Troppa retorica su papa Francesco
Diffidate dei suoi incauti imitatori
Piero Ostellino
La melassa dolciastra di un progressismo mal digerito, buonista, retorico, parecchio clericale e anche un po' bigotto, ha sommerso papa Francesco, inondando i media. Che trattano l'Italia, credente e no, come una comunità priva di autonoma capacità di giudizio e alla quale si possa vendere un Papa come un detersivo.
È mortificante che una parte rilevante del Paese manifesti una tale incapacità di guardare - con rispetto della religione, della Chiesa e della laicità dello Stato - a un evento importante per credenti e no quale l'elezione di un nuovo Pontefice. Il pauperismo ecclesiastico è la forma del marketing della Chiesa, oltre che della sua missione di Carità, dell'essenza politica della sua gerarchia.
È sbagliato, perciò, interpretare i comportamenti del Papa come i prodromi di una «dottrina della povertà» che riguarderebbe non solo la Chiesa, ma anche la politica e gli stili di vita della convivenza civile.
In realtà, si direbbe, invece, che gli atteggiamenti di papa Francesco siano (solo) il riflesso di un personale fastidio per la grandiosa esteriorità di certi rituali storici della Chiesa in quanto istituzione; fastidio che Egli utilizza come forma di evangelizzazione... Il lungo dominio, anche «politico», della Chiesa sugli uomini di fede si è spesso concretato nella invasività sia della propria autorità teologica, sia della propria capacità di controllo secolare. La cattedrale di Alby - che domina dall'alto le case del piccolo villaggio - ne è, con le sue straripanti dimensioni, il simbolo; la plastica raffigurazione della vittoria della cattolicità su una eresia che teorizzava un Dio buono e di uno malvagio al posto di quello agostiniano, la salvezza per tutti e una plurima reincarnazione salvifica. Insomma, di una «chiesa interiore», molto lontana da quella di Roma, al cui centro non stava la gerarchia, ma la figura di Gesù Cristo; una Chiesa contraria al battesimo, all'eucarestia e alle strutture di culto. Che si contrapponeva al monoteismo; alla dottrina del peccato originale, espressione della agostiniana malvagità e della inevitabile condanna dell'Uomo. Che doveva la sua salvezza alla Grazia divina e al proprio (riformato) libero arbitrio, piuttosto che ai sacramenti e all'edificazione di chiese e basiliche nelle quali si concretava la grandiosità della Fede e della Carità attraverso la mediazione della gerarchia. L'eresia catara, presa a pretesto dallo Stato centrale francese, con l'interessata connivenza dei cattolici, contro l'autonomismo del duca di Tolosa, si era tradotta nel massacro di migliaia di credenti eterodossi.
La personale militanza di gesuita, e la cupa fama della Compagnia di Gesù della Controriforma, indurrebbero a formulare ipotesi inquietanti sul Pontificato che si è appena aperto. Sarebbe un errore. Sarà il suo Pontificato a dire di che pasta è fatto questo Papa gesuita nelle premesse e francescano nelle promesse.
Ma resta, però, il fatto che le sue modalità pastorali minacciano di diventare un modello da imitare, cioè un rischio per la necessaria «separatezza» della Politica dall'Etica, malgrado che anche la Chiesa stessa sia immersa nella contemporaneità; figlia del realismo di Nicolò Machiavelli, dello scetticismo liberale, in definitiva, della sua secolarizzazione.
In che cosa consista, poi, suo malgrado, il pericolo di clericalizzazione della politica da parte di un Papa terzomondista è presto detto. Sta nella vocazione «imitatrice» della debole cultura nazionale. Poiché siamo un Paese di Zelig - inclini ad incarnarsi nel loro prossimo, non avendo una identità loro propria - è realistico ipotizzare che, prima o poi, spunti qualcuno, nella politica e nella società civile, che si senta in dovere di imitare il suggestivo populismo pauperista del nuovo Pontificato romano. Che - ammesso, e non concesso, sia compatibile con la stessa Chiesa del Terzo Millennio, condizionata non solo dalla disinvoltura finanziaria dello Stato pontificio, ma anche dallo spirito borghese, della rivoluzione industriale e economica, della democrazia liberale e dalla società mediatica - non sarebbe affatto fisiologico alla politica e agli stili di vita di un Paese che sia entrato nella Modernità.
Già se ne vedono le avvisaglie nel riemergere di un certo «spirito controriformista» che si concreta in tendenze antiborghesi e anticapitalistiche già iniettate nella nostra cultura politica da un marxismo che scandalizzerebbe persino Karl Marx.
Dovremmo, piuttosto, armarci tutti contro la criminalizzazione del mercato e del profitto, lo sterco del diavolo, della ricchezza; una criminalizzazione che è il simbolo di una idea, sbagliata, di eguaglianza e di giustizia sociale che, nell'era del «pluralismo di valori», dei consumi e della diffusione del benessere di massa è del tutto anacronistica.
L'imitazione, in chiave politica, della missione salvifica della «Chiesa povera fra i poveri», nella versione della «teologia della liberazione» latino-americana, peraltro già sconfessata dalla stessa Chiesa, sarebbe mortificante per l'Italia civile e per la stessa cattolicità che - con la giusta aspirazione a una rivoluzione purificatrice al proprio interno - non mostra affatto di voler aspirare a favorire e, tanto meno, a sostenere, una «contro-rivoluzione» anche secolare. Il pauperismo, elevato a cultura politica, cancellerebbe la storica separazione dello Stato dalla Chiesa - voluta da Cavour all'atto stesso dell'Unità del Paese e ribadita, nel secondo dopoguerra, da quel grande cattolico che era Alcide De Gasperi - e sconfesserebbe la saggia rinuncia, da parte delle stesse autorità ecclesiastiche, ad esercitare sull'Italia la pretesa di una egemonia secolare di un lontano passato. Che il Papa faccia il Papa è nell'ordine della Storia e nella Dottrina della Chiesa; ma chi, sul fronte della politica, avesse la tentazione di fargli il verso, farebbe bene a rifletterci e, soprattutto, a rinunciarci.
© Copyright Corriere della sera, 3 aprile 2013 consultabile online anche qui.
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