domenica 7 luglio 2013

La presentazione dell'enciclica Lumen Fidei. Gli interventi del card. Ouellet e di Mons. Müller (O.R.)

Le declinazioni del noi

di Marc Ouellet

Alla trilogia di Benedetto XVI sulle virtù teologali mancava un pilastro. La Provvidenza ha voluto che il pilastro mancante fosse un dono del Papa emerito al suo successore e nello stesso tempo un simbolo d'unità, poiché assumendo e portando a compimento l'opera intrapresa dal suo predecessore, Papa Francesco rende testimonianza con lui dell'unità della fede. La luce della fede è così consegnata dall'uno all'altro Pontefice, come nelle corse allo stadio, grazie «al dono della successione apostolica» mediante la quale «è assicurata la continuità della memoria della Chiesa» come pure la «certezza di attingere alla sorgente pura dalla quale scaturisce la fede» (49).
Noi proviamo dunque una gioia particolare nel ricevere l'enciclica Lumen fidei, la cui modalità condivisa di trasmissione illustra in maniera straordinaria l'aspetto più fondamentale e originale da essa sviluppato, la dimensione della comunione nella fede. Questa enciclica parla in realtà esprimendosi in un “noi” che non è maiestatis ma bensì di comunione. Essa parla della fede come d'una esperienza di comunione, di dilatazione dell'io e di solidarietà nel cammino della Chiesa con Cristo per la salvezza dell'umanità. Io mi limiterò a illustrare questo punto di vista.
L'enciclica presenta veramente la fede cristiana come una luce proveniente dall'ascolto della Parola di Dio nella storia. Una luce che mostra l'amore di Dio all'opera per stringere un'alleanza con l'umanità. Questa luce già si lascia percepire nelle opere del Creatore ma risplende come amore nella vita, nella morte e nella risurrezione di Gesù Cristo. In Lui, la luce dell'Amore irrompe nella storia e offre agli uomini una speranza che infonde il coraggio di camminare insieme verso un avvenire di piena comunione. «Cristo è colui che, avendo sopportato la sofferenza, “dà origine alla fede e la porta a compimento”», ci dice la Lettera agli Ebrei, ampiamente ripresa dall'enciclica (Ebrei, 12, 2) (57).
Oggettivamente, la luce della fede orienta il senso della vita, porta conforto e consolazione ai cuori inquieti e abbattuti, ma impegna anche i credenti a porsi a servizio del bene comune dell'umanità attraverso l'annuncio e l'autentica condivisione della grazia ricevuta da Dio. Ecco dunque che la fede chiama i credenti ad abbracciare la sofferenza del mondo, come san Francesco e la beata Madre Teresa, al fine di spargere in esso la luce di Cristo. «La fede non è una luce tale da dissolvere tutte le nostre tenebre, ma la lampada che guida i nostri passi nella notte, e ciò è quanto basta per il cammino», afferma l'enciclica (57).
Soggettivamente, la fede è una apertura all'Amore di Cristo, un accogliere, l'entrare in una relazione che allarga l'“io” alle dimensioni di un “noi” che non è soltanto umano, nella Chiesa, ma che è propriamente divino, e cioè una partecipazione autentica al “Noi” del Padre e del Figlio nello Spirito Santo. L'enciclica insiste su questo fondamento trinitario che costituisce la fede come realtà a un tempo personale ed ecclesiale: «Questa apertura al “noi” ecclesiale si verifica come l'apertura stessa dell'amore di Dio, che non è soltanto relazione tra Padre e Figlio, tra “me” e “te”, ma che è anche nello Spirito un “noi”, una comunione tra persone» (39).
In questa luce cristologica, trinitaria ed ecclesiale, la confessione della fede acquista la sua espressione concreta con la celebrazione dei sacramenti del battesimo, della confermazione e dell'Eucaristia, in cui «il credente afferma che il centro dell'essere, il segreto più profondo d'ogni cosa, è la comunione divina» (45). Egli si trova allora «coinvolto nella verità da lui confessata» e per questo stesso fatto trasformato e «introdotto in una storia d'amore che lo afferra, che dilata il suo essere rendendolo membro d'una grande comunione», la Chiesa (45).
A partire da questo “Noi” trinitario che si prolunga nel “noi” ecclesiale, l'enciclica si riallaccia in modo del tutto naturale al “noi” della famiglia che è il luogo per eccellenza di trasmissione della fede (43). Da un lato, ciò è ben chiaro nell'esperienza del battesimo dei bambini dove i genitori, il padrino e la madrina confessano la fede in nome del piccolo, accogliendolo così nella fede della Chiesa che sempre ci precede. Da un altro lato -- ricorda l'enciclica -- sussistono profonde affinità tra la fede e l'amore senza fine che si promettono l'uomo e la donna che si uniscono in matrimonio. «Promettere un amore che sia per sempre è possibile quando si scopre un disegno più grande dei propri stessi progetti, che ci sostiene e ci permette di far dono alla persona amata dell'avvenire tutto intero» (52). Così, grazie alla fede, l'amore degli sposi ha più garanzia di durare e di unire le generazioni nella gioia della fedeltà e del servizio della vita. «La fede non è un rifugio per coloro che sono privi di coraggio, ma un'espansione della vita», conclude l'enciclica, che vede la famiglia come «il primo ambito in cui la fede rischiara la città degli uomini» (52).
L'enciclica aggiunge un considerevole sviluppo riguardo la pertinenza della fede per la vita sociale, per l'edificazione della città nella giustizia e nella pace, grazie al rispetto d'ogni persona e della sua libertà, grazie alle risorse di compassione e di riconciliazione da lei offerte per il conforto delle sofferenze e la composizione dei conflitti. «Sì, la fede è un bene per tutti, è un bene comune» (51). La tendenza a confinare la fede nella sfera della vita privata si trova qui confutata in toni pacati, ma in maniera decisiva.
Molti aspetti in precedenza sviluppati dalle encicliche sulla carità e la speranza trovano il loro complemento in questa messa in luce della fede come comunione e servizio del bene comune. «Le mani della fede s'innalzano verso il cielo ma nello stesso tempo, nella carità, esse edificano una città, sulla base di rapporti che hanno a fondamento l'amore di Dio» (51). «Se togliamo la fede dalle nostre città, si indebolirà la confidenza tra di noi» (55). In breve, mediante la fede Dio vuole «rendere solide le relazioni tra gli uomini», Egli spera che si realizzi la «grandezza della vita in comune ch'egli rende possibile» con la grazia della sua presenza (55).
In chiusura, l'enciclica contempla Maria, la figura per eccellenza della fede, colei che ha ascoltato la Parola e l'ha conservata nel suo cuore, colei che ha seguito Gesù e che si è lasciata trasformare «entrando nello sguardo del Figlio di Dio incarnato» (58). Papa Francesco riafferma al termine con il suo predecessore una verità della fede messa in disparte e a volte in certi ambienti persino posta in dubbio: «Nella concezione verginale di Maria abbiamo un chiaro segno della filiazione divina di Cristo. L'origine eterna di Cristo è nel Padre, egli è il Figlio in un senso totale e unico; e per questo egli nasce nel tempo senza l'intervento di un uomo» (59).
Accogliamo dunque con grande gioia e gratitudine questa confessione di fede integrale sotto forma di catechesi a quattro mani dei successori di Pietro. Essi espongono insieme la fede della Chiesa nella sua bellezza che «si confessa dall'interno del corpo di Cristo, come comunione concreta dei credenti» (22).

(©L'Osservatore Romano 6 luglio 2013)

Un rimedio efficace contro la tristezza di Babele

di Gerhard Ludwig Müller

Nelle meditazioni che offre quotidianamente attraverso la sua predicazione, il Santo Padre Francesco spesso ci richiama che «tutto è grazia». Tale affermazione che, di fronte alla complessità e alle contraddizioni della vita, può sembrare a qualcuno ingenua o astratta, è invece un invito a riconoscere la positività ultima della realtà.
Proprio a questo ci vuole richiamare anche la lettera enciclica Lumen fidei: la luce che proviene dalla fede, dalla Rivelazione che Dio fa di sé in Gesù Cristo e nel suo Spirito, illumina le profondità della realtà e ci aiuta a riconoscere che essa porta inscritti in sé i segni indelebili della iniziativa buona di Dio. La fede infatti, grazie alla luce che viene da Dio, è in grado di illuminare «tutto il percorso della strada» (n. 1), «tutta l'esistenza dell'uomo» (n. 4). Essa «non ci separa dalla realtà ma ci permette di cogliere il suo significato più profondo, di scoprire quanto Dio ama questo mondo e lo orienta incessantemente verso di sé» (n. 18).
È questo il messaggio centrale della lettera enciclica, che riprende alcuni temi cari a Benedetto XVI. «Queste considerazioni sulla fede -- così scrive Papa Francesco -- intendono aggiungersi a quanto Benedetto XVI ha scritto nelle Lettere encicliche sulla carità e sulla speranza. Egli aveva già quasi completato una prima stesura di Lettera enciclica sulla fede. Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi» (n. 7).
Si tratta di una circostanza fortunata che questo testo sia stato scritto, per così dire, con la mano di due Pontefici. Chi la legge può subito notare -- al di là delle differenze di stile, di sensibilità e di accenti -- la sostanziale continuità del messaggio di Papa Francesco con il magistero di Benedetto XVI.
All'origine di tutto c'è Dio e la fede in Lui è riconoscere questo fatto. Ciò dilata la ragione e il cuore dell'uomo, allarga i suoi orizzonti, lo rende sempre più vicino agli altri uomini e gli spalanca le porte di un'esistenza vissuta finalmente all'altezza della sua dignità. Sì, dobbiamo riconoscerlo: tutte le volte che non pensiamo, non agiamo, non amiamo rendendo operante la fede in Dio, non contribuiamo a edificare un mondo più umano. Anzi, così facendo, spesso generiamo una contro-testimonianza a Dio e sfiguriamo il volto della stessa Chiesa.
Nella fede viva in Dio, a cui ci introduce il suo Figlio Unigenito Gesù Cristo mediante il suo Spirito, sta la nostra grande risorsa. A partire da qui, sta o cade ogni tentativo di riforma e non soltanto nella Chiesa, poiché a questo livello è in gioco un dono che la Chiesa non può tenere solo per sé. La fede, e la vita di grazia che essa ci offre, è infatti un tesoro di bene e di verità che riguarda tutti gli uomini, poiché tutti sono chiamati a vivere in amicizia con Dio e a scoprire gli orizzonti di libertà che si schiudono a chi si lascia prendere per mano da Lui.
La fede in quel Dio che ci rivela Gesù Cristo è la vera roccia su cui l'uomo è chiamato ad edificare la sua vita e quella del mondo. Si tratta di un dono che non può essere mai presupposto «come un fatto scontato» ma che deve essere continuamente «nutrito e rafforzato» (n. 6). Grazie alla fede possiamo riconoscere che ogni giorno ci viene offerto un «grande Amore», un amore che «ci trasforma, illumina il cammino del futuro e fa crescere in noi le ali della speranza per percorrerlo con gioia» (n. 7). Grazie alla fede possiamo guardare con realismo al futuro che ci attende e nutrire una fiducia affidabile, senza lasciarci «rubare la speranza», come ripete in continuazione Papa Francesco. Fede, speranza e amore, «in un mirabile intreccio» costituiscono il dinamismo della vita dell'uomo che si apre ai doni provenienti da Dio» (cfr. n. 7).
Tutto ciò l'enciclica Lumen fidei afferma dividendosi in quattro parti, che possiamo considerare come quattro quadri di un'unica grande “pala”.
Nella prima parte, dalla fede di Abramo, l'uomo che nella voce di Dio «riconosce un appello profondo, iscritto da sempre nel profondo del suo essere» (n. 11), si passa alla fede del popolo di Israele. La storia della fede di Israele, a sua volta, è un continuo passaggio dalla «tentazione dell'incredulità» (n. 13) e dell'adorare gli idoli, «opera delle mani dell'uomo», alla confessione «dei benefici di Dio e al compiersi progressivo delle sue promesse» (n. 12). Fino alla storia di Gesù, compendio della salvezza, in cui tutte le linee della storia di Israele si raccolgono e si concentrano.
Con Gesù possiamo dire definitivamente che «abbiamo conosciuto e creduto all'Amore che Dio ha per noi» (i Giovanni, 4, 14-16), poiché egli è «la manifestazione piena dell'affidabilità di Dio» (n. 15). Con Lui la fede raggiunge la sua pienezza. Essa ci invita a riconoscere che Dio non è rimasto lontano nelle altezze del suo cielo ma si è fatto, e rimane, incontrabile in Gesù Cristo morto e risorto, presente in mezzo a noi.
Seguendo Gesù, tutta l'esistenza dell'uomo viene trasformata grazie alla fede. L'io, la personalità di colui che crede, aprendosi all'amore originario che gli è offerto nella fede (cfr. n. 21), si dilata e «diventa esistenza ecclesiale» (n. 22). Aprendoci alla comunione con i fratelli e le sorelle, la fede non ci riduce «a mero elemento di un grande ingranaggio» (n. 22) ma ci aiuta a «guadagnare fino in fondo il [nostro] proprio essere» (n. 22). «Per chi è stato trasformato in questo modo, si apre un nuovo modo di vedere» (n. 22), e la fede diventa una autentica «luce» che invita a lasciarsi trasformare sempre di nuovo dalla chiamata di Dio.
Nella seconda parte, l'enciclica pone con forza la questione della verità come questione che si colloca «al centro della fede» (n. 23). La fede riguarda perciò anche la conoscenza della realtà, è evento conoscitivo: «Senza verità, la fede non salva resta una bella fiaba oppure si riduce a un bel sentimento» (n. 24).
La domanda sulla verità e l'impegno fattivo per la ricerca della verità non possono essere eluse, così come non si può escludere a priori nella ricerca della verità il contributo offerto dalle principali tradizioni religiose, specie per quanto attiene alle grandi verità dell'esistenza umana.
Qual è il contributo che a questo riguardo offre la fede in Gesù Cristo? La fede, aprendoci all'amore che viene da Dio, trasforma il nostro modo di vedere le cose «in quanto l'amore stesso porta [in sé] una luce» (n. 26). Anche se all'uomo moderno non sembra che la questione dell'amore abbia a che fare con la verità -- dato che l'amore è oggi relegato nella sfera dei sentimenti -- «amore e verità non si possono separare» (n. 27).
L'amore è autentico quando ci lega alla verità e la verità stessa ci attira a sé con la forza dell'amore. «Questa scoperta dell'amore come fonte di conoscenza, che appartiene all'esperienza originaria di ogni uomo» ci viene testimoniata proprio «dalla concezione biblica della fede» (n. 28) ed è una delle sottolineature più belle e importanti di questa enciclica.
Per il fatto che la fede attiene alla conoscenza ed è legata alla verità, Tommaso d'Aquino può parlare di oculata fides, della fede come evento che riguarda il «vedere» (cfr. n. 30). La fede riguarda l'ascolto ma non soltanto, poiché essa è anche un «cammino dello sguardo» (n. 30) che cerca e riconosce la verità, un cammino nel quale «fede e ragione si rinforzano a vicenda» (n. 32). D'altronde già Agostino d'Ippona aveva «scoperto che tutte le cose hanno in sé una trasparenza» e possono «riflettere la bontà di Dio, il Bene» (n. 33). La fede ci aiuta dunque ad attingere in profondità i fondamenti del reale.
In questo senso, si può comprendere a che livello la luce della fede è in grado di «illuminare gli interrogativi del nostro tempo sulla verità» (n. 34), vale a dire le grandi domande che sorgono nel cuore umano di fronte alla realtà tutta, sia davanti alle sue bellezze come di fronte ai suoi drammi. E poiché la verità, cui ci introduce la fede, è legata all'amore e viene dall'amore, non è una verità di cui aver paura, perché essa non si impone con la violenza ma mira a convincere profondamente, fortiter ac suaviter nello stesso tempo.
Ecco perché l'enciclica non teme di affermare che «la fede allarga gli orizzonti della ragione per illuminare meglio il mondo che si schiude» (n. 34) sia agli studi della scienza, come alla ricerca di ogni uomo sinceramente religioso. Proprio la fede ci rivela che chi si mette in cammino per cercare la verità e il bene «già si avvicina a Dio» ed è «sorretto dal suo aiuto» (n. 35) anche senza saperlo.
Non intendo riassumere la terza e la quarta parte dell'enciclica ma vorrei solo richiamare la vostra attenzione, nel breve tempo che mi è concesso, su alcuni punti che, a mio avviso, sono di particolare rilievo. Anzitutto sul luogo genetico della fede, la quale, se è evento che tocca intimamente la persona, non rinchiude l'io in un isolato e isolante “a-tu-per-tu” con Dio. Essa, infatti, «nasce da un incontro che accade nella storia» (n. 38) e «si trasmette nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un'altra fiamma» (n. 37).
La fede, cioè, si dà sempre all'interno di una trama di relazioni che ci precede e ci eccede, in un “noi” che ci invita a uscire dalla solitudine del nostro io per collocarci in un orizzonte e in un ambito sempre più grandi, in un dialogo e in un cammino che non hanno mai termine. La stessa forma dialogata in cui è sorto il nostro Credo documenta questo fatto e questo movimento che ci collocano all'interno del “noi” ecclesiale, del nuovo soggetto cui apparteniamo attraverso la fede.
La Chiesa è il luogo in cui questo movimento della persona -- che nasce dalla fede vissuta -- si radica e da cui viene rilanciato senza sosta, aprendoci a Dio e agli altri e divenendo una nuova Weltanschauung, una peculiare visione del mondo: essa è infatti -- secondo la bella citazione di Romano Guardini -- «la portatrice storica dello sguardo plenario di Cristo sul mondo» (n. 22).
La Chiesa è il luogo da cui la fede nasce e in cui diventa esperienza che si può comunicare, cioè testimoniare in modo ragionevole e perciò affidabile: «Ciò che si comunica nella Chiesa è la luce nuova che nasce dall'incontro con il Dio vivo» (n. 40).
È proprio questo incontro con il Dio vivente ciò che la Chiesa rende possibile e che consente alla fede di esserne credibile testimonianza. Veicolo e segno efficace di questo incontro «sono i Sacramenti celebrati dalla liturgia della Chiesa» (n. 40). Perciò l'enciclica afferma che «la fede ha una [essenziale] struttura sacramentale» (40).
Da qui si può comprendere bene la natura del movimento inerente alla fede: essa ci muove, dal visibile e dal materiale, «verso il mistero [invisibile] dell'eterno» (n. 40). In questo movimento, il credente viene coinvolto con tutto se stesso nella verità che riconosce e confessa (45). Egli non può allora «pronunciare con verità le parole del Credo senza esserne per ciò stesso trasformato» (45), poiché la fede sollecita un continuo cambiamento dell'uomo impedendogli di rinchiudersi in una accomodante tranquillità.
In secondo luogo, mi sta a cuore richiamare una citazione -- presente nella terza parte dell'enciclica -- tratta dalle Omelie di san Leone Magno: «se la fede non è una, non è fede» (47). Viviamo infatti in un mondo che nonostante tutte le sue connessioni e globalizzazioni è frammentato e sezionato in molti «mondi» che, sebbene in comunicazione, sono spesso e volentieri a sé stanti e in conflitto fra loro. L'unità della fede è perciò il bene prezioso che il Santo Padre e i suoi confratelli vescovi sono chiamati a testimoniare, alimentare e garantire, come primizia di un'unità che vuole offrirsi come dono al mondo intero.
Si tratta di un'unità non monolitica, ricca e vivace di pluriformità -- Dio stesso è uno e trino -- e che si pone nello stesso tempo come origine e come missione della Chiesa, la quale per tal motivo è definita dal concilio Vaticano II come «segno e strumento» dell'unità che viene da Dio ed è destinata a abbracciare tutto il genere umano.
È un'unità che a ragione viene definita cattolica, poiché fondata sulla verità, che intende servire e valorizzare. Essa ha infatti il «potere di assimilare in sé tutto ciò che trova, nei diversi ambiti in cui si fa presente, nelle diverse culture che incontra, tutto purificando e portando alla sua migliore espressione» (48). Questa unità, poiché è fondata sulla verità, non ci depaupera di nulla, ma ci arricchisce dei doni che vengono dalla generosità del cuore di Dio e di ciascuno.
Proprio tale unità nella verità, cui ci introduce Dio -- che è Padre di tutti noi -- ci aiuta anche a ritrovare la radice della vera fraternità (53). Senza verità e senza Dio, il sogno dell'universale fratellanza partorito dalla modernità non ha possibilità di realizzarsi ed è destinato a replicare solo la triste esperienza di Babele. La fraternità, infatti, «privata del riferimento a un Padre comune quale suo fondamento ultimo, non riesce a sussistere» (54). La storia degli ultimi due secoli, purtroppo, ci offre copiosa documentazione di ciò.
Infine, un'ultima suggestione, ripresa letteralmente dal testo dell'enciclica, nella sua quarta parte. Se è vero che la fede autentica riempie di gioia ed è «una dilatazione della vita» (53) -- ecco un richiamo che accomuna concretamente Papa Francesco e Benedetto XVI -- «la luce della fede non ci fa dimenticare le sofferenze del mondo» (57) ma ci apre ad una «presenza che accompagna, [ad] una storia di bene che si unisce ad ogni storia di sofferenza, per aprire in essa un varco di luce» (57). Solo la luce che viene da Dio -- dal Dio incarnato che ha attraversato la morte e l'ha sconfitta -- è in grado di offrire una speranza affidabile di fronte al male, di fronte a ogni male che affligge la vita dell'uomo.
Insomma, l'enciclica vuole riaffermare in modo nuovo che la fede in Gesù Cristo è un bene per l'uomo ed «è un bene per tutti, è un bene comune»: «La sua luce non illumina solo l'interno della Chiesa, né serve unicamente a costruire una città eterna nell'aldilà; essa ci aiuta ad edificare le nostre società, in modo che camminiamo verso un futuro di speranza» (51).
Sono questi dei brevi accenni che vorrebbero soltanto invogliare alla lettura di questo ricco documento e invitare a gustarlo. Questa lettera enciclica può ben considerarsi un “documento”: non ci offre solo parole ma ci “documenta” la positività dello sguardo -- ed è questa la luce della fede -- di una vita che si lascia attrarre e coinvolgere totalmente da Dio. È questa d'altronde la testimonianza per cui siamo grati sia a Papa Francesco che a Benedetto XVI, due autentiche luci di fede e di speranza per l'uomo contemporaneo.

(©L'Osservatore Romano 6 luglio 2013)

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