Anche se i grandi media avrebbero preferito che Bergoglio avesse smentito il pastore tedesco
Un'enciclica che si colloca nel solco della continuità
di Gianfranco Morra
L'enciclica «Lumen fidei», in genere, è sta accolta bene. Mentre alle due precedenti encicliche di Ratzinger era andata peggio, furono fortemente criticate. Fu chiamato «oscurantista» per avere criticato illuminismo, marxismo e scientismo. Anche da preti «comodi» dell'area contestativa e no-global: come l'avellinese Vitaliano Della Sala, che gli aveva proposto di assumere Benigni come suo portavoce, e, ancor più, il lecchese Giorgio De Capitani, già famoso per l'invenzione di una «preghiera dei fedeli» per Berlusconi: «Fagli venire un ictus, Signore, e spediscilo all'inferno – noi ti preghiamo».
Questa volta le opposizioni sono state poche e pacate. Come quella del Manifesto: «Emergono i temi ratzingeriani a scapito di quelli innovativi di Papa Francesco». O quella del «teologo» Mancuso, su la Repubblica: «Nell'enciclica, come sempre, la modernità e il relativismo sono un avversario da combattere»; e, aggiunge Scalfari, «Francesco ha fatto proprio l'abbozzo di Ratzinger, non è un'enciclica seria». Dietro questi giudizi emerge la delusione perché si sperava che il papa argentino avrebbe messo il guinzaglio al «pastore tedesco», del quale invece ha assunto come propria la linea tradizionalista (ma non perciò conservatrice).
L'enciclica ha presentato i suoi genitori: una madre, la Tradizione, che, dal latino tradere, significa portare avanti e consegnare; e un Padre, il Rinnovamento, che, dal latino re-novare (non «in-novare»!), non indica la creazione del “nuovo”, ma una continua riforma per “rendere nuovo”. Nella tradizione bimillenaria della Chiesa entrambi ci sono dentro: sia Ratzinger, che aveva condannato, nel 1984-86, la sudamericana «teologia della liberazione» e il suo criptomarxismo; sia Bergoglio, che in Argentina aveva usato la definizione marxista della religione («oppio dei popoli») per qualificare il capitalismo sfrenato come nuova droga per i poveri.
Entrambi i pontefici si collocano dentro la tradizione autentica, anche se sono consapevoli dei radicali mutamenti socioculturali della modernità, che richiedono un deciso rinnovamento («nova et vetera»). Differenze di natura e di formazione non mancano, ma dentro un deposito comune di fede. Che Francesco I ha testimoniato assumendo la «Lumen fidei» ratzingeriana come il programma preliminare del suo papato. Non è un caso che l'Enciclica riproponga come unico matrimonio quello eterosessuale («sesso», non «gender»!) e ne rifiuti ogni altra variante: come aveva fatto in Argentina, nella sua lotta senza successo contro il matrimonio dei gay, il Vescovo Bergoglio.
Un segno evidente di continuità. Che mostra l'artificiosità dello schema largamente usato dai media, in parte notevole espressione della cultura del vuoto, per definire, di volta in volta, i pontefici: prima il papa «cattivo» (Pio XII), poi quello «buono» (Giovanni XXIII), poi il papa incerto (Paolo «mesto»). E ancora il papa polacco, attivo ma «premoderno» (Giovanni Paolo II), poi quello «reazionario» (Benedetto XVI) e ora quello «progressista».
Fortuna ha voluto che, per la prima volta, due papi, considerati dall'establishment mediatico l'uno il contrario dell'altro, hanno scritto insieme e si sono presentati come due momenti di un unico cammino. Ecco perché Francesco I, il giorno stesso della presentazione dell'Enciclica, ha aperto definitivamente la via dell'altare a due papi considerati così diversi, Roncalli e Wojtyla: colui che aprì un necessario Concilio, che nulla ha cambiato nelle verità della fede, ma è stato molto innovativo sul piano pastorale (l'«aggiornamento»); e colui che del post-concilio frenò gli eccessi per portare avanti le proposte positive del concilio (riscoperta della Bibbia, rifiuto della burocratizzazione della Chiesa, superamento di non pochi formalismi, semplificazione dei rapporti tra pastori e fedeli, ruolo ecclesiale del laicato maschile e femminile).
Dunque papa Bergoglio ha voluto porre sullo stesso piano di santità sia il «papa buono» (forse non lo è stato solo lui), sia il «papa polacco», come due momenti che si integrano: «Gesù senza la Chiesa è un assurdo». Accusare l'enciclica di condannare la modernità è possibile solo a chi non si è reso conto (come ci insegna tutta la filosofia laicista) che i miti della modernità sono estinti. E che la loro crisi si è per ora tradotta in una cultura «postmoderna», debole, relativista, narcisista.
I due papi vogliono inserire il Vangelo anche in questo difficile momento di passaggio dalla «modernità nichilista» (Nietzsche, citato nell'enciclica) alla «postmodernità liquida» (Bauman). E la loro enciclica ci mostra che occorre rifiutare l'immotivato conflitto tra cattolici reazionari e progressisti. Né il trionfalismo dei «ruminanti», né la distruttività dei «montoni» (Maritain): «Dobbiamo camminare insieme per edificare la Chiesa, un tesoro da far crescere» (Francesco I).
© Copyright Italia Oggi, 9 luglio 2013
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