giovedì 30 giugno 2016

Che tristezza gli articoli e i commenti sul 65° anniversario di sacerdozio di Papa Benedetto (Raffaella)

Carissimi Amici,
ieri abbiamo ricordato il 65° anniversario dell'ordinazione sacerdotale di Joseph Ratzinger. E' stata una giornata di gioia consacrata soprattutto alla preghiera. Per questo motivo ho voluto evitare ogni polemica anche se, devo confessarlo, le dita "friggevano" sulla tastiera.
Come avrete notato ho riportato pochissimi articoli sulla commemorazione di martedì scorso. Perché? Semplice! In tutta onestà, e mi rincresce scriverlo, non ho letto nulla che valesse la pena di essere segnalato salvo i testi che trovate sul blog.
In generale i commenti si possono dividere in tre grandi categorie:
1) quelli copia - incolla (letto uno li hai letti tutti). Questi articoli e/o servizi televisivi ignorano completamente il discorso di Papa Benedetto soffermandosi sulle parole di gratitudine pronunciate. Morale della favola: tutto va bene, tutto è perfetto, c'è una continuità perfetta e gli uccellini cantano beati sugli alberi;
2) quelli offensivi verso chi vuole sinceramente bene a Papa Benedetto. Costoro vengono chiamati con disprezzo "ratzingeriani", come se fosse un insulto. Personalmente vado fiera di essere ratzingeriana e non accetto predicozzi soprattutto quando provengono da certi "pulpiti";
3) quelli gravemente offensivi verso Papa Benedetto. Questi articoli e/o editoriali ripropongono fino alla nausea i continui confronti fra Pontefici nel disperato tentativo di dimostrare che il Papa cattivo e superato è quello che si è dimesso. Si presentano come "omaggi" al Papa emerito ma spargono veleno e seminano insinuazioni. Lo scopo è dimostrare che Benedetto XVI merita di essere menzionato solo per un merito, quello di essersi dimesso.

In queste condizioni, cari amici, come si fa a segnalare certi scritti?
Tutta questa ansia di consegnare Papa Benedetto alla storia o, meglio, ad un passato oscuro mi spinge a fare qualche riflessione.
Qualcuno si è permesso di dire che il Pontificato di Joseph Ratzinger va rivalutato. Che cosa? E chi mai l'ha sottovalutato? Saranno stati lorsignori ma non certo chi ha sempre seguito il Papa con affetto e dedizione.
Come mai c'è tutto questo nervosismo? Come mai una persona così mite e gentile come Ratzinger riesce a suscitare tanto risentimento anche ora che si è messo da parte e che non interviene mai nel dibattito ecclesiale?
La verità è che Papa Benedetto dà fastidio ora come ha sempre dato fastidio in passato perché è sempre stato e continua a essere un faro, una luce, una guida al di là degli sforzi dell'universo mondo (ecclesiale e non) di metterlo da parte.
Quella sua insistenza nel ribadire la Verità è irritante, quella sua pretesa di non uniformarsi alla mentalità dominante non è concepibile, quella sua testardaggine di non piacere a tutti i costi alla gente che piace è fastidiosa perché disturba il "manovratore".
Per tutti questi motivi Ratzinger non ha mai goduto della simpatia dei poteri forti, dei grandi giornali, dei potenti del mondo. Avrebbe potuto anche camminare su una fune con la testa rovesciata ma non sarebbe servito a nulla. Tutto era già stato deciso in anticipo.
In quegli otto anni di Pontificato spesso ci siamo chiesti come mai tutto ciò che il Papa faceva e diceva non era mai sufficiente. Ora sappiamo la risposta: c'era una chiara e precisa volontà di distruggere il Pontefice e con lui la chiesa. Certo anche il clero ha fatto la sua parte nel mettere i bastoni fra le ruote al Papa. Oggi non si ode più la voce di questo o quel prelato, questo o quel cardinale. Che bella sinodalità! Tutti tacciono perché acconsentono? Non penso proprio ma non è un problema mio. Chi è causa del suo mal...
In queste ultime settimane abbiamo assistito a tutta una serie di nasi storti, di capelli strappati, di vestiti sgualciti perché si è tornati a parlare del ruolo del Papa emerito. Ma come? Ma che vergogna! Ma quale ruolo?  Deve starsene buono e tranquillo, senza parlare, senza disturbare e senza suscitare entusiasmi nei ratzingeriani. Due Papi? No! Eresia!
In realtà il diritto canonico consente al Papa di rinunciare al suo ministero. In questo caso si convoca un conclave e si elegge un nuovo Papa che quindi è pienamente legittimo. Di conseguenza le dimissioni del Pontefice emerito, se e solo se rassegnante in ASSOLUTA libertà, sono pienamente valide.
Perché allora agitarsi tanto? Perché tutti questi tentativi di sminuire la persona e il Pontificato di Papa Benedetto? Il Papa è uno solo e allora perché si è così ossessionati dalla volontà di convincere il prossimo della normalità della situazione?
Vi confesso che percepisco qualcosa nell'aria ma non so mettere a fuoco la situazione.
Sicuramente la chiesa attuale viaggia ancora con il vento mediatico in poppa ma qualcosa è cambiato. C'è questa sottile e ormai percettibile insicurezza che porta alcuni commentatori a esagerare e a sforare quasi nell'offesa a Papa Benedetto pur di esaltare e di difendere con le unghie e i denti lo status quo che evidentemente scricchiola non a livello mediatico ma a livello della "base", dei fedeli, che si sentono sempre più confusi e che, quindi, guardano a Papa Benedetto per avere conforto non certo perché egli sia stato un carabiniere della fede, ma perché egli incarna la figura del Papa, del vescovo e del cristiano che non retrocede di fronte alla Verità.
Cari signori, preoccupatevi di spiegare quanto sta accadendo nella chiesa e, per favore, lasciate in pace Papa Benedetto.
C'è tanto da scrivere e da analizzare e allora coraggio! Non sono d'aiuto alla chiesa i servizi che mostrano bambini caricati sulla papamobile o commenti basati solo su questa o quella parola a effetto. Dopo più di tre anni gli articoli più "pepati" hanno ancora come protagonista Papa Benedetto. Nessuno si accorge che la cosa è quanto meno bizzarra? :-)
Raffaella

Joseph Ratzinger 65 anni dopo (Magister)

Clicca qui per leggere il commento di Magister e il testo del sempre più brillante Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede :-)

mercoledì 29 giugno 2016

65° Anniversario dell'ordinazione sacerdotale di Benedetto XVI: l'omaggio del blog (YouTube)



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Il 29 giugno 1951 l'allora ventiquattrenne Joseph Ratzinger veniva ordinato sacerdote a Frisinga insieme al fratello maggiore George al quale estendiamo i nostri sinceri auguri.
In questo video, realizzato da Gemma, rivediamo le immagini di quel giorno così importante arricchite dal racconto del Santo Padre e dalle parole scritte dall'allora cardinale Ratzinger nell'autobiografia "La mia vita". 
Il video è impreziosito anche da altre immagini che hanno visto il futuro Benedetto XVI crescere come sacerdote e come uomo.
Auguri, Papa Benedetto! 
Ad multos annos! Le vogliamo bene e La abbracciamo.
Il Blog

P.S. un grandissimo ringraziamento a Gemma per il lavoro fatto in questa e in tutte le altre occasioni :-)

martedì 28 giugno 2016

Benedetto XVI: Cristo ha trasformato in ringraziamento, e così in benedizione, la croce, la sofferenza...

Commemorazione del 65° anniversario di Ordinazione Sacerdotale del Papa emerito Benedetto XVI, 28.06.2016

Parole di ringraziamento del Papa emerito Benedetto XVI

Santo Padre, cari fratelli,

65 anni fa, un fratello ordinato con me ha deciso di scrivere sulla immaginetta di ricordo della prima Messa soltanto, eccetto il nome e le date, una parola, in greco: “Eucharistomen”, convinto che con questa parola, nelle sue tante dimensioni, è già detto tutto quanto si possa dire in questo momento. “Eucharistomen” dice un grazie umano, grazie a tutti. Grazie soprattutto a Lei, Santo Padre! La Sua bontà, dal primo momento dell’elezione, in ogni momento della mia vita qui, mi colpisce, mi porta realmente, interiormente. Più che nei Giardini Vaticani, con la loro bellezza, la Sua bontà è il luogo dove abito: mi sento protetto. Grazie anche della parola di ringraziamento, di tutto. E speriamo che Lei potrà andare avanti con noi tutti su questa via della Misericordia Divina, mostrando la strada di Gesù, verso Gesù, verso Dio.

Grazie pure a Lei, Eminenza [Cardinale Sodano], per le Sue parole che hanno veramente toccato il cuore: “Cor ad cor loquitur”. Lei ha reso presente sia l’ora della mia ordinazione sacerdotale, sia anche la mia visita nel 2006 a Freising, dove ho rivissuto questo. Posso solo dire che così, con queste parole, Lei ha interpretato l’essenziale della mia visione del sacerdozio, del mio operare. Le sono grato per il legame di amicizia che fino adesso continua da tanto tempo, da tetto a tetto [si riferisce alle loro abitazioni che sono in linea d’aria vicine]: è quasi presente e tangibile.

Grazie, Cardinale Müller, per il Suo lavoro che fa per la presentazione dei miei testi sul sacerdozio, nei quali cerco di aiutare anche i confratelli a entrare sempre di nuovo nel mistero in cui il Signore si dà nelle nostre mani.

“Eucharistomen”: in quel momento l’amico Berger voleva accennare non solo alla dimensione del ringraziamento umano, ma naturalmente alla parola più profonda che si nasconde, che appare nella Liturgia, nella Scrittura, nelle parole “gratias agens benedixit fregit deditque”. 

“Eucharistomen” ci rimanda a quella realtà di ringraziamento, a quella nuova dimensione che Cristo ha dato. Lui ha trasformato in ringraziamento, e così in benedizione, la croce, la sofferenza, tutto il male del mondo. E così fondamentalmente ha transustanziato la vita e il mondo e ci ha dato e ci dà ogni giorno il Pane della vera vita, che supera il mondo grazie alla forza del Suo amore.

Alla fine, vogliamo inserirci in questo “grazie” del Signore, e così ricevere realmente la novità della vita e aiutare per la transustanziazione del mondo: che sia un mondo non di morte, ma di vita; un mondo nel quale l’amore ha vinto la morte.

Grazie a tutti voi. Il Signore ci benedica tutti.

Grazie, Santo Padre.

Che emozione risentire la voce di Papa Benedetto! (Raffaella)

Carissimi Amici,
oggi non posso proprio nascondere la mia emozione per avere risentito la voce di Papa Benedetto. Anche in questa occasione il Santo Padre ha tenuto, completamente "a braccio" e in un italiano perfetto, una vera e propria lezione di teologia e di umanità ritornando con il ricordo al 29 giugno di 65 anni fa.
Certo! La voce di Benedetto risente un po' del passare del tempo, ma la sua mente è limpida e il suo sguardo non è cambiato in nulla. Quando parla si ha come la sensazione che egli abbia la serenità dei Santi. Personalmente mi è mancato molto quello sguardo così come il suo sorriso. Davvero una grandissima emozione. 
E' un vero peccato (e uno spreco) che egli non intervenga più spesso a riscaldare il nostro cuore e a illuminare le nostre menti.
Grazie, caro Papa Benedetto, per la Sua presenza e per il Suo esempio.
Un abbraccio filiale da tutti noi.
Raffaella

p.s. un applauso senza riserve al cardinale Müller che ha tenuto un discorso bellissimo sotto molti punti di vista :-)

"Non servos, sed amicos": 65° anniversario di Ordinazione Sacerdotale di Benedetto XVI (YouTube)



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Carissimi amici, alla vigilia del 65° anniversario di ordinazione sacerdotale di Papa Benedetto, gustiamoci questo bellissimo video realizzato da Gemma (che ringraziamo sempre per l'impegno senza pari) per gli Amici de La Vigna del Signore #‎BenedettoSacerdote65‬
Oggi, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico, ci sarà un omaggio a Benedetto XVI. Diretta su Tv2000 e Telepace a partire dalle 12.
R.

lunedì 27 giugno 2016

Benedetto XVI ricorda commosso il momento della sua ordinazione sacerdotale a Frisinga (29 giugno 1951)



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Grazie alla nostra Gemma torniamo con il pensiero e la preghiera a quel 29 giugno di 65 anni fa.

In occasione del suo Viaggio Apostolico in Baviera, nel settembre del 2006, Benedetto XVI incontrò i diaconi permanenti della Regione tedesca a Frisinga, nella Cattedrale di San Corbiniano, la stessa in cui il 29 giugno 1951 fu ordinato sacerdote. Commosso e commovente il racconto del Santo Padre.
Una trascrizione sommaria del discorso tenuto da Benedetto XVI completamente "a braccio" è riportata di seguito. 
Prepariamoci con la preghiera a ricordare il 65° anniversario di ordinazione di Papa Benedetto :-)
R.

INCONTRO CON I SACERDOTI E I DIACONI PERMANENTI DELLA BAVIERA

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Cattedrale di S. Maria e S. Corbiniano, Freising
Giovedì, 14 settembre 2006

Cari Confratelli nel ministero vescovile e sacerdotale,
Cari fratelli e sorelle!

È questo per me un momento di gioia e di grande gratitudine – gratitudine per tutto ciò che durante questa visita pastorale in Baviera ho potuto vivere e ricevere. Tanta cordialità, tanta fede, tanta gioia in Dio – una esperienza che mi ha colpito profondamente e mi accompagnerà come fonte di nuovo vigore. Gratitudine, poi, in particolare per il fatto che ora, alla fine, sono potuto ancora tornare nel Duomo di Freising ed ho potuto vederlo nel suo nuovo, splendido aspetto. Grazie al Cardinale Wetter, grazie agli altri due Vescovi bavaresi, grazie a tutti coloro che hanno collaborato, grazie alla Provvidenza che ha reso possibile il restauro del Duomo che si presenta ora in questa sua nuova bellezza! Ora, che mi trovo in questa Cattedrale, riemergono nel mio intimo tanti ricordi alla vista degli antichi compagni e dei giovani sacerdoti che trasmettono il messaggio, la fiaccola della fede. 
Emergono i ricordi della mia ordinazione, a cui il Cardinale Wetter ha accennato: quando ero qui prostrato per terra e, come avvolto dalle Litanie di tutti i santi, dall’intercessione di tutti i santi, mi rendevo conto che su questa via non siamo soli, ma che la grande schiera dei santi cammina con noi e i santi ancora vivi, i fedeli di oggi e di domani, ci sostengono e ci accompagnano. Poi vi fu il momento dell’imposizione delle mani… e infine, quando il Cardinale Faulhaber ci gridò: “Iam non dico vos servos, sed amicos” – “Non vi chiamo più servi, ma amici”, allora ho sperimentato l’ordinazione sacerdotale come iniziazione nella comunità degli amici di Gesù, che sono chiamati a stare con Lui e ad annunciare il suo messaggio.
Poi il ricordo che qui io stesso ho potuto ordinare sacerdoti e diaconi, che sono adesso impegnati nel servizio del Vangelo e per molti anni – ormai sono decenni – hanno trasmesso il messaggio e lo trasmettono tuttora. E poi penso naturalmente alle processioni di san Corbiniano. 
Allora era ancora consuetudine di aprire il reliquiario. E poiché il Vescovo aveva il suo posto dietro l'urna, potevo guardare direttamente il cranio di san Corbiniano e vedermi così nella processione dei secoli che percorre la via della fede – potevo vedere che, in questa grande "processione dei tempi", possiamo camminare anche noi facendo sì che essa avanzi verso il futuro, una cosa che diventava chiara quando il corteo passava nel chiostro vicino ai tanti bambini lì raccolti, ai quali potevo tracciare sulla fronte la croce di benedizione. In questo momento facciamo ancora quell'esperienza, che cioè stiamo nella grande processione, nel pellegrinaggio del Vangelo, che possiamo essere insieme pellegrini e guide di questo pellegrinaggio e che, seguendo coloro che hanno seguito Cristo, seguiamo con loro Lui stesso ed entriamo così nella luce. 
Dovendo ora introdurmi nell'omelia, vorrei soffermarmi su due punti soltanto. Il primo è relativo al Vangelo appena proclamato – un brano che tutti noi abbiamo già tante volte ascoltato, interpretato e meditato nel nostro cuore. “La messe è molta”, dice il Signore. E quando dice: “…è molta”, non si riferisce soltanto a quel momento e a quelle vie della Palestina su cui pellegrinava durante la sua vita terrena; è parola che vale anche per oggi. Ciò significa: nei cuori degli uomini cresce una messe. Ciò significa, ancora una volta: nel loro intimo c’è l’attesa di Dio; l’attesa di una direttiva che sia luce, che indichi la via. L’attesa di una parola che sia più che una semplice parola. 
La speranza, l’attesa dell’amore che, al di là dell’attimo presente, eternamente ci sostenga e ci accolga. La messe è molta e attende operai in tutte le generazioni. E in tutte le generazioni, pur se in modo differente, vale sempre anche l'altra parola: gli operai sono pochi.
“Pregate il padrone della messe che mandi operai!” Ciò significa: la messe c’è, ma Dio vuole servirsi degli uomini, perché essa venga portata nel granaio. Dio ha bisogno di uomini. Ha bisogno di persone che dicano: Sì, io sono disposto a diventare il Tuo operaio per la messe, sono disposto ad aiutare affinché questa messe che sta maturando nei cuori degli uomini possa veramente entrare nei granai dell’eternità e diventare perenne comunione divina di gioia e di amore. “Pregate il padrone della messe!” 
Questo vuol dire anche: non possiamo semplicemente “produrre” vocazioni, esse devono venire da Dio. Non possiamo, come forse in altre professioni, per mezzo di una propaganda ben mirata, mediante, per cosi dire, strategie adeguate, semplicemente reclutare delle persone. 
La chiamata, partendo dal cuore di Dio, deve sempre trovare la via al cuore dell’uomo. E tuttavia: proprio perché arrivi nei cuori degli uomini è necessaria anche la nostra collaborazione. Chiederlo al padrone della messe significa certamente innanzitutto pregare per questo, scuotere il suo cuore e dire: “Fallo per favore! Risveglia gli uomini! Accendi in loro l’entusiasmo e la gioia per il Vangelo! Fa' loro capire che questo è il tesoro più prezioso di ogni altro tesoro e che colui che l’ha scoperto deve trasmetterlo!” 
Noi scuotiamo il cuore di Dio. Ma il pregare Dio non si realizza soltanto mediante parole di preghiera; comporta anche un mutamento della parola in azione, affinché dal nostro cuore orante scocchi poi la scintilla della gioia in Dio, della gioia per il Vangelo, e susciti in altri cuori la disponibilità a dire un loro “sì”. 
Come persone di preghiera, colme della Sua luce, raggiungiamo gli altri e, coinvolgendoli nella nostra preghiera, li facciamo entrare nel raggio della presenza di Dio, il quale farà poi la sua parte. In questo senso vogliamo sempre di nuovo pregare il Padrone della messe, scuotere il suo cuore, e con Dio toccare nella nostra preghiera anche i cuori degli uomini, perché Egli, secondo la sua volontà, vi faccia maturare il “sì”, la disponibilità; la costanza, attraverso tutte le confusioni del tempo, attraverso il calore della giornata ed anche attraverso il buio della notte, di perseverare fedelmente nel servizio, traendo proprio da esso continuamente la consapevolezza che – anche se faticoso – questo sforzo è bello, è utile, perché conduce all’essenziale, ad ottenere cioè che gli uomini ricevano ciò che attendono: la luce di Dio e l’amore di Dio.
Il secondo punto che vorrei trattare è una questione pratica. Il numero dei sacerdoti è diminuito, anche se in questo momento possiamo costatare che tuttavia ci siamo veramente, che pure oggi ci sono sacerdoti giovani ed anziani e che esistono giovani che si incamminano verso il sacerdozio. Ma i gravami sono diventati più pesanti: gestire due, tre, quattro parrocchie insieme, e questo con tutti i nuovi compiti che si sono aggiunti – è cosa che può risultare scoraggiante. Spesso mi si presenta la domanda, anzi ogni singolo la pone a se stesso e ai Confratelli: ma come possiamo farcela? Non è questa forse una professione che ci consuma, nella quale alla fine non possiamo più provare gioia vedendo che, per quanto possiamo fare, non basta mai? Tutto questo ci sovraffatica!
Che cosa si può rispondere? Naturalmente non posso dare delle ricette infallibili; vorrei tuttavia comunicare alcune indicazioni fondamentali. La prima la prendo dalla Lettera ai Filippesi (cfr 2, 5-8), dove san Paolo dice a tutti – e naturalmente in modo particolare a quanti lavorano nel campo di Dio – che dobbiamo "avere in noi i sentimenti di Gesù Cristo". I suoi sentimenti erano tali che Egli, di fronte al destino dell’uomo, quasi non sopportò più la sua esistenza nella gloria, ma dovette scendere e assumere l’incredibile, l’intera miseria di una vita umana fino all’ora della sofferenza sulla croce. Questo è il sentimento di Gesù Cristo: sentirsi spinto a portare agli uomini la luce del Padre, ad aiutarli perché con loro ed in loro si formi il Regno di Dio. E il sentimento di Gesù Cristo consiste contemporaneamente nel fatto che Egli resta sempre radicato profondamente nella comunione col Padre, immerso in essa. 
Lo vediamo, per così dire, dall'esterno nel fatto che gli Evangelisti ci raccontano ripetutamente che Egli si ritira sul monte, da solo, a pregare. Il suo operare nasce dal suo essere immerso nel Padre: proprio per questo suo essere immerso nel Padre, Egli deve uscire e percorrere tutti i villaggi e le città per annunciare il Regno di Dio, cioè la sua presenza, il suo "esserci" in mezzo a noi; perché il Regno diventi presente in noi e, mediante noi, trasformi il mondo; perché la sua volontà sia fatta come in cielo così in terra e il cielo arrivi sulla terra. Questi due aspetti fanno parte dei sentimenti di Gesù Cristo. Da una parte, conoscere Dio dal di dentro, conoscere Cristo dal di dentro, stare insieme con Lui; solo se questo si realizza, scopriamo veramente il "tesoro". Dall’altra parte, dobbiamo anche andare verso gli uomini. Il "tesoro" non possiamo più tenerlo per noi stessi, ma dobbiamo trasmetterlo.
Questa indicazione fondamentale con i suoi due aspetti vorrei tradurre ulteriormente nel concreto: occorre che vi sia l’insieme di zelo e di umiltà, del riconoscimento cioè dei propri limiti. Da una parte lo zelo: se veramente incontriamo Cristo sempre di nuovo, non possiamo tenercelo per noi stessi. Ci sentiamo spinti ad andare verso i poveri, gli anziani, i deboli, e così pure verso i bambini e i giovani, verso le persone nel pieno della loro vita; ci sentiamo spinti ad essere "annunciatori", apostoli di Cristo
Ma questo zelo, per non diventare vuoto e logorante per noi, deve collegarsi con l’umiltà, con la moderazione, con l’accettazione dei nostri limiti. Quante cose dovrebbero essere fatte – vedo che non ne sono capace. Ciò vale per i parroci – almeno immagino, in quale misura – ciò vale anche per il Papa: egli dovrebbe fare tante cose! E le mie forze semplicemente non bastano. Così devo imparare a fare ciò che posso e lasciare il resto a Dio e ai miei collaboratori e dire: “In definitiva sei Tu che devi farlo, poiché la Chiesa è Tua. E Tu mi dai solo l’energia che possiedo. Sia donata a Te, perché proviene da Te; il resto, appunto, lo lascio a Te”. Credo, che l’umiltà di accettare questo – “qui finisce la mia energia, lascio a Te, Signore, di fare il resto” – tale umiltà è decisiva. Ed avere poi la fiducia: Egli mi donerà anche i collaboratori che mi aiuteranno e faranno quello che io non riesco a fare.
E ancora, “tradotto” a un terzo livello, questo insieme di zelo e di moderazione significa poi anche l’insieme di servizio in tutte le sue dimensioni e di interiorità. Possiamo servire gli altri, possiamo donare solo se personalmente anche riceviamo, se noi stessi non ci svuotiamo. 
E la Chiesa per questo ci propone degli spazi liberi che, da una parte, sono spazi per un nuovo "espirare" ed "inspirare" e, d’altra parte, diventano centro e fonte del servire. Vi è innanzitutto la celebrazione quotidiana della Santa Messa: non compiamola come una cosa di routine, che in qualche modo, "devo fare", ma celebriamola "dal di dentro"! Immedesimiamoci con le parole, con le azioni, con l’avvenimento che lì è realtà! 
Se noi celebriamo la Messa pregando, se il nostro dire: “Questo è il mio Corpo” nasce veramente dalla comunione con Gesù Cristo che ci ha imposto le mani e ci ha autorizzato a parlare con il suo stesso Io, se noi realizziamo l'Eucaristia con intima partecipazione nella fede e nella preghiera, allora essa non si riduce ad un dovere esterno, allora l’“ars celebrandi” viene da sé, perché consiste appunto nel celebrare partendo dal Signore e in comunione con Lui, e così nel modo giusto anche per gli uomini. Allora noi stessi ne riceviamo in dono sempre di nuovo un grande arricchimento e al contempo trasmettiamo agli uomini più di quello che è nostro, vale a dire: la presenza del Signore.
L’altro spazio libero che la Chiesa, per così dire, ci impone e così anche ci libera donandocelo, è la Liturgia delle Ore. Cerchiamo di recitarla come vera preghiera, preghiera in comunione con l’Israele dell’Antica e della Nuova Alleanza, preghiera in comunione con gli oranti di tutti i secoli, preghiera in comunione con Gesù Cristo, preghiera che sale dall’Io più profondo, dal soggetto più profondo di queste preghiere. E pregando così, coinvolgiamo in questa preghiera anche gli altri uomini che per questo non hanno il tempo o l’energia o la capacità. Noi stessi, come persone oranti, preghiamo in rappresentanza degli altri, svolgendo con ciò un ministero pastorale di primo grado. Questo non è un ritirarsi nel privato, ma è una priorità pastorale, è un’azione pastorale, nella quale noi stessi diventiamo nuovamente sacerdoti, veniamo nuovamente colmati di Cristo, includiamo gli altri nella comunione della Chiesa orante e, al contempo, lasciamo emanare la forza della preghiera, la presenza di Gesù Cristo, in questo mondo.
Il motto di questi giorni era: “Chi crede, non è mai solo”. Questa parola vale e deve valere proprio anche per noi sacerdoti, per ciascuno di noi. E di nuovo vale sotto un duplice aspetto: chi è sacerdote non è mai solo, perché Gesù Cristo è sempre con lui. Egli è con noi; stiamo anche noi con Lui! Ma deve valere anche nell’altro senso: chi si fa sacerdote, viene introdotto in un presbiterio, in una comunità di sacerdoti con il Vescovo. Ed egli è sacerdote nell’essere in comunione con i suoi confratelli. 
Impegniamoci perché questo non resti soltanto un precetto teologico e giuridico, ma diventi esperienza concreta per ciascuno di noi. Doniamoci a vicenda questa comunione, doniamola specialmente a coloro che, sappiamo, soffrono di solitudine, sono oppressi da interrogativi e problemi, forse da dubbi e incertezze! 
Doniamoci a vicenda questa comunione, allora sperimenteremo sempre di nuovo in questo essere con l’altro, con gli altri, tanto di più e in modo più gioioso anche la comunione con Gesù Cristo! Amen.


© Copyright 2006 - Libreria Editrice Vaticana

Benedetto XVI incontra nel Duomo di Frisinga i sacerdoti ordinati con lui il 29 giugno 1951



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Festosissima accoglienza per Benedetto XVI nella Cattedrale di S. Maria e S. Corbiniano a Freising (Baviera) il 14 settembre 2006. Il Papa incontra i fedeli e soprattutto i sacerdoti ed i diaconi bavaresi. Ha anche la possibilità di rivedere alcuni sacerdoti ordinati insieme a lui nella medesima Cattedrale il 29 giugno 1951 (fra loro anche il fratello maggiore, Mons. Georg Ratzinger).
Palpabili la commozione e la felicità di Papa Benedetto.
Grazie come sempre a Gemma :-)

domenica 26 giugno 2016

Benedetto XVI racconta la sua esperienza di seminarista a Frisinga (YouTube)



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Buona domenica Amici!!! Un'altra lezione di Papa Benedetto regalataci dalla nostra Gemma.
In occasione dell'allora tradizionale visita al seminario romano maggiore, il 17 febbraio 2007, Benedetto XVI raccontò ai giovani la sua esperienza da seminarista a Frisinga. Molto importante ed istruttiva questa riflessione. C'è spazio anche per i sorrisi e una bella risata :-)
Rileggiamo e riascoltiamo.

INCONTRO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI CON I SEMINARISTI

Sabato, 17 febbraio 2007


DOMANDE DEI SEMINARISTI E RISPOSTE DEL SANTO PADRE

CLAUDIO FABBRI: DIOCESI DI ROMA del II anno (2° FILOSOFIA)

2. Padre Santo, come era articolata la sua vita nel periodo della formazione al sacerdozio e quali interessi coltivava? Considerando l’esperienza fatta, quali sono i punti cardine della formazione al sacerdozio? In particolare, Maria, quale posto occupa in essa?

“Io penso che la nostra vita, nel nostro seminario di Frisinga, era articolata in modo molto simile al vostro, anche se non conosco precisamente il vostro orario quotidiano. Si cominciava, mi sembra, alle 6.30, alle 7, con una meditazione di una mezz’ora, nella quale ognuno in silenzio parlava col Signore, cercava di predisporre l’animo alla Sacra  Liturgia. Poi seguiva la Santa Messa, la colazione e poi, nella mattinata, le lezioni.

Nel pomeriggio seminari, tempi di studio, e poi ancora la preghiera comune. La sera, i cosiddetti “puncta”, cioè il direttore spirituale o il rettore del seminario, nelle diverse sere, ci parlavano per aiutarci a trovare il cammino della meditazione, non dandoci una meditazione già fatta, ma degli elementi che potevano aiutare ognuno a personalizzare le Parole del Signore che sarebbero state oggetto della nostra meditazione.

Così il percorso giorno per giorno; poi naturalmente c’erano le grandi feste con una bella liturgia, musica… 
Ma, mi sembra, e forse ritornerò su questo alla fine, che sia molto importante avere una disciplina che mi precede e non dovere ogni giorno, di nuovo, inventare cosa fare, come vivere; c’è una regola, una disciplina che già mi aspetta e mi aiuta a vivere ordinatamente questo giorno.

Adesso, quanto alle mie preferenze, naturalmente seguivo con attenzione, in quanto potevo, le lezioni. Inizialmente, nei due primi anni la filosofia, mi ha affascinato, fin dall’inizio soprattutto la figura di Sant’Agostino e poi anche la corrente agostiniana nel Medioevo: San Bonaventura, i grandi francescani, la figura di San Francesco d’Assisi.

Per me era affascinante soprattutto la grande umanità di Sant’Agostino, che non ebbe la possibilità semplicemente di identificarsi con la Chiesa perché catecumeno fin dall’inizio, ma che dovette invece lottare spiritualmente per trovare man mano l’accesso alla Parola di Dio, alla vita con Dio, fino al grande sì detto alla sua Chiesa.

Questo cammino così umano, dove anche oggi possiamo vedere come si comincia ad entrare in contatto con Dio, come tutte le resistenze della nostra natura debbano essere prese sul serio e poi debbano anche essere canalizzate per arrivare al grande sì al Signore. Così mi ha conquistato la sua teologia molto personale, sviluppata soprattutto nella predicazione. Questo è importante, perché inizialmente Agostino voleva vivere una vita puramente contemplativa, scrivere altri libri di filosofia…, ma il Signore non l’ha voluto, l’ha fatto sacerdote e vescovo e così tutto il resto della sua vita, della sua opera, si è sviluppato sostanzialmente nel dialogo con un popolo molto semplice. Egli dovette sempre, da una parte, trovare personalmente il significato della Scrittura e, dall’altra, tenere conto della capacità di questa gente, del loro contesto vitale, e arrivare a un cristianesimo realistico e nello stesso tempo molto profondo.

Poi, naturalmente per me era molto importante l’esegesi: abbiamo avuto due esegeti un po’ liberali, ma tuttavia grandi esegeti, anche realmente credenti, che ci hanno affascinati. Posso dire che, realmente, la Sacra Scrittura era l’anima del nostro studio teologico: abbiamo realmente vissuto con la Sacra Scrittura e imparato ad amarla, a parlare con essa. 
Poi ho già detto della Patrologia, dell’incontro con i Padri. 
Anche il nostro insegnante di dogmatica era persona allora molto famosa, aveva nutrito la sua dogmatica con i Padri e con la Liturgia. Un punto molto centrale era per noi la formazione liturgica: in quel tempo non c’erano ancora cattedre di Liturgia, ma il nostro professore di Pastorale ci ha donato grandi corsi di liturgia e lui, al momento, era anche Rettore del seminario e così, liturgia vissuta e celebrata e liturgia insegnata e pensata andavano insieme. Questi, insieme con la Sacra Scrittura, erano i punti scottanti della nostra formazione teologica. Di questo sono sempre grato al Signore, perché insieme sono realmente il centro di una vita sacerdotale.

Altro interesse era la letteratura: era obbligatorio leggere Dostoevskij, era la moda del momento, poi c’erano i grandi francesi: Claudel, Mauriac, Bernanos, ma anche la letteratura tedesca; c’era anche una edizione tedesca del Manzoni: non parlavo in quel tempo italiano. Così abbiamo un po’, in questo senso, anche formato il nostro orizzonte umano. Un grande amore era anche la musica, come pure la bellezza della natura della nostra terra. Con queste preferenze, queste realtà, in un cammino non sempre facile, sono andato avanti. Il Signore mi ha aiutato ad arrivare fino al sì del sacerdozio, un sì che mi ha accompagnato ogni giorno della mia vita”.

© Copyright 2007 - Libreria Editrice Vaticana

sabato 25 giugno 2016

Benedetto XVI racconta ai giovani la sua vocazione al sacerdozio, 6 aprile 2006 (YouTube)



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Grazie alla nostra Gemma rivediamo, riascoltiamo (e rileggiamo) una vera e propria "chicca".
Il 6 aprile 2006, durante la GMG diocesana, Benedetto XVI rispose "a braccio" ad alcune domande formulate dai ragazzi. In questo video spiega come è maturata la sua vocazione sacerdotale.
Di seguito la trascrizione della risposta.

Santità, mi chiamo Vittorio, sono della Parrocchia di San Giovanni Bosco a Cinecittà, ho 20 anni e studio Scienze dell'Educazione all'Università di Tor Vergata.
Sempre nel Suo Messaggio Lei ci invita a non avere paura di rispondere con generosità al Signore, specialmente quando propone di seguirlo nella vita consacrata o nella vita sacerdotale. Ci dice di non avere paura, di fidarci di Lui e che non resteremo delusi. Molti tra noi, anche qui o tra chi ci segue da casa questa sera tramite la televisione, sono convinto che stiano pensando a seguire Gesù per una via di speciale consacrazione, ma non è sempre facile capire se quella sarà la via giusta. Ci vuol dire come ha fatto Lei a capire quale era la sua vocazione? Può darci dei consigli per capire meglio se il Signore ci chiama a seguirlo nella vita consacrata o sacerdotale? La ringrazio.

Quanto a me, sono cresciuto in un mondo molto diverso da quello attuale, ma infine le situazioni si somigliano. Da una parte, vi era ancora la situazione di “cristianità”, in cui era normale andare in chiesa ed accettare la fede come la rivelazione di Dio e cercare di vivere secondo la rivelazione; dall’altra parte, vi era il regime nazista, che affermava a voce alta: “Nella nuova Germania non ci saranno più sacerdoti, non ci sarà più vita consacrata, non abbiamo più bisogno di questa gente; cercatevi un’altra professione”. Ma proprio sentendo queste voci “forti”, nel confronto con la brutalità di quel sistema dal volto disumano, ho capito che c’era invece molto bisogno di sacerdoti. Questo contrasto, il vedere quella cultura antiumana, mi ha confermato nella convinzione che il Signore, il Vangelo, la fede ci mostravano la strada giusta e noi dovevamo impegnarci perché sopravvivesse questa strada. In questa situazione, la vocazione al sacerdozio è cresciuta quasi naturalmente insieme con me e senza grandi avvenimenti di conversione. Inoltre due cose mi hanno aiutato in questo cammino: già da ragazzo, aiutato dai miei genitori e dal parroco, ho scoperto la bellezza della Liturgia e l’ho sempre più amata, perché sentivo che in essa ci  appare la bellezza divina e ci si apre dinanzi il cielo; il secondo elemento è stata la scoperta della bellezza del conoscere, il conoscere Dio, la Sacra Scrittura, grazie alla quale è possibile introdursi in quella grande avventura del dialogo con Dio che è la Teologia.
E così è stata una gioia entrare in questo lavoro millenario della Teologia, in questa celebrazione della Liturgia, nella quale Dio è con noi e fa festa insieme con noi.
Naturalmente non sono mancate le difficoltà. Mi domandavo se avevo realmente la capacità di vivere per tutta la vita il celibato. Essendo un uomo di formazione teorica e non pratica, sapevo anche che non basta amare la Teologia per essere un buon sacerdote, ma vi è la necessità di essere disponibile sempre verso i giovani, gli anziani, gli ammalati, i poveri; la necessità di essere semplice con i semplici. 
La Teologia è bella, ma anche la semplicità della parola e della vita cristiana è necessaria. E così mi domandavo: sarò in grado di vivere tutto questo e di non essere unilaterale, solo un teologo ecc.? Ma il Signore mi ha aiutato e, soprattutto, la compagnia degli amici, di buoni sacerdoti e di maestri, mi ha aiutato.
Tornando alla domanda penso sia importante essere attenti ai gesti del Signore nel nostro cammino. Egli ci parla tramite avvenimenti, tramite persone, tramite incontri: occorre essere attenti a tutto questo. Poi, secondo punto, entrare realmente in amicizia con Gesù, in una relazione personale con Lui e non sapere solo da altri o dai libri chi è Gesù, ma vivere una relazione sempre più approfondita di amicizia personale con Gesù, nella quale possiamo cominciare a capire quanto Egli ci chiede. E poi, l’attenzione a ciò che io sono, alle mie possibilità: da una parte coraggio e dall’altra umiltà e fiducia e apertura, con l’aiuto anche degli amici, dell’autorità della Chiesa ed anche dei sacerdoti, delle famiglie: cosa vuole il Signore da me? Certo, ciò rimane sempre una grande avventura, ma la vita può riuscire solo se abbiamo il coraggio dell’avventura, la fiducia che il Signore non mi lascerà mai solo, che il Signore mi accompagnerà, mi aiuterà.

© Copyright 2006 - Libreria Editrice Vaticana 

É un’Europa da rifondare: parla Benedetto XVI (Ronza). Riflessioni (R.)

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In effetti è persino "divertente" vedere il palpabile imbarazzo, disappunto e "rosicamento" dei sedicenti intellettuali dei nostri giorni. Mi riferisco in particolare ai giornalisti "esperti" di politica. Ne ho ascolti parecchi nei vari speciali dedicati all'uscita del Regno Unito dall'Unione (vabbè...) Europea.
Solo gli stolti potevano illudersi che i cittadini europei, presa in mano la possibilità di mollare l'Europa, non avrebbero colto la palla al balzo.
In Italia non si può fare un referendum abrogativo dei trattati internazionali perché se ciò fosse possibile...
Il sogno dell'Europa unita è svanito perché da sempre essa è stata concepita come un gigante dai piedi d'argilla, una burocrazia senza anima.
I popoli europei non hanno la stessa cultura, la stessa lingua, la stessa religione. Sono diversi anche per temperamento e carattere. Ciò che li unisce sono le radici comuni che sono e saranno sempre (cari lorsignori...) cristiane. Da lì si doveva partite e da lì si può tentare di ricostruire.
L'Europa non può essere un organismo senza anima o radici con la presunzione di fondarsi sulla moneta o sulle banche o, peggio, sulle direttive a proposito della misura delle vongole.
I Papi europei, e Benedetto XVI in particolare, hanno evidenziato per tempo e profeticamente i rischi di un'Europa senza radici. Come sempre Joseph Ratzinger ci precede nel vedere la realtà.
R.

giovedì 23 giugno 2016

Benedetto XVI spiega il terzo compito del sacerdote: quello di governale (munus regendi). YouTube



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Grazie alla nostra Gemma mettiamoci in ascolto di un'altra importante lezione.
Il 26 maggio 2010, in occasione dell'udienza generale, Benedetto XVI tenne la catechesi sul terzo compito (dopo quello di insegnare e quello di santificare) del sacerdote: il dovere di governare.

Riascoltiamo e rileggiamo:

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 26 maggio 2010  

Munus regendi

Cari fratelli e sorelle,

L’Anno Sacerdotale volge al termine; perciò avevo cominciato nelle ultime catechesi a parlare sui compiti essenziali del sacerdote, cioè: insegnare, santificare e governare. Ho già tenuto due catechesi, una sul ministero della santificazione, i Sacramenti soprattutto, e una su quello dell’insegnamento. Quindi, mi rimane oggi di parlare sulla missione del sacerdote di governare, di guidare, con l’autorità di Cristo, non con la propria, la porzione del Popolo che Dio gli ha affidato.

Come comprendere nella cultura contemporanea una tale dimensione, che implica il concetto di autorità e ha origine dal mandato stesso del Signore di pascere il suo gregge? Che cos’è realmente, per noi cristiani, l’autorità? 
Le esperienze culturali, politiche e storiche del recente passato, soprattutto le dittature in Europa dell’Est e dell’Ovest nel XX secolo, hanno reso l’uomo contemporaneo sospettoso nei confronti di questo concetto. Un sospetto che, non di rado, si traduce nel sostenere come necessario l’abbandono di ogni autorità, che non venga esclusivamente dagli uomini e sia ad essi sottoposta, da essi controllata. Ma proprio lo sguardo sui regimi che, nel secolo scorso, seminarono terrore e morte, ricorda con forza che l’autorità, in ogni ambito, quando viene esercitata senza un riferimento al Trascendente, se prescinde dall’Autorità suprema, che è Dio, finisce inevitabilmente per volgersi contro l’uomo. E’ importante allora riconoscere che l’autorità umana non è mai un fine, ma sempre e solo un mezzo e che, necessariamente ed in ogni epoca, il fine è sempre la persona, creata da Dio con la propria intangibile dignità e chiamata a relazionarsi con il proprio Creatore, nel cammino terreno dell’esistenza e nella vita eterna; è un’autorità esercitata nella responsabilità davanti a Dio, al Creatore. Un’autorità così intesa, che abbia come unico scopo servire il vero bene delle persone ed essere trasparenza dell’unico Sommo Bene che è Dio, non solo non è estranea agli uomini, ma, al contrario, è un prezioso aiuto nel cammino verso la piena realizzazione in Cristo, verso la salvezza.

La Chiesa è chiamata e si impegna ad esercitare questo tipo di autorità che è servizio, e la esercita non a titolo proprio, ma nel nome di Gesù Cristo, che dal Padre ha ricevuto ogni potere in Cielo e sulla terra (cfr Mt 28,18). Attraverso i Pastori della Chiesa, infatti, Cristo pasce il suo gregge: è Lui che lo guida, lo protegge, lo corregge, perché lo ama profondamente. Ma il Signore Gesù, Pastore supremo delle nostre anime, ha voluto che il Collegio Apostolico, oggi i Vescovi, in comunione con il Successore di Pietro, e i sacerdoti, loro più preziosi collaboratori, partecipassero a questa sua missione di prendersi cura del Popolo di Dio, di essere educatori nella fede, orientando, animando e sostenendo la comunità cristiana, o, come dice il Concilio, “curando, soprattutto che i singoli fedeli siano guidati nello Spirito Santo a vivere secondo il Vangelo la loro propria vocazione, a praticare una carità sincera ed operosa e ad esercitare quella libertà con cui Cristo ci ha liberati” (Presbyterorum Ordinis, 6). 

Ogni Pastore, quindi, è il tramite attraverso il quale Cristo stesso ama gli uomini: è mediante il nostro ministero – cari sacerdoti – è attraverso di noi che il Signore raggiunge le anime, le istruisce, le custodisce, le guida. Sant’Agostino, nel suo Commento al Vangelo di san Giovanni, dice: “Sia dunque impegno d’amore pascere il gregge del Signore” (123,5); questa è la suprema norma di condotta dei ministri di Dio, un amore incondizionato, come quello del Buon Pastore, pieno di gioia, aperto a tutti, attento ai vicini e premuroso verso i lontani (cfr S. Agostino, Discorso 340, 1; Discorso 46, 15), delicato verso i più deboli, i piccoli, i semplici, i peccatori, per manifestare l’infinita misericordia di Dio con le parole rassicuranti della speranza (cfr Id., Lettera 95, 1).

Se tale compito pastorale è fondato sul Sacramento, tuttavia la sua efficacia non è indipendente dall’esistenza personale del presbitero. Per essere Pastore secondo il cuore di Dio (cfr Ger 3,15) occorre un profondo radicamento nella viva amicizia con Cristo, non solo dell’intelligenza, ma anche della libertà e della volontà, una chiara coscienza dell’identità ricevuta nell’Ordinazione Sacerdotale, una disponibilità incondizionata a condurre il gregge affidato là dove il Signore vuole e non nella direzione che, apparentemente, sembra più conveniente o più facile. Ciò richiede, anzitutto, la continua e progressiva disponibilità a lasciare che Cristo stesso governi l’esistenza sacerdotale dei presbiteri. Infatti, nessuno è realmente capace di pascere il gregge di Cristo, se non vive una profonda e reale obbedienza a Cristo e alla Chiesa, e la stessa docilità del Popolo ai suoi sacerdoti dipende dalla docilità dei sacerdoti verso Cristo; per questo alla base del ministero pastorale c’è sempre l’incontro personale e costante con il Signore, la conoscenza profonda di Lui, il conformare la propria volontà alla volontà di Cristo.

Negli ultimi decenni, si è utilizzato spesso l’aggettivo “pastorale” quasi in opposizione al concetto di “gerarchico”, così come, nella medesima contrapposizione, è stata interpretata anche l’idea di “comunione”. 

E’ forse questo il punto dove può essere utile una breve osservazione sulla parola “gerarchia”, che è la designazione tradizionale della struttura di autorità sacramentale nella Chiesa, ordinata secondo i tre livelli del Sacramento dell’Ordine: episcopato, presbiterato, diaconato. 
Nell’opinione pubblica prevale, per questa realtà “gerarchia”, l’elemento di subordinazione e l’elemento giuridico; perciò a molti l’idea di gerarchia appare in contrasto con la flessibilità e la vitalità del senso pastorale e anche contraria all’umiltà del Vangelo. Ma questo è un male inteso senso della gerarchia, storicamente anche causato da abusi di autorità e da carrierismo, che sono appunto abusi e non derivano dall’essere stesso della realtà “gerarchia”. L’opinione comune è che “gerarchia” sia sempre qualcosa di legato al dominio e così non corrispondente al vero senso della Chiesa, dell’unità nell’amore di Cristo. Ma, come ho detto, questa è un’interpretazione sbagliata, che ha origine in abusi della storia, ma non risponde al vero significato di quello che è la gerarchia. Cominciamo con la parola. 
Generalmente, si dice che il significato della parola gerarchia sarebbe “sacro dominio”, ma il vero significato non è questo, è “sacra origine”, cioè: questa autorità non viene dall’uomo stesso, ma ha origine nel sacro, nel Sacramento; sottomette quindi la persona alla vocazione, al mistero di Cristo; fa del singolo un servitore di Cristo e solo in quanto servo di Cristo questi può governare, guidare per Cristo e con Cristo. Perciò chi entra nel sacro Ordine del Sacramento, la “gerarchia”, non è un autocrate, ma entra in un legame nuovo di obbedienza a Cristo: è legato a Lui in comunione con gli altri membri del sacro Ordine, del Sacerdozio. 

E anche il Papa - punto di riferimento di tutti gli altri Pastori e della comunione della Chiesa - non può fare quello che vuole; al contrario, il Papa è custode dell’obbedienza a Cristo, alla sua parola riassunta nella “regula fidei”, nel Credo della Chiesa, e deve precedere nell’obbedienza a Cristo e alla sua Chiesa. Gerarchia implica quindi un triplice legame: quello, innanzitutto, con Cristo e l’ordine dato dal Signore alla sua Chiesa; poi il legame con gli altri Pastori nell’unica comunione della Chiesa; e, infine, il legame con i fedeli affidati al singolo, nell’ordine della Chiesa.

Quindi, si capisce che comunione e gerarchia non sono contrarie l’una all’altra, ma si condizionano. Sono insieme una cosa sola (comunione gerarchica). Il Pastore è quindi tale proprio guidando e custodendo il gregge, e talora impedendo che esso si disperda. Al di fuori di una visione chiaramente ed esplicitamente soprannaturale, non è comprensibile il compito di governare proprio dei sacerdoti. Esso, invece, sostenuto dal vero amore per la salvezza di ciascun fedele, è particolarmente prezioso e necessario anche nel nostro tempo. Se il fine è portare l’annuncio di Cristo e condurre gli uomini all’incontro salvifico con Lui perché abbiano la vita, il compito di guidare si configura come un servizio vissuto in una donazione totale per l’edificazione del gregge nella verità e nella santità, spesso andando controcorrente e ricordando che chi è il più grande si deve fare come il più piccolo, e colui che governa, come colui che serve (cfr Lumen gentium, 27).

Dove può attingere oggi un sacerdote la forza per tale esercizio del proprio ministero, nella piena fedeltà a Cristo e alla Chiesa, con una dedizione totale al gregge? La risposta è una sola: in Cristo Signore. 

Il modo di governare di Gesù non è quello del dominio, ma è l’umile ed amoroso servizio della Lavanda dei piedi, e la regalità di Cristo sull’universo non è un trionfo terreno, ma trova il suo culmine sul legno della Croce, che diventa giudizio per il mondo e punto di riferimento per l’esercizio dell’autorità che sia vera espressione della carità pastorale. I santi, e tra essi san Giovanni Maria Vianney, hanno esercitato con amore e dedizione il compito di curare la porzione del Popolo di Dio loro affidata, mostrando anche di essere uomini forti e determinati, con l’unico obiettivo di promuovere il vero bene delle anime, capaci di pagare di persona, fino al martirio, per rimanere fedeli alla verità e alla giustizia del Vangelo.

Cari sacerdoti, «pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri [...], facendovi modelli del gregge» (1Pt 5,2). Dunque, non abbiate paura di guidare a Cristo ciascuno dei fratelli che Egli vi ha affidati, sicuri che ogni parola ed ogni atteggiamento, se discendono dall’obbedienza alla volontà di Dio, porteranno frutto; sappiate vivere apprezzando i pregi e riconoscendo i limiti della cultura in cui siamo inseriti, con la ferma certezza che l’annuncio del Vangelo è il maggiore servizio che si può fare all’uomo. Non c’è, infatti, bene più grande, in questa vita terrena, che condurre gli uomini a Dio, risvegliare la fede, sollevare l’uomo dall’inerzia e dalla disperazione, dare la speranza che Dio è vicino e guida la storia personale e del mondo: questo, in definitiva, è il senso profondo ed ultimo del compito di governare che il Signore ci ha affidato. Si tratta di formare Cristo nei credenti, attraverso quel processo di santificazione che è conversione dei criteri, della scala di valori, degli atteggiamenti, per lasciare che Cristo viva in ogni fedele. San Paolo così riassume la sua azione pastorale: “figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi” (Gal 4,19).

Cari fratelli e sorelle, vorrei invitarvi a pregare per me, Successore di Pietro, che ho uno specifico compito nel governare la Chiesa di Cristo, come pure per tutti i vostri Vescovi e sacerdoti. Pregate perché sappiamo prenderci cura di tutte le pecore, anche quelle smarrite, del gregge a noi affidato. A voi, cari sacerdoti, rivolgo il cordiale invito alle Celebrazioni conclusive dell’Anno Sacerdotale, il prossimo 9, 10 e 11 giugno, qui a Roma: mediteremo sulla conversione e sulla missione, sul dono dello Spirito Santo e sul rapporto con Maria Santissima, e rinnoveremo le nostre promesse sacerdotali, sostenuti da tutto il Popolo di Dio. Grazie!

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana

mercoledì 22 giugno 2016

Benedetto XVI spiega il secondo compito del sacerdote: quello di santificare (munus sanctificandi). YouTube



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Il 5 maggio 2010, in occasione dell'udienza generale, Benedetto XVI si soffermò sul secondo compito del sacerdote: quello di santificare. Grazie a Gemma per questo ulteriore regalo :-)
Riascoltiamo e rileggiamo:

BENEDETTO XVI 
UDIENZA GENERALE 

Piazza San Pietro
Mercoledì, 5 maggio 2010 

Munus sanctificandi

Cari fratelli e sorelle,

domenica scorsa, nella mia Visita Pastorale a Torino, ho avuto la gioia di sostare in preghiera davanti alla sacra Sindone, unendomi agli oltre due milioni di pellegrini che durante la solenne Ostensione di questi giorni, hanno potuto contemplarla. Quel sacro Telo può nutrire ed alimentare la fede e rinvigorire la pietà cristiana, perché spinge ad andare al Volto di Cristo, al Corpo del Cristo crocifisso e risorto, a contemplare il Mistero Pasquale, centro del Messaggio cristiano. Del Corpo di Cristo risorto, vivo e operante nella storia (cfr Rm 12,5), noi, cari fratelli e sorelle, siamo membra vive, ciascuno secondo la propria funzione, con il compito cioè che il Signore ha voluto affidarci. 

Oggi, in questa catechesi, vorrei ritornare ai compiti specifici dei sacerdoti, che, secondo la tradizione, sono essenzialmente tre: insegnare, santificare e governare. In una delle catechesi precedenti ho parlato sulla prima di queste tre missioni: l’insegnamento, l’annuncio della verità, l’annuncio del Dio rivelato in Cristo, o – con altre parole – il compito profetico di mettere l’uomo in contatto con la verità, di aiutarlo a conoscere l’essenziale della sua vita, della realtà stessa.

Oggi vorrei soffermarmi brevemente con voi sul secondo compito che ha il sacerdote, quello di santificare gli uomini, soprattutto mediante i Sacramenti e il culto della Chiesa. Qui dobbiamo innanzitutto chiederci: Che cosa vuol dire la parola “Santo”? 

La risposta è: “Santo” è la qualità specifica dell’essere di Dio, cioè assoluta verità, bontà, amore, bellezza – luce pura. Santificare una persona significa quindi metterla in contatto con Dio, con questo suo essere luce, verità, amore puro. E’ ovvio che tale contatto trasforma la persona. Nell’antichità c’era questa ferma convinzione: Nessuno può vedere Dio senza morire subito. Troppo grande è la forza di verità e di luce! Se l’uomo tocca questa corrente assoluta, non sopravvive. D’altra parte c’era anche la convinzione: Senza un minimo contatto con Dio l’uomo non può vivere. Verità, bontà, amore sono condizioni fondamentali del suo essere. La questione è: Come può trovare l’uomo quel contatto con Dio, che è fondamentale, senza morire sopraffatto dalla grandezza dell’essere divino? La fede della Chiesa ci dice che Dio stesso crea questo contatto, che ci trasforma man mano in vere immagini di Dio.

Così siamo di nuovo arrivati al compito del sacerdote di “santificare”. Nessun uomo da sé, a partire dalla sua propria forza può mettere l’altro in contatto con Dio. Parte essenziale della grazia del sacerdozio è il dono, il compito di creare questo contatto. Questo si realizza nell’annuncio della parola di Dio, nella quale la sua luce ci viene incontro. Si realizza in un modo particolarmente denso nei Sacramenti. 

L’immersione nel Mistero pasquale di morte e risurrezione di Cristo avviene nel Battesimo, è rafforzata nella Confermazione e nella Riconciliazione, è alimentata dall’Eucaristia, Sacramento che edifica la Chiesa come Popolo di Dio, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito Santo (cfr GIOVANNI PAOLO II, Esort. ap. Pastores gregis, n. 32). E’ quindi Cristo stesso che rende santi, cioè ci attira nella sfera di Dio. Ma come atto della sua infinita misericordia chiama alcuni a “stare” con Lui (cfr Mc 3,14) e diventare, mediante il Sacramento dell’Ordine, nonostante la povertà umana, partecipi del suo stesso Sacerdozio, ministri di questa santificazione, dispensatori dei suoi misteri, “ponti” dell’incontro con Lui, della sua mediazione tra Dio e gli uomini e tra gli uomini e Dio (cfr PO, 5). 
Negli ultimi decenni, vi sono state tendenze orientate a far prevalere, nell’identità e nella missione del sacerdote, la dimensione dell’annuncio, staccandola da quella della santificazione; spesso si è affermato che sarebbe necessario superare una pastorale meramente sacramentale. Ma è possibile esercitare autenticamente il Ministero sacerdotale “superando” la pastorale sacramentale? Che cosa significa propriamente per i sacerdoti evangelizzare, in che cosa consiste il cosiddetto primato dell’annuncio? 
Come riportano i Vangeli, Gesù afferma che l’annuncio del Regno di Dio è lo scopo della sua missione; questo annuncio, però, non è solo un “discorso”, ma include, nel medesimo tempo, il suo stesso agire; i segni, i miracoli che Gesù compie indicano che il Regno viene come realtà presente e che coincide alla fine con la sua stessa persona, con il dono di se, come abbiamo sentito oggi nella lettura del Vangelo. 
E lo stesso vale per il ministro ordinato: egli, il sacerdote, rappresenta Cristo, l’Inviato del Padre, ne continua la sua missione, mediante la “parola” e il “sacramento”, in questa totalità di corpo e anima, di segno e parola. Sant’Agostino, in una lettera al Vescovo Onorato di Thiabe, riferendosi ai sacerdoti afferma: “Facciano dunque i servi di Cristo, i ministri della parola e del sacramento di Lui, ciò che egli comandò o permise” (Epist. 228, 2). E’ necessario riflettere se, in taluni casi, l’aver sottovalutato l’esercizio fedele del munus sanctificandi, non abbia forse rappresentato un indebolimento della stessa fede nell’efficacia salvifica dei Sacramenti e, in definitiva, nell’operare attuale di Cristo e del suo Spirito, attraverso la Chiesa, nel mondo. 
Chi dunque salva il mondo e l’uomo? L’unica risposta che possiamo dare è: Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, crocifisso e risorto. E dove si attualizza il Mistero della morte e risurrezione di Cristo, che porta la salvezza? Nell’azione di Cristo mediante la Chiesa, in particolare nel Sacramento dell’Eucaristia, che rende presente l’offerta sacrificale redentrice del Figlio di Dio, nel Sacramento della Riconciliazione, in cui dalla morte del peccato si torna alla vita nuova, e in ogni altro atto sacramentale di santificazione (cfr PO, 5). E’ importante, quindi, promuovere una catechesi adeguata per aiutare i fedeli a comprendere il valore dei Sacramenti, ma è altrettanto necessario, sull’esempio del Santo Curato d’Ars, essere disponibili, generosi e attenti nel donare ai fratelli i tesori di grazia che Dio ha posto nelle nostre mani, e dei quali non siamo i “padroni”, ma custodi ed amministratori. 
Soprattutto in questo nostro tempo, nel quale, da un lato, sembra che la fede vada indebolendosi e, dall’altro, emergono un profondo bisogno e una diffusa ricerca di spiritualità, è necessario che ogni sacerdote ricordi che nella sua missione l’annuncio missionario e il culto e i sacramenti non sono mai separati e promuova una sana pastorale sacramentale, per formare il Popolo di Dio e aiutarlo a vivere in pienezza la Liturgia, il culto della Chiesa, i Sacramenti come doni gratuiti di Dio, atti liberi ed efficaci della sua azione di salvezza.
Come ricordavo nella santa Messa Crismale di quest’anno: “Centro del culto della Chiesa è il Sacramento. Sacramento significa che in primo luogo non siamo noi uomini a fare qualcosa, ma Dio in anticipo ci viene incontro con il suo agire, ci guarda e ci conduce verso di Sé. (...) Dio ci tocca per mezzo di realtà materiali (...) che Egli assume al suo servizio, facendone strumenti dell’incontro tra noi e Lui stesso” (S. Messa Crismale, 1 aprile 2010). La verità secondo la quale nel Sacramento “non siamo noi uomini a fare qualcosa” riguarda, e deve riguardare, anche la coscienza sacerdotale: ciascun presbitero sa bene di essere strumento necessario all’agire salvifico di Dio, ma pur sempre strumento. Tale coscienza deve rendere umili e generosi nell’amministrazione dei Sacramenti, nel rispetto delle norme canoniche, ma anche nella profonda convinzione che la propria missione è far sì che tutti gli uomini, uniti a Cristo, possano offrirsi a Dio come ostia viva e santa a Lui gradita (cfr Rm 12,1). Esemplare, circa il primato del munus sanctificandi e della giusta interpretazione della pastorale sacramentale, è ancora san Giovanni Maria Vianney, il quale, un giorno, di fronte ad un uomo che diceva di non aver fede e desiderava discutere con lui, il parroco rispose: “Oh! amico mio, v’indirizzate assai male, io non so ragionare... ma se avete bisogno di qualche consolazione, mettetevi là... (il suo dito indicava l’inesorabile sgabello [del confessionale]) e credetemi, che molti altri vi si sono messi prima di voi, e non ebbero a pentirsene” (cfr Monnin A., Il Curato d’Ars. Vita di Gian-Battista-Maria Vianney, vol. I, Torino 1870, pp. 163-164).
Cari sacerdoti, vivete con gioia e con amore la Liturgia e il culto: è azione che il Risorto compie nella potenza dello Spirito Santo in noi, con noi e per noi. Vorrei rinnovare l’invito fatto recentemente a “tornare al confessionale, come luogo nel quale celebrare il Sacramento della Riconciliazione, ma anche come luogo in cui ‘abitare’ più spesso, perché il fedele possa trovare misericordia, consiglio e conforto, sentirsi amato e compreso da Dio e sperimentare la presenza della Misericordia Divina, accanto alla Presenza reale nell’Eucaristia” (Discorso alla Penitenzieria Apostolica, 11 marzo 2010). E vorrei anche invitare ogni sacerdote a celebrare e vivere con intensità l’Eucaristia, che è nel cuore del compito di santificare; è Gesù che vuole stare con noi, vivere in noi, donarci se stesso, mostrarci l’infinita misericordia e tenerezza di Dio; è l’unico Sacrificio di amore di Cristo che si rende presente, si realizza tra di noi e giunge fino al trono della Grazia, alla presenza di Dio, abbraccia l’umanità e ci unisce a Lui (cfr Discorso al Clero di Roma, 18 febbraio 2010). 
E il sacerdote è chiamato ad essere ministro di questo grande Mistero, nel Sacramento e nella vita. Se “la grande tradizione ecclesiale ha giustamente svincolato l’efficacia sacramentale dalla concreta situazione esistenziale del singolo sacerdote, e così le legittime attese dei fedeli sono adeguatamente salvaguardate”, ciò non toglie nulla “alla necessaria, anzi indispensabile tensione verso la perfezione morale, che deve abitare ogni cuore autenticamente sacerdotale”: c’è anche un esempio di fede e di testimonianza di santità, che il Popolo di Dio si attende giustamente dai suoi Pastori (cfr Benedetto XVI, Discorso alla Plenaria della Congr. per il Clero, 16 marzo 2009). Ed è nella celebrazione dei Santi Misteri che il sacerdote trova la radice della sua santificazione (cfr PO, 12-13).
Cari amici, siate consapevoli del grande dono che i sacerdoti sono per la Chiesa e per il mondo; attraverso il loro ministero, il Signore continua a salvare gli uomini, a rendersi presente, a santificare. Sappiate ringraziare Dio, e soprattutto siate vicini ai vostri sacerdoti con la preghiera e con il sostegno, specialmente nelle difficoltà, affinché siano sempre più Pastori secondo il cuore di Dio. Grazie. 

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martedì 21 giugno 2016

Benedetto XVI spiega il primo compito del sacerdote: quello di insegnare (munus docendi). YouTube



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Buongiorno cari amici! Grazie a Gemma ritorniamo a sei anni fa, in pieno svolgimento dell'Anno Sacerdotale.
Il 14 aprile 2010, in occasione dell'udienza generale, Benedetto XVI spiegò il primo dei tre compiti del sacerdote: quello di insegnare.
Riascoltiamo e rileggiamolo:

BENEDETTO XVI 

UDIENZA GENERALE 
Piazza San Pietro
Mercoledì, 14 aprile 2010 

Munus docendi

Cari amici,

in questo periodo pasquale, che ci conduce alla Pentecoste e ci avvia anche alle celebrazioni di chiusura dell’Anno Sacerdotale, in programma il 9, 10 e 11 giugno prossimo, mi è caro dedicare ancora alcune riflessioni al tema del Ministero ordinato, soffermandomi sulla realtà feconda della configurazione del sacerdote a Cristo Capo, nell’esercizio dei tria munera che riceve, cioè dei tre uffici di insegnare, santificare e governare.
Per capire che cosa significhi agire in persona Christi Capitis - in persona di Cristo Capo - da parte del sacerdote, e per capire anche quali conseguenze derivino dal compito di rappresentare il Signore, specialmente nell’esercizio di questi tre uffici, bisogna chiarire anzitutto che cosa si intenda per “rappresentanza”

Il sacerdote rappresenta Cristo. Cosa vuol dire, cosa significa “rappresentare” qualcuno? Nel linguaggio comune, vuol dire – generalmente - ricevere una delega da una persona per essere presente al suo posto, parlare e agire al suo posto, perché colui che viene rappresentato è assente dall’azione concreta. Ci domandiamo: il sacerdote rappresenta il Signore nello stesso modo? La risposta è no, perché nella Chiesa Cristo non è mai assente, la Chiesa è il suo corpo vivo e il Capo della Chiesa è lui, presente ed operante in essa. Cristo non è mai assente, anzi è presente in un modo totalmente libero dai limiti dello spazio e del tempo, grazie all’evento della Risurrezione, che contempliamo in modo speciale in questo tempo di Pasqua.

Pertanto, il sacerdote che agisce in persona Christi Capitis e in rappresentanza del Signore, non agisce mai in nome di un assente, ma nella Persona stessa di Cristo Risorto, che si rende presente con la sua azione realmente efficace. Agisce realmente e realizza ciò che il sacerdote non potrebbe fare: la consacrazione del vino e del pane perché siano realmente presenza del Signore, l’assoluzione dei peccati. 

Il Signore rende presente la sua propria azione nella persona che compie tali gesti. Questi tre compiti del sacerdote - che la Tradizione ha identificato nelle diverse parole di missione del Signore: insegnare, santificare e governare - nella loro distinzione e nella loro profonda unità sono una specificazione di questa rappresentazione efficace. Essi sono in realtà le tre azioni del Cristo risorto, lo stesso che oggi nella Chiesa e nel mondo insegna e così crea fede, riunisce il suo popolo, crea presenza della verità e costruisce realmente la comunione della Chiesa universale; e santifica e guida. 

Il primo compito del quale vorrei parlare oggi è il munus docendi, cioè quello di insegnare. Oggi, in piena emergenza educativa, il munus docendi della Chiesa, esercitato concretamente attraverso il ministero di ciascun sacerdote, risulta particolarmente importante. 

Viviamo in una grande confusione circa le scelte fondamentali della nostra vita e gli interrogativi su che cosa sia il mondo, da dove viene, dove andiamo, che cosa dobbiamo fare per compiere il bene, come dobbiamo vivere, quali sono i valori realmente pertinenti. In relazione a tutto questo esistono tante filosofie contrastanti, che nascono e scompaiono, creando una confusione circa le decisioni fondamentali, come vivere, perché non sappiamo più, comunemente, da che cosa e per che cosa siamo fatti e dove andiamo. In questa situazione si realizza la parola del Signore, che ebbe compassione della folla perché erano come pecore senza pastore. (cfr Mc 6, 34). Il Signore aveva fatto questa costatazione quando aveva visto le migliaia di persone che lo seguivano nel deserto perché, nella diversità delle correnti di quel tempo, non sapevano più quale fosse il vero senso della Scrittura, che cosa diceva Dio. Il Signore, mosso da compassione, ha interpretato la parola di Dio, egli stesso è la parola di Dio, e ha dato così un orientamento. Questa è la funzione in persona Christi del sacerdote: rendere presente, nella confusione e nel disorientamento dei nostri tempi, la luce della parola di Dio, la luce che è Cristo stesso in questo nostro mondo. 

Quindi il sacerdote non insegna proprie idee, una filosofia che lui stesso ha inventato, ha trovato o che gli piace; il sacerdote non parla da sé, non parla per sé, per crearsi forse ammiratori o un proprio partito; non dice cose proprie, proprie invenzioni, ma, nella confusione di tutte le filosofie, il sacerdote insegna in nome di Cristo presente, propone la verità che è Cristo stesso, la sua parola, il suo modo di vivere e di andare avanti
Per il sacerdote vale quanto Cristo ha detto di se stesso: “La mia dottrina non è mia” (Gv, 7, 16); Cristo, cioè, non propone se stesso, ma, da Figlio, è la voce, la parola del Padre. Anche il sacerdote deve sempre dire e agire così: “la mia dottrina non è mia, non propago le mie idee o quanto mi piace, ma sono bocca e cuore di Cristo e rendo presente questa unica e comune dottrina, che ha creato la Chiesa universale e che crea vita eterna”. 

Questo fatto, che il sacerdote cioè non inventa, non crea e non proclama proprie idee in quanto la dottrina che annuncia non è sua, ma di Cristo, non significa, d’altra parte, che egli sia neutro, quasi come un portavoce che legge un testo di cui, forse, non si appropria. Anche in questo caso vale il modello di Cristo, il quale ha detto: Io non sono da me e non vivo per me, ma vengo dal Padre e vivo per il Padre. Perciò, in questa profonda identificazione, la dottrina di Cristo è quella del Padre e lui stesso è uno col Padre. 
Il sacerdote che annuncia la parola di Cristo, la fede della Chiesa e non le proprie idee, deve anche dire: Io non vivo da me e per me, ma vivo con Cristo e da Cristo e perciò quanto Cristo ci ha detto diventa mia parola anche se non è mia. La vita del sacerdote deve identificarsi con Cristo e, in questo modo, la parola non propria diventa, tuttavia, una parola profondamente personale. Sant’Agostino, su questo tema, parlando dei sacerdoti, ha detto: “E noi che cosa siamo? Ministri (di Cristo), suoi servitori; perché quanto distribuiamo a voi non è cosa nostra, ma lo tiriamo fuori dalla sua dispensa. E anche noi viviamo di essa, perché siamo servi come voi” (Discorso 229/E, 4).

L’insegnamento che il sacerdote è chiamato ad offrire, le verità della fede, devono essere interiorizzate e vissute in un intenso cammino spirituale personale, così che realmente il sacerdote entri in una profonda, interiore comunione con Cristo stesso. Il sacerdote crede, accoglie e cerca di vivere, prima di tutto come proprio, quanto il Signore ha insegnato e la Chiesa ha trasmesso, in quel percorso di immedesimazione con il proprio ministero di cui san Giovanni Maria Vianney è testimone esemplare (cfr Lettera per l’indizione dell’Anno Sacerdotale). “Uniti nella medesima carità – afferma ancora sant’Agostino - siamo tutti uditori di colui che è per noi nel cielo l’unico Maestro” (Enarr. in Ps. 131, 1, 7).

Quella del sacerdote, di conseguenza, non di rado potrebbe sembrare “voce di uno che grida nel deserto” (Mc 1,3), ma proprio in questo consiste la sua forza profetica: nel non essere mai omologato, né omologabile, ad alcuna cultura o mentalità dominante, ma nel mostrare l’unica novità capace di operare un autentico e profondo rinnovamento dell’uomo, cioè che Cristo è il Vivente, è il Dio vicino, il Dio che opera nella vita e per la vita del mondo e ci dona la verità, il modo di vivere.
Nella preparazione attenta della predicazione festiva, senza escludere quella feriale, nello sforzo di formazione catechetica, nelle scuole, nelle istituzioni accademiche e, in modo speciale, attraverso quel libro non scritto che è la sua stessa vita, il sacerdote è sempre “docente”, insegna. Ma non con la presunzione di chi impone proprie verità, bensì con l’umile e lieta certezza di chi ha incontrato la Verità, ne è stato afferrato e trasformato, e perciò non può fare a meno di annunciarla. Il sacerdozio, infatti, nessuno lo può scegliere da sé, non è un modo per raggiungere una sicurezza nella vita, per conquistare una posizione sociale: nessuno può darselo, né cercarlo da sé. Il sacerdozio è risposta alla chiamata del Signore, alla sua volontà, per diventare annunciatori non di una verità personale, ma della sua verità.
Cari confratelli sacerdoti, il Popolo cristiano domanda di ascoltare dai nostri insegnamenti la genuina dottrina ecclesiale, attraverso la quale poter rinnovare l’incontro con Cristo che dona la gioia, la pace, la salvezza. La Sacra Scrittura, gli scritti dei Padri e dei Dottori della Chiesa, il Catechismo della Chiesa Cattolica costituiscono, a tale riguardo, dei punti di riferimento imprescindibili nell’esercizio del munus docendi, così essenziale per la conversione, il cammino di fede e la salvezza degli uomini. “Ordinazione sacerdotale significa: essere immersi [...] nella Verità” (Omelia per la Messa Crismale, 9 aprile 2009), quella Verità che non è semplicemente un concetto o un insieme di idee da trasmettere e assimilare, ma che è la Persona di Cristo, con la quale, per la quale e nella quale vivere e così, necessariamente, nasce anche l’attualità e la comprensibilità dell’annuncio. Solo questa consapevolezza di una Verità fatta Persona nell’Incarnazione del Figlio giustifica il mandato missionario: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15). Solo se è la Verità è destinato ad ogni creatura, non è una imposizione di qualcosa, ma l’apertura del cuore a ciò per cui è creato.
Cari fratelli e sorelle, il Signore ha affidato ai Sacerdoti un grande compito: essere annunciatori della Sua Parola, della Verità che salva; essere sua voce nel mondo per portare ciò che giova al vero bene delle anime e all’autentico cammino di fede (cfr 1Cor 6,12). San Giovanni Maria Vianney sia di esempio per tutti i Sacerdoti. Egli era uomo di grande sapienza ed eroica forza nel resistere alle pressioni culturali e sociali del suo tempo per poter condurre le anime a Dio: semplicità, fedeltà ed immediatezza erano le caratteristiche essenziali della sua predicazione, trasparenza della sua fede e della sua santità. Il Popolo cristiano ne era edificato e, come accade per gli autentici maestri di ogni tempo, vi riconosceva la luce della Verità. Vi riconosceva, in definitiva, ciò che si dovrebbe sempre riconoscere in un sacerdote: la voce del Buon Pastore.

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana



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lunedì 20 giugno 2016

Se la Chiesa si fa del male. Da sola (Tosatti)

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Che dire? Evidentemente brucia il fatto che molti giovani siano attratti dalla radicalità del Vangelo e non dal politicamente corretto e tutto ciò era stato ben compreso da Papa Benedetto...
R.