venerdì 12 luglio 2013

La logica della fede e della realtà. Il rapporto con la creazione nell'enciclica Lumen Fidei (Fernández)

Il rapporto con la creazione nell'enciclica di Papa Francesco

La logica della fede e della realtà

Samuel Fernández, Pontificia Università Cattolica del Cile

La nuova enciclica cerca di mostrare che la fede ha la capacità d’illuminare tutta l’esistenza, e non solo alcuni suoi aspetti (Lumen fidei, n. 4). Per questo, fin dall’inizio, nel presentare la fede di Abramo — in particolare al n. 11 — spiega il vincolo esistente tra fede e creazione. Il documento ricorda che la Parola di Dio che chiama Abramo non risulta estranea al patriarca, che al contrario la riconosce come una voce inscritta da sempre nel suo cuore. Il Dio che esorta a credere è lo stesso Dio «che è origine di tutto e sostiene tutto». La fede può aspirare a essere una luce per tutta la realtà, poiché il Dio che invita alla fede ha a che vedere con tutta la realtà: nulla gli è estraneo. Colui che «chiama Abramo» è lo stesso che «chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Romani, 4, 17); san Paolo mostra in tal modo l’unità esistente tra l’azione creatrice e l’azione salvifica di Dio. Persino nei testi più antichi del Nuovo Testamento si esprime la convinzione che tutte le cose provengono da Dio per mezzo del Signore Gesù (cfr. 1 Corinzi, 8, 6). La Parola che crea è la stessa Parola che invita a credere, perciò la fede e la realtà hanno una struttura comune su cui si fonda la loro reciproca armonia. Il Verbo fatto carne ha rilevanza universale perché «tutto è stato fatto per mezzo di lui» (Giovanni , 1, 3). La Parola illumina così le radici dell’essere: «La fede nel Figlio di Dio fatto uomo in Gesù di Nazaret non ci separa dalla realtà, ma ci permette di cogliere il suo significato più profondo» (n. 18).
Questa identità tra il Dio della fede e il Dio creatore di tutta la realtà implica una corrispondenza tra quella che potremmo chiamare la logica della fede e la logica della realtà. Se Dio non avesse nulla a che vedere con il mondo, come pensavano i manichei, o se il Salvatore fosse un Dio straniero, come pensava Marcione, allora il mondo non sarebbe comprensibile alla luce della fede e, a sua volta, la Parola della fede non sarebbe comprensibile per la società umana. Bisognerebbe scegliere tra Dio e la realtà creata. E la salvezza offerta da un Dio estraneo alla creazione consisterebbe semplicemente nel liberarsi di questo mondo. Ma il mondo è creazione di Dio e pertanto la salvezza non consiste nel rifiutare il mondo, bensì nel portarlo alla sua pienezza; poiché il mondo, sebbene ferito dal peccato e dall’ingiustizia, non smette di essere opera di Dio e, provenendo da Lui, soltanto in Lui trova la sua pienezza. Solo così «la fede si mostra universale, cattolica, perché la sua luce cresce per illuminare tutto il cosmo e tutta la storia» (n. 48). Al contrario, una visione puramente negativa del mondo smette di essere cattolica.
Questo stretto rapporto con la creazione indica che la fede non è destinata a restare solo dentro il cuore dei cristiani, e neppure nell’ambito ristretto dei credenti: «La conoscenza della fede illumina non solo il percorso particolare di un popolo, ma il corso intero del mondo creato, dalla sua origine alla sua consumazione» (n. 28). La fede permette di capire il significato della storia e dell’esistenza umana. Non si può perciò ridurre a una questione meramente individuale, «non è un fatto privato, una concezione individualistica, un’opinione soggettiva» (n. 22). Nasce da qui una delle idee su cui più insiste l’enciclica: la fede illumina le relazioni umane e perciò offre un orientamento per costruire la città comune, ovvero «fa comprendere l’architettura dei rapporti umani, perché ne coglie il fondamento ultimo e il destino definitivo in Dio» (n. 51). In tal modo la fede è anche chiamata a illuminare la sfera pubblica e a collaborare al bene comune. Di fatto è a partire da un sguardo di fede che in occidente fu scoperta la radicale dignità di ogni persona, che non era così evidente per il mondo antico (cfr. n. 54). Quando i rapporti umani non sono illuminati dalla fede, sia gli altri sia la creazione possono trasformarsi in mercanzia.
Questo vincolo tra fede e creazione, su cui insiste l’enciclica (n. 11), ha importanti conseguenze per la missione della Chiesa, poiché mostra che la teologia dell’evangelizzazione va elaborata alla luce della teologia della creazione. Un’evangelizzazione che riconosce questo vincolo si alimenta di ferme convinzioni: che la parola della fede è la chiave per comprendere la realtà in quanto tale, che la parola della fede illumina le strutture più profonde e proprie dell’essere umano e che la parola della fede non rifiuta nulla di autenticamente umano, bensì è la chiave che permette di discernere la genuina identità dell’uomo. Lo stretto vincolo esistente tra fede e creazione implica che la Parola che chiama a credere non è estranea o esterna all’uomo; anzi, nella sua novità, essa porta l’uomo ad altezze insospettabili. Su questa base, si comprende che il Vangelo non restringe la vita umana, bensì la porta alla pienezza che le è propria. Detto in parole semplici, il Vangelo non è inumano e perciò la fede non è un ostacolo, bensì uno stimolo per la vita umana. Se nell’enciclica abbondano termini come «aprirsi», «uscire» lasciarsi «illuminare», «ampliare», andare «oltre», «dilatarsi», è perché è scritta con la convinzione che la Parola della fede illumina tutta la creazione, fa uscire l’uomo dalla sua chiusura e lo proietta oltre se stesso, affinché realizzi la sua vocazione più profonda.

(©L'Osservatore Romano 13 luglio 2013)

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