell’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento viene indebitamente utilizzato come strumento disciplinare.
3. Stiamo assistendo al tentativo, estremamente discutibile dal punto di vista teologico, di rafforzare ed estendere in modo indebito la competenza magisteriale del papa, oltre a quella giurisdizionale.
Prestando attenzione a questi tre ordini di problemi, vediamo i segni di una trasformazione della chiesa postconciliare:
- di uno strisciante mutamento strutturale nel senso di un’estensione indebita del potere giurisdizionale;
- di una progressiva interdizione delle chiese particolari, di un rifiuto dell’argomentazione teologica, e di una diminuzione dell’ambito di competenza dei laici nella chiesa;
- di un antagonismo proveniente dall’alto, che inasprisce i conflitti nella chiesa con il ricorso a misure disciplinari.
Siamo convinti che su queste cose non possiamo tacere. Riteniamo necessaria questa presa di posizione
- in ragione della nostra responsabilità nei confronti della fede cristiana,
- nell’esercizio del nostro servizio di docenti di teologia,
- per il rispetto che dobbiamo alla nostra coscienza,
- in solidarietà con tutte le donne e tutti gli uomini cristiani scandalizzati o addirittura disperati per i recenti sviluppi occorsi nella nostra chiesa.
1. Per quanto riguarda le recenti nomine episcopali da parte di Roma in tutto il mondo, e soprattutto in Austria, in Svizzera e qui a Colonia, dichiariamo.
Ci sono diritti tradizionali, persino codificati, favorevoli al concorso delle chiese locali, diritti che hanno caratterizzato fino a oggi la storia della chiesa. Essi fanno parte della multiforme vita della chiesa.
Quando le chiese locali (come è accaduto in America Latina, nello Sri Lanka, in Spagna, in Olanda, in Svizzera, in Austria e qui a Colonia) vengono disciplinate mediante le nomine episcopali o altre misure, spesso fondate su sospetti e analisi errate, vengono defraudate della loro autonomia.
L’apertura della chiesa cattolica alla collegialità tra papa e vescovi, che pure è stata una delle acquisizioni fondamentali del Concilio Vaticano II, viene soffocata da un nuovo centralismo romano.
L’esercizio dell’autorità, quale trova espressione nelle recenti nomine episcopali, è in contrasto con la fraternità del Vangelo, con le esperienze positive dello sviluppo dei diritti di libertà e con la collegialità dei vescovi. La prassi attuale ostacola il processo ecumenico in punti essenziali.
In riferimento all’”affare di Colonia”, riteniamo scandaloso il fatto di cambiare le norme dell’elezione con il procedimento in corso. In questo modo è stata duramente colpita la coscienza di una correttezza procedurale.
L’autorevolezza e la dignità del ministero papale richiedono una certa sensibilità nel rapporto con il potere e con le istituzioni costituite.
La scelta dei candidati all’episcopato esprime il pluralismo della chiesa in maniera adeguata; il procedimento di nomina non è una scelta privata del papa.
Il ruolo delle nunziature diventa oggi sempre più discutibile. Benché le vie di trasmissione di informazioni e i contatti personali siano semplificati, la nunziatura tende a trasformarli sempre più in un odioso servizio investigativo, che spesso con la scelta unilaterale delle informazioni crea quelle deviazioni di cui è appunto alla ricerca.
- L’obbedienza nei confronti del papa, che in tempi recenti viene sempre più spesso dichiarata e pretesa da vescovi e cardinali, ha l’aspetto di un’obbedienza cieca. L’obbedienza ecclesiale a servizio del Vangelo richiede la disponibilità a un’opposizione costruttiva (cfr. Codex Iuris Canonici, can. 212, § 3). Invitiamo i vescovi a ricordarsi dell’esempio di Paolo, che è rimasto in comunione con Pietro pur “resistendogli in faccia” nella questione della missione tra i pagani (Gal 2,11).
2. Sul problema delle cattedre di teologia e sul conferimento dell’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento noi dichiariamo:
- Vanno salvaguardate la competenza e la del vescovo locale, fondate teologicamente e a volte tutelate dai concordati, in materia di conferimento o di ritiro dell’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento. i vescovi non sono organi esecutivi del papa. L’attuale prassi, volta a violare all’interno della chiesa il principio di sussidiarietà nelle chiare competenze del vescovo locale in materia di insegnamento della fede e della morale, crea una situazione insostenibile. Un intervento romano nel conferimento o nel ritiro dell’autorizzazione all’insegnamento indipendentemente dalla chiesa locale o addirittura contro l’esplicito convincimento del vescovo locale rischia di provocare la decadenza di competenze costituite e consolidate.
- Le obiezioni contro il conferimento dell’autorizzazione all’insegnamento e, tanto più, le decisioni in questa materia devono fondarsi su argomenti motivati ed essere giustificate in base alle norme accademiche in vigore. Un arbitrio in questo campo mette in discussione la stessa esistenza della facoltà di teologia cattolica nelle università statali.
- Non tutti gli insegnamenti della chiesa sono ugualmente certi e hanno un uguale peso dal punto di vista teologico. Noi ci opponiamo alla violazione di questa dottrina dei gradi della certezza teologica ovvero della “gerarchia delle verità” nella prassi del conferimento e della negazione dell’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento. Singole questioni etiche e dogmatiche di dettaglio non possono perciò venire contrabbandate arbitrariamente come atte a stabilire l’identità della fede, mentre comportamenti morali direttamente legati alla prassi della fede (come quelli, ad esempio, contrari alle torture, alla discriminazione razziale o allo sfruttamento) non sembrano avere la stessa importanza teologica nella questione della verità.
- Il diritto all’autonomia organizzativa delle facoltà e degli istituti superiori nella scelta degli insegnanti non può essere completamente conculcato da un esercizio arbitrario della potestà di conferire o negare l’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento.
- Se nelle università, sotto la pressione di tali problemi, si perviene alla scelta dei professori e delle professoresse di teologia in base a criteri extrascientifici, ciò non può che portare a uno scadimento della dignità della teologia nelle università stesse.
3. Di fronte al tentativo di estendere in maniera inammissibile la competenza magisteriale del papa dichiariamo :
- Recentemente, rivolgendosi a teologi e a vescovi, il papa ha collegato la dottrina della regolazione delle nascite – senza tener conto del grado di certezza e del diverso peso degli asserti ecclesiastici – con verità di fede fondamentali quali la santità di Dio e la redenzione a opera di Gesù Cristo, così che coloro i quali criticano l’insegnamento papale sulla regolazione delle nascite vengono accusati di “minare i pilastri fondamentali della dottrina cristiana”, anzi con il loro richiamarsi alla dignità della coscienza essi cadrebbero nell’errore di rendere “vana la croce di Cristo”, di “distruggere il mistero di Dio” e di negare la “dignità dell’uomo”. I concetti di “verità fondamentale” e di “rivelazione divina” vengono usati dal papa per sostenere una dottrina del tutto particolare, che non può essere giustificata in base alla Sacra Scrittura, nè in base alle tradizioni della chiesa (cfr. i discorsi del 15 ottobre e del 12 novembre 1988).
- L’affinità, ribadita dal papa, tra tali verità non significa che esse abbiano un uguale valore e debbano essere poste sullo stesso piano. Il Concilio Vaticano II afferma: “Nel mettere a confronto le dottrine si ricordino che esiste un ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana” (Decreto sull’ecumenismo, n. 11). Analogamente si devono tenere presenti i diversi gradi di certezza delle affermazioni teologiche e i limiti della conoscenza teologica nelle questioni medico-antropologiche.
- Anche il magistero pontificio ha riconosciuto alla teologia la dignità di verificare gli argomenti addotti in favore delle affermazioni e delle norme di carattere teologico. Questa dignità non può essere lesa dal divieto di pensare e parlare. La verifica scientifica ha bisogno dell’argomentazione e della comunicazione.
- La coscienza non è un surrogato del magistero pontificio, come potrebbe apparire dai discorsi citati. Piuttosto, nell’interpretazione della verità, il magistero deve anche tenere conto della coscienza dei fedeli. Sopprimere la tensione tra dottrina e coscienza equivale ad attentare alla dignità di quest’ultima.
Secondo la convinzione di molti nella chiesa la norma sulla regolazione delle nascite stabilita dall’enciclica Humanae vitae del 1968 rappresenta un orientamento che non sostituisce la responsabilità della coscienza dei fedeli. Alcuni vescovi, tra i quali quelli tedeschi nella loro “Dichiarazione di Konigstein” ( 1968), e alcuni moralisti hanno ritenuto corretta questa convinzione di molti cristiani, uomini e donne, perché sono convinti che la dignità della coscienza non consiste solo nell’obbedienza, ma anche nella responsabilità. Un papa, che così spesso si richiama a questa responsabilità dei cristiani, uomini e donne, nel dominio dell’agire intramondano, non dovrebbe ignorarla sistematicamente nei casi seri. Del resto deploriamo la continua insistenza del magistero pontificio su questo ordine di problemi.
Conclusione
- La chiesa è al servizio di Gesù Cristo. Essa deve resistere alla continua tentazione di abusare del suo vangelo della giustizia, misericordia e fedeltà di Dio mediante forme discutibili di dominio a salvaguardia del proprio potere. Essa è stata concepita dal Concilio come il popolo peregrinante di Dio e la relazione di vita esistente tra i credenti (communio ) ; essa non è una città assediata, che erige i propri bastioni e si difende con durezza sia all’interno sia all’esterno.
- Condividiamo con i pastori diverse preoccupazioni per la chiesa nel mondo odierno in ragione della nostra comune testimonianza. Soccorrere le chiese povere, liberare quelle ricche da ogni sorta di irretimenti e promuovere l’unità della chiesa, sono obiettivi che comprendiamo e per i quali ci impegnamo.
- Tuttavia i teologi, che stanno al servizio della chiesa, hanno anche il dovere di esercitare pubblicamente la critica se l’autorità ecclesiastica fa un uso sbagliato del suo potere, contraddicendo così le sue finalità, ostacolando il cammino verso l’ecumene, sconfessando le aperture del Concilio.
- Il papa rivendica il ministero dell’unità. Appartiene perciò alla sua funzione di comporre i casi di conflitto, cosa che egli ha fatto in maniera eccessiva nel caso di Marcel Lefebvre e dei suoi seguaci, benché questi avessero messo radicalmente in questione il magistero. Non è proprio del suo ufficio inasprire, senza alcun tentativo di dialogo, conflitti di secondaria importanza, o risolverli magisterialmente in maniera unilaterale, facendone oggetto di discriminazione. Quando il papa fa ciò che non è proprio del suo ministero, non può esigere l’obbedienza in nome della cattolicità, deve piuttosto attendersi un’opposizione.
* * *
Come anticipato, questo documento ebbe una notevole risonanza anche in Italia.
La prima presa di posizione italiana a favore della Dichiarazione, arrivò immediatamente (e piuttosto ovviamente) dalle cosiddette Comunità di base (CdB), d’origine brasiliana e notoriamente molto vicine alla “Teologia della Liberazione”, ma, ben presto anche la stampa specializzata, attraverso le sue firme più prestigiose e con pochissime eccezioni, manifestò il suo consenso.
Intanto, alla Dichiarazione di Colonia, stavano facendo seguito le “dichiarazioni” di intellettuali e teologi francesi e di sessantadue teologi spagnoli, mentre si diffondevano costantemente nuovi appelli per il “dialogo nella chiesa” e segnali di dissenso da parte di esponenti di numerosissimi ordini religiosi.
Finalmente, il 15 maggio 1989, anche teologi italiani diffusero il loro cosiddetto “Documento dei Sessantatre”, che, essendo il primo manifesto pubblico di dissenso verso il Papa sottoscritto da docenti ed esponenti della teologia e della cultura (la maggior parte dei quali esercitava in seminari ed istituzioni educative ecclesiastiche) della Nazione considerata la più cattolica d’Europa, fece emergere in tutta la sua drammaticità la condizione delle istituzioni teologiche.
Pubblicata sotto il titolo di “Lettera ai Cristiani – Oggi nella Chiesa” sulla rivista “Il Regno”, il documento nasceva dal “disagio per determinati atteggiamenti dell’autorità centrale della chiesa nell’ambito dell’insegnamento, in quello della disciplina e in quello istituzionale”, e dalla “impressione che la Chiesa cattolica sia percorsa da forti spinte regressive”.
I punti fondamentali del testo sono così sintetizzabili:
  1. il Concilio Vaticano II costituisce una svolta radicale e irreversibile, nella “comprensione della fede ecclesiale”;
  2. il Deposito della Fede custodito dalla Sede Apostolica non ha valore in sé, né valore assoluto, ma piuttosto otterrebbe valore per la sua “connotazione pastorale” che rende possibile “l’interpretazione fedele della verità dentro l’esistenza storica della comunità”;
  3. la Santa Sede si fa condizionare da una “mentalità di privilegio”, trascurando lo “stile di Cristo”;
  4. la natura gerarchica della Chiesa Visibile dovrebbe lasciare il posto a una “concezione della chiesa come comunione di chiese”;
  5. la funzione magisteriale del primato petrino non esclude la “varietà dei modi di intendere e di vivere la fede che lo Spirito suscita nelle diverse comunità”;
  6. la funzione del Magistero Pontificio “nella chiesa delle origini” non era “riducibile alla funzione di guida della comunità” e, pertanto, occorre ripensare tale funzione;
  7. non si dovrebbe parlare di infallibilità del Magistero, anche di quello ordinario universale, ma della sua funzione “pastorale”;
  8. la liceità dei pronunciamenti del Magistero in materia di etica dovrebbe certamente essere approfondita;
  9. il compito dei teologi non si svolge solo “divulgando l’insegnamento del magistero e approfondendo le ragioni che ne giustificano le prese di posizione” ma, piuttosto, “quando raccolgono e propongono le domande nuove [...] o quando percorrono [...] sentieri inesplorati”.
Siamo, evidentemente, su posizioni più caute rispetto allo scritto dei teologi tedeschi, ma provenendo da un ambito così prossimo al Vaticano, anche questo documento scuote profondamente la Curia che, comunque, interpreta entrambe le “Dichiarazioni” come inaccettabili raccomandazioni alla Chiesa sulla necessità di capitolare di fronte alla mentalità moderna e come una giustificazione per tutti i tipi di “resistenza” e di critica al Magistero cattolico.
Così, mentre in tutto il mondo si sviluppa un movimento ecclesiastico legato alle Dichiarazioni che si denomina “Noi siamo Chiesa” e mentre persino all’interno del Vaticano cominciano a circolare voci di consenso alle richieste dei teologi, la Santa Sede decide di rispondere in diverse forme: un insegnamento sulla vocazione ecclesiale del teologo da parte del Cardinal Ratzinger, teologo egli stesso (Donum Veritatis, 1990), un’enciclica sul primato della verità (Veritatis Splendor, 1993) e, soprattutto, la revisione della Professione di Fede apostolica nel documento Ad Tuendam Fidem (1998), che contiene l’esposizione formale della cosiddetta “verità definitiva”.
L’Istruzione Donum Veritatis nasce direttamente dall’urgenza di preservare l’unità della Chiesa e delle sue Verità di fronte alla “Dichiarazione di Colonia”. In essa si richiede urgentemente (e con una durezza a tratti sconcertante) di recuperare la centralità della autorità magisteriale  del ministero episcopale e si ribadisce la funzione secondaria del teologo in relazione a tale ministero: pur riconoscendo ai teologi l’importante ruolo svolto nella preparazione e nella realizzazione del Concilio Vaticano II, li si accusa di essere in parte colpevoli della crisi della Chiesa post-conciliare, per la loro volontà di imporsi sulla Fede non tenendo conto che il loro servizio nasce dalla Fede stessa. Di conseguenza, avendo il Magistero l’assistenza della Spirito Santo e, conseguentemente, essendo le sue Verità insegnate infallibilmente, il ruolo dei teologi risulta unicamente quello di approfondire tali Verità, senza mai contrapporvisi, tentando di creare un “Magistero parallelo”. Stante “la forza della verità stessa” e il rispetto ad essa dovuto, quando un teologo non è d’accordo con il giudizio della Chiesa, il suo appello ai diritti umani è irrilevante poiché egli è in Contraddizione con “lo stesso impegno da lui liberamente e consapevolmente assunto di insegnare in nome della Chiesa” e dovrebbe smettere di esercitare il suo ruolo, né ha senso fare appello alla propria coscienza nel caso sia in gioco un pronunciamento dottrinale essendo tale appello incompatibile con l’economia della Rivelazione e con la sua trasmissione della Fede nella Chiesa.
Anche questo documento viene naturalmente accolto con viva ostilità dal mondo teologico: il quotidiano cattolico ufficiale di Francia La Croix, ad esempio, lo accusa di porre “la libertà del teologo nello spazio ristretto di una obbedienza molto spirituale al magistero”, mentre il segretario dell’Associazione Teologica Spagnola, Juan José Tamayo sostiene che l’Istruzione “lascia ai teologi un unico compito, quello di essere la claque del magistero”.
Immediatamente nascono anche un “manifesto” di protesta della Società Teologica Cattolica d’America e la “Dichiarazione di Tubinga”, del 12 luglio 1990, firmata da ventidue professori di teologia tedeschi, olandesi e svizzeri, in cui si chiede che il Papa rinunci all’infallibilità in materia morale.  In Italia, la ribellione è meno organizzata ma comunque significativa, a partire dall’editoriale del periodico “Il Regno” intitolato “Richiesta di speranza”, secondo il quale la figura di teologo prospettata dalla Santa Sede sarebbe in opposizione al Concilio Vaticano II. Allo stesso modo, sul quotidiano Il Secolo XIX, Padre Ernesto Balducci si rammarica per la mancata nascita di una chiesa popolare, che tragga la sua autorità dal basso, le Comunità di Base (CdB), per bocca di don Franco Barbero, chiedono al cardinale Ratzinger di occuparsi non già dei teologi ribelli ma piuttosto di quelli “eccessivamente obbedientie, tra l’episcopato italiano, se il card. Carlo Maria Martini sostiene per il teologo la necessità della “comunione con i Vescovi e con l’intero popolo di Dio” e di evitare “il dissenso permanente e pregiudiziale che non può giovare a nessuno”, Mons.Luigi Bettazzi, Vescovo di Ivrea, non ha dubbi: “il Magistero deve ascoltare di più il popolo di Dio”.
Nonostante (e, forse, proprio in ragione di) queste reazioni, tre anni dopo l’enciclica Veritatis Splendor estende ulteriormente l’analisi della vocazione teologica in ambito ecclesiale, ribadendo le tesi ratzingeriane e criticando velatamente l’“ingenuità” dei Padri conciliari nella loro visione del rapporto tra Chiesa e mondo così come espressa nella Gaudium et Spes, ma è con la lettera apostolica Ad Tuendam Fidem del 1998 che la Santa Sede vuole porre definitivamente termine all’ormai annoso contenzioso che la oppone ai teologi progressisti.
In sostanza, la lettera apostolica si configura come un vero e proprio “giuramento di fedeltà” a cui qualunque teologo cattolico e qualunque candidato a Ministeri ecclesiali deve sottoporsi. Al “Credo niceno-costantinopolitano” vengono aggiunti tre punti fondamentali:
  1. Credo pure con ferma fede tutto ciò che è contenuto nella parola di Dio scritta o trasmessa e che la Chiesa, sia con giudizio solenne sia con magistero ordinario e universale, propone a credere come divinamente rivelato.
  2. Fermamente accolgo e ritengo anche tutte e singole le verità circa la dottrina che riguarda la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo.
  3. Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell’intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice o il Collegio Episcopale propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo.
Di fatto, dal momento che l’attuale Codice di Diritto Canonico contempla solo sanzioni per chi dissente sul primo e il terzo punto ma non si fa menzione del secondo punto la lettera apostolica si propone di colmare questa lacuna, eliminando ogni margine di dissenso interno rispetto alle “Verità definitive”.
Nel commento alla lettera, scritto a quattro mani dal Cardinal Ratzinger e dal Cardinal Tarcisio Bertone, allora Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede e oggi Segretario di Stato Vaticano, si ricorda come il testo, oltre al Magistero ordinario e al Magistero straordinario, istituisca un terzo Magistero delle “Verità definitive”, universali e irriformabili, basate sui suggerimenti dello Spirito Santo al Magistero stesso, il cui compito è di mantenere l’unità ecclesiale attorno a Verità contestate o prassi a cui è difficile aderire, ma che devono essere ammesse “tamquam definitive” anche senza una dichiarazione solenne in materia.
Appare logico che, anche in questo caso, le spiegazioni fornite da Ratzinger e Bertone abbiano provocato un senso di  generalizzata perplessità nel mondo teologico, soprattutto per le loro importanti implicazioni relative al fatto che un eventuale rifiuto di qualunque di tali Verità implica “ipso facto”  la perdita della piena comunione con la Chiesa cattolica, l’accusa di eresia e, per i teologi, la revoca dell’autorizzazione ad insegnare.
Non sorprende, quindi che la Conferenza Episcopale tedesca abbia immediatamente posto molte obiezioni all’istituzione di questo nuovo Magistero (che si configura, essenzialmente, come un sostegno al “motu proprio” papale): concretamente, la conferenza  ha sottolineato che il primo comma del giuramento viola l’unità della Scrittura e della Traditio come espressamente insegnata dal Concilio Vaticano II a favore di due realtà distinte, il secondo comma afferma, contrariamente a quanto insegnato dal Vaticano II, l’infallibilità del Papa anche in materie di Fede secondarie e il terzo comma richiede, sempre in contrapposizione con il Vaticano II, l’ “obsequium religiosum” anche per questioni non strettamente pertinenti il Magistero autentico, tutte cose inaccettabili per i fedeli.
Indifferente (si direbbe “a rigor di logica” vista la materia del contendere) alle critiche, nel 1999 la Curia vaticana ha insistito con urgenza che i Vescovi tedeschi mettessero in pratica la lettera richiedendo il giuramento, cosa che è stata decisa nell’Assemblea Episcopale della primavera del 2000.
Ciò ha messo fine, se non ai malumori già espressi dalla “Dichiarazione di Colonia”, almeno ad ogni discussione teologica in materia di Fede, rafforzando, di fatto, fino alle estreme conseguenze la posizione papale sviluppatasi dai tempi del dogma dell’infallibilità.
Ma, ci si permette di osservare, quanto siamo lontani dalla voce del Concilio Vaticano II, che aveva proclamato che i Vescovi non dovrebbero  “essere considerati vicari dei Pontefici romani” (Lumen Gentium n. 27)!
Bibliografia:

3 commenti:

laura ha detto...

Grazie per lo splendido lavoro

Anonimo ha detto...

L'istruzione Donum Veritatis sulla vocazione ecclesiale del teologo, e' uno dei documenti della CDF che leggo di più !
Le differenze che ci sono tra teologi progressisti e conservatori sono enormi.
Considero l'istruzione Donum Veritatis non un documento di chiusura, ma l'ennesimo tentativo per difendere la fede.

Silvia

Eugenia ha detto...

Grazie gemma