mercoledì 24 aprile 2019

"Chi crede non è mai solo": l'omelia di inizio Pontificato di Benedetto XVI (YouTube)



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L'omelia della Santa Messa per l'inizio del Ministero di Papa Benedetto XVI (Piazza San Pietro, 24 aprile 2005),
Grazie a Gemma per il grande lavoro :-)
Spero che una frase tanto semplice quanto profonda come "chi crede non è mai solo" possa aiutare e confortare le care popolazioni cristiane dello Sri Lanka così come aiutò e confortò me quattordici anni fa esattamente in questo giorno.
Preghiamo per i nostri fratelli: per le vittime, i sopravvissuti e le loro famiglie.
R.

SANTA MESSA IMPOSIZIONE DEL PALLIO E CONSEGNA DELL’ANELLO DEL PESCATORE PER L’INIZIO DEL MINISTERO PETRINO DEL VESCOVO DI ROMA

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Piazza San Pietro
Domenica, 24 aprile 2005

Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio,
distinte Autorità e Membri del Corpo diplomatico,
carissimi Fratelli e Sorelle!

Per ben tre volte, in questi giorni così intensi, il canto delle litanie dei santi ci ha accompagnato: durante i funerali del nostro Santo Padre Giovanni Paolo II; in occasione dell'ingresso dei Cardinali in Conclave, ed anche oggi, quando le abbiamo nuovamente cantate con l'invocazione: Tu illum adiuva - sostieni il nuovo successore di San Pietro. Ogni volta in un modo del tutto particolare ho sentito questo canto orante come una grande consolazione. Quanto ci siamo sentiti abbandonati dopo la dipartita di Giovanni Paolo II! Il Papa che per ben 26 anni è stato nostro pastore e guida nel cammino attraverso questo tempo. Egli varcava la soglia verso l'altra vita - entrando nel mistero di Dio. Ma non compiva questo passo da solo. 
Chi crede, non è mai solo - non lo è nella vita e neanche nella morte. 
In quel momento noi abbiamo potuto invocare i santi di tutti i secoli - i suoi amici, i suoi fratelli nella fede, sapendo che sarebbero stati il corteo vivente che lo avrebbe accompagnato nell'aldilà, fino alla gloria di Dio. Noi sapevamo che il suo arrivo era atteso. Ora sappiamo che egli è fra i suoi ed è veramente a casa sua. Di nuovo, siamo stati consolati compiendo il solenne ingresso in conclave, per eleggere colui che il Signore aveva scelto. Come potevamo riconoscere il suo nome? Come potevano 115 Vescovi, provenienti da tutte le culture ed i paesi, trovare colui al quale il Signore desiderava conferire la missione di legare e sciogliere? Ancora una volta, noi lo sapevamo: sapevamo che non siamo soli, che siamo circondati, condotti e guidati dagli amici di Dio. 
Ed ora, in questo momento, io debole servitore di Dio devo assumere questo compito inaudito, che realmente supera ogni capacità umana. Come posso fare questo? Come sarò in grado di farlo? Voi tutti, cari amici, avete appena invocato l'intera schiera dei santi, rappresentata da alcuni dei grandi nomi della storia di Dio con gli uomini. In tal modo, anche in me si ravviva questa consapevolezza: non sono solo. Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo. La schiera dei santi di Dio mi protegge, mi sostiene e mi porta. E la Vostra preghiera, cari amici, la Vostra indulgenza, il Vostro amore, la Vostra fede e la Vostra speranza mi accompagnano. 
Infatti alla comunità dei santi non appartengono solo le grandi figure che ci hanno preceduto e di cui conosciamo i nomi. Noi tutti siamo la comunità dei santi, noi battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, noi che viviamo del dono della carne e del sangue di Cristo, per mezzo del quale egli ci vuole trasformare e renderci simili a se medesimo. Sì, la Chiesa è viva - questa è la meravigliosa esperienza di questi giorni. 
Proprio nei tristi giorni della malattia e della morte del Papa questo si è manifestato in modo meraviglioso ai nostri occhi: che la Chiesa è viva. E la Chiesa è giovane. Essa porta in sé il futuro del mondo e perciò mostra anche a ciascuno di noi la via verso il futuro. La Chiesa è viva e noi lo vediamo: noi sperimentiamo la gioia che il Risorto ha promesso ai suoi. La Chiesa è viva - essa è viva, perché Cristo è vivo, perché egli è veramente risorto. 
Nel dolore, presente sul volto del Santo Padre nei giorni di Pasqua, abbiamo contemplato il mistero della passione di Cristo ed insieme toccato le sue ferite. Ma in tutti questi giorni abbiamo anche potuto, in un senso profondo, toccare il Risorto. Ci è stato dato di sperimentare la gioia che egli ha promesso, dopo un breve tempo di oscurità, come frutto della sua resurrezione. 

La Chiesa è viva – così saluto con grande gioia e gratitudine voi tutti, che siete qui radunati, venerati Confratelli Cardinali e Vescovi, carissimi sacerdoti, diaconi, operatori pastorali, catechisti. Saluto voi, religiosi e religiose, testimoni della trasfigurante presenza di Dio. Saluto voi, fedeli laici, immersi nel grande spazio della costruzione del Regno di Dio che si espande nel mondo, in ogni espressione della vita. Il discorso si fa pieno di affetto anche nel saluto che rivolgo a tutti coloro che, rinati nel sacramento del Battesimo, non sono ancora in piena comunione con noi; ed a voi fratelli del popolo ebraico, cui siamo legati da un grande patrimonio spirituale comune, che affonda le sue radici nelle irrevocabili promesse di Dio. Il mio pensiero, infine – quasi come un’onda che si espande – va a tutti gli uomini del nostro tempo, credenti e non credenti. 

Cari amici! In questo momento non ho bisogno di presentare un programma di governo. Qualche tratto di ciò che io considero mio compito, ho già potuto esporlo nel mio messaggio di mercoledì 20 aprile; non mancheranno altre occasioni per farlo. Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia. Invece di esporre un programma io vorrei semplicemente cercare di commentare i due segni con cui viene rappresentata liturgicamente l’assunzione del Ministero Petrino; entrambi questi segni, del resto, rispecchiano anche esattamente ciò che viene proclamato nelle letture di oggi. 

Il primo segno è il Pallio, tessuto in pura lana, che mi viene posto sulle spalle
Questo antichissimo segno, che i Vescovi di Roma portano fin dal IV secolo, può essere considerato come un’immagine del giogo di Cristo, che il Vescovo di questa città, il Servo dei Servi di Dio, prende sulle sue spalle. Il giogo di Dio è la volontà di Dio, che noi accogliamo. E questa volontà non è per noi un peso esteriore, che ci opprime e ci toglie la libertà. Conoscere ciò che Dio vuole, conoscere qual è la via della vita – questa era la gioia di Israele, era il suo grande privilegio. Questa è anche la nostra gioia: la volontà di Dio non ci aliena, ci purifica – magari in modo anche doloroso – e così ci conduce a noi stessi. In tal modo, non serviamo soltanto Lui ma la salvezza di tutto il mondo, di tutta la storia. In realtà il simbolismo del Pallio è ancora più concreto: la lana d’agnello intende rappresentare la pecorella perduta o anche quella malata e quella debole, che il pastore mette sulle sue spalle e conduce alle acque della vita. La parabola della pecorella smarrita, che il pastore cerca nel deserto, era per i Padri della Chiesa un’immagine del mistero di Cristo e della Chiesa. L’umanità – noi tutti - è la pecora smarrita che, nel deserto, non trova più la strada. Il Figlio di Dio non tollera questo; Egli non può abbandonare l’umanità in una simile miserevole condizione. Balza in piedi, abbandona la gloria del cielo, per ritrovare la pecorella e inseguirla, fin sulla croce. La carica sulle sue spalle, porta la nostra umanità, porta noi stessi – Egli è il buon pastore, che offre la sua vita per le pecore. Il Pallio dice innanzitutto che tutti noi siamo portati da Cristo. Ma allo stesso tempo ci invita a portarci l’un l’altro. Così il Pallio diventa il simbolo della missione del pastore, di cui parlano la seconda lettura ed il Vangelo. La santa inquietudine di Cristo deve animare il pastore: per lui non è indifferente che tante persone vivano nel deserto. E vi sono tante forme di deserto. Vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto. Vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi. Perciò i tesori della terra non sono più al servizio dell’edificazione del giardino di Dio, nel quale tutti possano vivere, ma sono asserviti alle potenze dello sfruttamento e della distruzione. La Chiesa nel suo insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza. Il simbolo dell’agnello ha ancora un altro aspetto. Nell’Antico Oriente era usanza che i re designassero se stessi come pastori del loro popolo. Questa era un’immagine del loro potere, un’immagine cinica: i popoli erano per loro come pecore, delle quali il pastore poteva disporre a suo piacimento. Mentre il pastore di tutti gli uomini, il Dio vivente, è divenuto lui stesso agnello, si è messo dalla parte degli agnelli, di coloro che sono calpestati e uccisi. Proprio così Egli si rivela come il vero pastore: “Io sono il buon pastore… Io offro la mia vita per le pecore”, dice Gesù di se stesso (Gv 10, 14s). Non è il potere che redime, ma l’amore! Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore. Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che Egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le ideologie del potere si giustificano così, giustificano la distruzione di ciò che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell’umanità. Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza. Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini.

Una delle caratteristiche fondamentali del pastore deve essere quella di amare gli uomini che gli sono stati affidati, così come ama Cristo, al cui servizio si trova. “Pasci le mie pecore”, dice Cristo a Pietro, ed a me, in questo momento
Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire. Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza, che egli ci dona nel Santissimo Sacramento. Cari amici – in questo momento io posso dire soltanto: pregate per me, perché io impari sempre più ad amare il Signore. Pregate per me, perché io impari ad amare sempre più il suo gregge – voi, la Santa Chiesa, ciascuno di voi singolarmente e voi tutti insieme. Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi. Preghiamo gli uni per gli altri, perché il Signore ci porti e noi impariamo a portarci gli uni gli altri. 

Il secondo segno, con cui viene rappresentato nella liturgia odierna l’insediamento nel Ministero Petrino, è la consegna dell’anello del pescatore
La chiamata di Pietro ad essere pastore, che abbiamo udito nel Vangelo, fa seguito alla narrazione di una pesca abbondante: dopo una notte, nella quale avevano gettato le reti senza successo, i discepoli vedono sulla riva il Signore Risorto. Egli comanda loro di tornare a pescare ancora una volta ed ecco che la rete diviene così piena che essi non riescono a tirarla su; 153 grossi pesci: “E sebbene fossero così tanti, la rete non si strappò” (Gv 21, 11). Questo racconto, al termine del cammino terreno di Gesù con i suoi discepoli, corrisponde ad un racconto dell’inizio: anche allora i discepoli non avevano pescato nulla durante tutta la notte; anche allora Gesù aveva invitato Simone ad andare al largo ancora una volta. E Simone, che ancora non era chiamato Pietro, diede la mirabile risposta: Maestro, sulla tua parola getterò le reti! Ed ecco il conferimento della missione: “Non temere! D’ora in poi sarai pescatore di uomini” (Lc 5, 1–11). Anche oggi viene detto alla Chiesa e ai successori degli apostoli di prendere il largo nel mare della storia e di gettare le reti, per conquistare gli uomini al Vangelo – a Dio, a Cristo, alla vera vita. I Padri hanno dedicato un commento molto particolare anche a questo singolare compito. Essi dicono così: per il pesce, creato per l’acqua, è mortale essere tirato fuori dal mare. Esso viene sottratto al suo elemento vitale per servire di nutrimento all’uomo. Ma nella missione del pescatore di uomini avviene il contrario. Noi uomini viviamo alienati, nelle acque salate della sofferenza e della morte; in un mare di oscurità senza luce. La rete del Vangelo ci tira fuori dalle acque della morte e ci porta nello splendore della luce di Dio, nella vera vita. E’ proprio così – nella missione di pescatore di uomini, al seguito di Cristo, occorre portare gli uomini fuori dal mare salato di tutte le alienazioni verso la terra della vita, verso la luce di Dio. E’ proprio così: noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini. E solo laddove si vede Dio, comincia veramente la vita. Solo quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo che cosa è la vita. Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario. Non vi è niente di più bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con lui. Il compito del pastore, del pescatore di uomini può spesso apparire faticoso. Ma è bello e grande, perché in definitiva è un servizio alla gioia, alla gioia di Dio che vuol fare il suo ingresso nel mondo. 

Vorrei qui rilevare ancora una cosa: sia nell’immagine del pastore che in quella del pescatore emerge in modo molto esplicito la chiamata all’unità. “Ho ancora altre pecore, che non sono di questo ovile; anch’esse io devo condurre ed ascolteranno la mia voce e diverranno un solo gregge e un solo pastore” (Gv 10, 16), dice Gesù al termine del discorso del buon pastore. E il racconto dei 153 grossi pesci termina con la gioiosa constatazione: “sebbene fossero così tanti, la rete non si strappò” (Gv 21, 11). Ahimè, amato Signore, essa ora si è strappata! vorremmo dire addolorati. Ma no – non dobbiamo essere tristi! Rallegriamoci per la tua promessa, che non delude, e facciamo tutto il possibile per percorrere la via verso l’unità, che tu hai promesso. Facciamo memoria di essa nella preghiera al Signore, come mendicanti: sì, Signore, ricordati di quanto hai promesso. Fa’ che siamo un solo pastore ed un solo gregge! Non permettere che la tua rete si strappi ed aiutaci ad essere servitori dell’unità!

In questo momento il mio ricordo ritorna al 22 ottobre 1978, quando Papa Giovanni Paolo II iniziò il suo ministero qui sulla Piazza di San Pietro. Ancora, e continuamente, mi risuonano nelle orecchie le sue parole di allora: “Non abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a Cristo!” Il Papa parlava ai forti, ai potenti del mondo, i quali avevano paura che Cristo potesse portar via qualcosa del loro potere, se lo avessero lasciato entrare e concesso la libertà alla fede. Sì, egli avrebbe certamente portato via loro qualcosa: il dominio della corruzione, dello stravolgimento del diritto, dell’arbitrio. Ma non avrebbe portato via nulla di ciò che appartiene alla libertà dell’uomo, alla sua dignità, all’edificazione di una società giusta. Il Papa parlava inoltre a tutti gli uomini, soprattutto ai giovani. Non abbiamo forse tutti in qualche modo paura - se lasciamo entrare Cristo totalmente dentro di noi, se ci apriamo totalmente a lui – paura che Egli possa portar via qualcosa della nostra vita? Non abbiamo forse paura di rinunciare a qualcosa di grande, di unico, che rende la vita così bella? Non rischiamo di trovarci poi nell’angustia e privati della libertà? Ed ancora una volta il Papa voleva dire: no! chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla – assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No! solo in quest’amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera. 
Così, oggi, io vorrei, con grande forza e grande convinzione, a partire dall’esperienza di una lunga vita personale, dire a voi, cari giovani: non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo – e troverete la vera vita. Amen.

Copyright © Libreria Editrice Vaticana

domenica 21 aprile 2019

Buona Pasqua a tutti :-)

Carissimi Amici,
a ciascuno di voi i migliori auguri di Buona Pasqua :-)
Raffaella

venerdì 19 aprile 2019

Benedetto XVI: "Il nostro Dio non è un Dio lontano, intoccabile nella sua beatitudine: il nostro Dio ha un cuore. Anzi ha un cuore di carne, si è fatto carne proprio per poter soffrire con noi ed essere con noi nelle nostre sofferenze" (Via Crucis 2007)



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Il 6 aprile 2007, Venerdì Santo, Benedetto XVI prese la parola al termine della Via Crucis al Colosseo rivolgendo un bellissimo discorso "a braccio" alle decine di migliaia di fedeli presenti.
Grazie come sempre a Gemma :-)
R.


VIA CRUCIS AL COLOSSEO
DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Palatino

Venerdì Santo, 6 aprile 2007

Cari fratelli e sorelle,
seguendo Gesù nella via della Sua passione vediamo non soltanto la passione di Gesù, ma vediamo tutti i sofferenti del mondo ed è questa la profonda intenzione della preghiera della Via Crucis: di aprire i nostri cuori e aiutarci a vedere con il cuore.
I Padri della Chiesa hanno considerato come il più grande peccato del mondo pagano la insensibilità, la durezza del cuore e amavano la profezia del profeta Ezechiele: "Vi toglierò il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne" (cf Ez 36,26). Convertirsi a Cristo, divenire cristiano voleva dire ricevere un cuore di carne, un cuore sensibile per la passione e la sofferenza degli altri.
Il nostro Dio non è un Dio lontano, intoccabile nella sua beatitudine: il nostro Dio ha un cuore. Anzi ha un cuore di carne, si è fatto carne proprio per poter soffrire con noi ed essere con noi nelle nostre sofferenze. Si è fatto uomo per darci un cuore di carne e per risvegliare in noi l’amore per i sofferenti, per i bisognosi.
Preghiamo in questa ora il Signore per tutti i sofferenti del mondo. Preghiamo il Signore perché ci dia realmente un cuore di carne, ci faccia messaggeri del Suo amore non solo con parole, ma con tutta la nostra vita. Amen.


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giovedì 18 aprile 2019

Benedetto XVI: Tutti noi dobbiamo sempre di nuovo imparare ad accettare Dio e Gesù Cristo così come Egli è, e non come noi vorremmo che fosse (Santa Messa "in coena Domini", 21.04.2011)



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Il 21 aprile 2011, Giovedì Santo, in occasione della celebrazione della Messa "in coena Domini" nella Basilica di San Giovanni in Laterano, Benedetto XVI tenne una bellissima omelia sull'Eucarestia e la conversione riferendola in particolare a Pietro. Il testo dell'omelia si trova qui.
Nel video anche il rito della "lavanda dei piedi" e l'Adorazione Eucaristica.
Grazie come sempre a Gemma :-)
R.

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Basilica di San Giovanni in Laterano

Giovedì Santo, 21 aprile 2011



Cari fratelli e sorelle!

"Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione“ (Lc 22,15): con queste parole Gesù ha inaugurato la celebrazione del suo ultimo convito e dell’istituzione della santa Eucaristia. Gesù è andato incontro a quell’ora desiderandola. Nel suo intimo ha atteso quel momento in cui avrebbe donato se stesso ai suoi sotto le specie del pane e del vino. Ha atteso quel momento che avrebbe dovuto essere in qualche modo le vere nozze messianiche: la trasformazione dei doni di questa terra e il diventare una cosa sola con i suoi, per trasformarli ed inaugurare così la trasformazione del mondo. Nel desiderio di Gesù possiamo riconoscere il desiderio di Dio stesso – il suo amore per gli uomini, per la sua creazione, un amore in attesa. L’amore che attende il momento dell’unione, l’amore che vuole attirare gli uomini a sé, per dare compimento con ciò anche al desiderio della stessa creazione: essa, infatti, è protesa verso la manifestazione dei figli di Dio (cfr Rm 8,19). Gesù ha desiderio di noi, ci attende. E noi, abbiamo veramente desiderio di Lui? C’è dentro di noi la spinta ad incontrarLo? Bramiamo la sua vicinanza, il diventare una cosa sola con Lui, di cui Egli ci fa dono nella santa Eucaristia? Oppure siamo indifferenti, distratti, pieni di altro? Dalle parabole di Gesù sui banchetti sappiamo che Egli conosce la realtà dei posti rimasti vuoti, la risposta negativa, il disinteresse per Lui e per la sua vicinanza. I posti vuoti al banchetto nuziale del Signore, con o senza scuse, sono per noi, ormai da tempo, non una parabola, bensì una realtà presente, proprio in quei Paesi ai quali Egli aveva manifestato la sua vicinanza particolare. Gesù sapeva anche di ospiti che sarebbero sì venuti, ma senza essere vestiti in modo nuziale – senza gioia per la sua vicinanza, seguendo solo un’abitudine, e con tutt’altro orientamento della loro vita. San Gregorio Magno, in una delle sue omelie, si domandava: Che genere di persone sono quelle che vengono senza abito nuziale? In che cosa consiste questo abito e come lo si acquista? 

La sua risposta è: Quelli che sono stati chiamati e vengono hanno in qualche modo fede. È la fede che apre loro la porta. Ma manca loro l’abito nuziale dell’amore. Chi vive la fede non come amore non è preparato per le nozze e viene mandato fuori. La comunione eucaristica richiede la fede, ma la fede richiede l’amore, altrimenti è morta anche come fede.

Da tutti e quattro i Vangeli sappiamo che l’ultimo convito di Gesù prima della Passione fu anche un luogo di annuncio. Gesù ha proposto ancora una volta con insistenza gli elementi portanti del suo messaggio. Parola e Sacramento, messaggio e dono stanno inscindibilmente insieme. Ma durante l’ultimo convito, Gesù ha soprattutto pregato. Matteo, Marco e Luca usano due parole per descrivere la preghiera di Gesù nel punto centrale della Cena: “eucharistesas” ed “eulogesas” – “ringraziare” e “benedire”. Il movimento ascendente del ringraziare e quello discendente del benedire vanno insieme. Le parole della transustanziazione sono parte di questa preghiera di Gesù. Sono parole di preghiera. Gesù trasforma la sua Passione in preghiera, in offerta al Padre per gli uomini. Questa trasformazione della sua sofferenza in amore possiede una forza trasformatrice per i doni, nei quali ora Egli dà se stesso. Egli li dà a noi affinché noi e il mondo siamo trasformati. Lo scopo proprio e ultimo della trasformazione eucaristica è la nostra stessa trasformazione nella comunione con Cristo. L’Eucaristia ha di mira l’uomo nuovo, il mondo nuovo così come esso può nascere soltanto a partire da Dio mediante l’opera del Servo di Dio.
Da Luca e soprattutto da Giovanni sappiamo che Gesù nella sua preghiera durante l’Ultima Cena ha anche rivolto suppliche al Padre – suppliche che al tempo stesso contengono appelli ai suoi discepoli di allora e di tutti i tempi. Vorrei in quest’ora scegliere soltanto una supplica che, secondo Giovanni, Gesù ha ripetuto quattro volte nella sua Preghiera sacerdotale. Quanto deve averLo angustiato nel suo intimo! Essa rimane continuamente la sua preghiera al Padre per noi: è la preghiera per l’unità. Gesù dice esplicitamente che tale supplica non vale soltanto per i discepoli allora presenti, ma ha di mira tutti coloro che crederanno in Lui (cfr Gv 17,20). Chiede che tutti diventino una sola cosa “come tu, Padre, sei in me e io in te … perché il mondo creda” (Gv 17,21). 
L’unità dei cristiani può esserci soltanto se i cristiani sono intimamente uniti a Lui, a Gesù. Fede e amore per Gesù, fede nel suo essere uno col Padre e apertura all’unità con Lui sono essenziali. Questa unità non è dunque una cosa soltanto interiore, mistica. Deve diventare visibile, così visibile da costituire per il mondo la prova della missione di Gesù da parte del Padre. Per questo tale supplica ha un nascosto senso eucaristico che Paolo ha chiaramente evidenziato nella Prima Lettera ai Corinzi: “Il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1Cor 10,16s). Con l’Eucaristia nasce la Chiesa. Noi tutti mangiamo lo stesso pane, riceviamo lo stesso corpo del Signore e questo significa: Egli apre ciascuno di noi al di là di se stesso. Egli ci rende tutti una cosa sola. L’Eucaristia è il mistero dell’intima vicinanza e comunione di ogni singolo col Signore. Ed è, al tempo stesso, l’unione visibile tra tutti. L’Eucaristia è Sacramento dell’unità. Essa giunge fin nel mistero trinitario, e crea così al contempo l’unità visibile. Diciamolo ancora una volta: essa è l’incontro personalissimo col Signore e, tuttavia, non è mai soltanto un atto di devozione individuale. La celebriamo necessariamente insieme. In ogni comunità vi è il Signore in modo totale. Ma Egli è uno solo in tutte le comunità. Per questo, della Preghiera eucaristica della Chiesa fanno necessariamente parte le parole: “una cum Papa nostro et cum Episcopo nostro”. Questa non è un’aggiunta esteriore a ciò che avviene interiormente, bensì espressione necessaria della realtà eucaristica stessa. E menzioniamo il Papa e il Vescovo per nome: l’unità è del tutto concreta, ha dei nomi. Così l’unità diventa visibile, diventa segno per il mondo e stabilisce per noi stessi un criterio concreto.
San Luca ci ha conservato un elemento concreto della preghiera di Gesù per l’unità: “Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,31s). Oggi constatiamo con dolore nuovamente che a Satana è stato concesso di vagliare i discepoli visibilmente davanti a tutto il mondo. E sappiamo che Gesù prega per la fede di Pietro e dei suoi successori. Sappiamo che Pietro, che attraverso le acque agitate della storia va incontro al Signore ed è in pericolo di affondare, viene sempre di nuovo sorretto dalla mano del Signore e guidato sulle acque. Ma poi segue un annuncio e un incarico. “Tu, una volta convertito…”: Tutti gli esseri umani, eccetto Maria, hanno continuamente bisogno di conversione. Gesù predice a Pietro la sua caduta e la sua conversione. Da che cosa Pietro ha dovuto convertirsi? All’inizio della sua chiamata, spaventato dal potere divino del Signore e dalla propria miseria, Pietro aveva detto: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore!” (Lc 5,8). Alla luce del Signore egli riconosce la sua insufficienza. Proprio così, nell’umiltà di chi sa di essere peccatore, egli viene chiamato. Egli deve sempre di nuovo ritrovare questa umiltà. Presso Cesarea di Filippo Pietro non aveva voluto accettare che Gesù avrebbe dovuto soffrire ed essere crocifisso. Ciò non era conciliabile con la sua immagine di Dio e del Messia. Nel cenacolo egli non ha voluto accettare che Gesù gli lavasse i piedi: ciò non si adattava alla sua immagine della dignità del Maestro. Nell’orto degli ulivi ha colpito con la spada. Voleva dimostrare il suo coraggio. Davanti alla serva, però, ha affermato di non conoscere Gesù. In quel momento ciò gli sembrava una piccola bugia, per poter rimanere nelle vicinanze di Gesù. Il suo eroismo è crollato in un gioco meschino per un posto al centro degli avvenimenti. Tutti noi dobbiamo sempre di nuovo imparare ad accettare Dio e Gesù Cristo così come Egli è, e non come noi vorremmo che fosse. Anche noi stentiamo ad accettare che Egli si sia legato ai limiti della sua Chiesa e dei suoi ministri. Anche noi non vogliamo accettare che Egli sia senza potere in questo mondo. Anche noi ci nascondiamo dietro pretesti, quando l’appartenenza a Lui ci diventa troppo costosa e troppo pericolosa. Tutti noi abbiamo bisogno di conversione che accoglie Gesù nel suo essere-Dio ed essere-Uomo. Abbiamo bisogno dell’umiltà del discepolo che segue la volontà del Maestro. In quest’ora vogliamo pregarLo di guardare anche a noi come ha guardato Pietro, nel momento opportuno, con i suoi occhi benevoli, e di convertirci.
Pietro, il convertito, è chiamato a confermare i suoi fratelli. Non è un fatto esteriore che questo compito gli venga affidato nel cenacolo. Il servizio dell’unità ha il suo luogo visibile nella celebrazione della santa Eucaristia. Cari amici, per il Papa è un grande conforto sapere che in ogni Celebrazione eucaristica tutti pregano per lui; che la nostra preghiera si unisce alla preghiera del Signore per Pietro. Solo grazie alla preghiera del Signore e della Chiesa il Papa può corrispondere al suo compito di confermare i fratelli – di pascere il gregge di Gesù e di farsi garante per quell’unità che diventa testimonianza visibile della missione di Gesù da parte del Padre.
“Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi”. Signore, tu hai desiderio di noi, di me. Tu hai desiderio di partecipare te stesso a noi nella santa Eucaristia, di unirti a noi. Signore, suscita anche in noi il desiderio di te. Rafforzaci nell’unità con te e tra di noi. Dona alla tua Chiesa l’unità, perché il mondo creda. Amen.

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Chi insulta chi? Chi sta usando chi? (R.)

Cari Amici,
avrei voluto astenermi dal commentare in questo Giovedì Santo ma francamente mi risulta difficile.
Innanzitutto vi segnalo l'ultimo commento di Sandro Magister da leggere qui.

In particolare:

"È risultato però che nessuno dei partecipanti al summit abbia ricevuto il testo di Ratzinger. Francesco ha creduto bene tenerlo per sé, chiuso in un cassetto...”.

Vorremmo capire e sapere come mai un contributo così importante scritto dal massimo teologo vivente, che fra l'altro ha vissuto in prima persona certi eventi (e li ha combattuti), sia stato volutamente ignorato. Mi pare una domanda legittima che probabilmente è compito dei giornalisti porsi...ma figuriamoci!
Sarà un altro quesito che resterà senza alcuna risposta né dall'alto né dal basso.
Oggi noto il tentativo da parte di alcuni di gettare acqua sul fuoco mostrando la pace, l'amore, la concordia, la continuità ecc. ecc. ecc.
Per una settimana quegli stessi personaggi si sono comportati come degli incendiari scrivendo tweet ripresi e ritwittati più e più volte. Si è arrivati persino a offendere la persona di Papa Benedetto e mi riferisco in particolare a un famoso vaticanista per il quale non ho mai nutrito alcuna stima (e ora so perchè).
Ciò che è francamente troppo è essere costretti a subire le "prediche" da parte di chi ha fomentato le polemiche e accusa gli altri di usare Benedetto XVI per i propri scopi.
Più rispetto, cari signori! Rispetto!
E ricordate sempre che chi vuole davvero bene a Joseph Ratzinger non ha mai chiesto di imporre il silenzio agli oppositori. Si e' sempre risposto ai ragionamenti (o presunti tali) con altri ragionamenti. Almeno in questa sede non si è mai insultato nessuno e di certo non si è "silenziato" alcun emerito, anche quando una sorta di magistero parallelo "parlava" dalle colonne dei giornali che ora infatti sono tutti zucchero e miele con il nuovo corso.
Calma quindi! E ribadisco: rispetto per Papa Benedetto soprattutto da parte di chi dovrebbe conoscerne i meriti!
R.

martedì 16 aprile 2019

L'ingresso di Benedetto XVI nella cattedrale di Notre Dame (Parigi, 12.09.2008)



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Benedetto XVI fa il suo ingresso nella cattedrale di Parigi in occasione del suo Viaggio Apostolico in Francia del 2008. E' un omaggio a Nostre Dame, devastata da un incendio scoppiato nel tardo pomeriggio del 15 aprile 2019.
E' anche un modo per ricordare gli splendidi viaggi di Papa Benedetto e per rinnovargli gli auguri di buon compleanno.
Grazie a Gemma per il video :-)
R.

Buon compleanno, Papa Benedetto!!!

Cari Amici,
siamo tutti sconvolti per il devastante incendio che ha colpito e quasi distrutto la Cattedrale di Notre Dame. Sia questo, però, anche un giorno di speranza.
Oggi è il compleanno di Papa Benedetto. Ci stringiamo tutti al Santo Padre augurandogli ogni bene e pregando affinché egli continui a sostenere la Chiesa e i Cattolici del mondo intero.
Auguri, Santità, ad multos annos.
Il blog

lunedì 15 aprile 2019

Notre Dame è in fiamme: la preghiera del blog alla Vergine

Cari Amici,
circa un'ora fa un incendio devastante ha avvolto il tetto della Cattedrale di Parigi, Notre Dame.
Eleviamo la nostra preghiera alla Vergine Santa, a cui la Cattedrale è dedicata, affinché i vigili del fuoco riescano a domare le fiamme al più presto.
Una supplica anche a Santa Bernadette, la piccola veggente di Lourdes. Domani la Chiesa ricorda il suo ritorno alla Casa del Padre.
Siamo sicuri che anche Benedetto si sta unendo nella preghiera per Notre Dame da lui particolarmente amata.
R.

Papa Ratzinger e la fede d’Israele. Avanza il dialogo tra ebrei e cattolici (Folger)

Clicca qui per leggere un brano della prefazione al testo in uscita domani.

L'Autore ha incontrato Benedetto a gennaio e conferma di averlo trovato mentalmente brillante (come sempre).
A chi insinua che il Papa sia manovrabile o addirittura non più in grado di scrivere e/o commentare gli eventi rispondiamo con una sonora pernacchia (quando ci vuole...).
R.

domenica 14 aprile 2019

Tg2 Dossier speciale dedicato a Benedetto XVI

Clicca qui per vedere la puntata integrale dello speciale a cura di Giovan Battista Brunori.
Buona Domenica delle Palme a tutti :-)
R.

sabato 13 aprile 2019

Il risveglio degli "esperti" di questioni vaticane tutti concordi nel voler ridurre al silenzio Benedetto XVI. Ma è un'impresa inutile...(R.)

Cari Amici,
il saggio di Papa Benedetto sta facendo notevolmente discutere. Si tratta di un evento positivo perché, finalmente, si sente qualcosa di diverso dal solito applauso incondizionato.
Attenzione però: è lecita ogni critica mentre non è accettabile l'offesa personale e il tentativo di screditare Papa Benedetto. Questo, cari signori, proprio no!
State dimostrando di non sapere controbattere con argomenti solidi a riflessioni razionali.
Si vede che non siete abituati...
Ci sono anche buoni spunti naturalmente.
Vi invito, per esempio, a leggere l'editoriale di stamattina di Massimo Franco a questo link. L'articolo è in buona parte condivisibile e ha il grande pregio di essere rispettoso delle opinioni altrui, atteggiamento rarissimo nei commentatori di cose vaticane.
Secondo me, però, non stiamo assistendo alla contrapposizione fra i "nostalgici" di Ratzinger e i membri del "cerchio magico", ma fra liberali e altri non altrettanto liberali.
Noi "ratzingeriani" (lo ha dimostrato anche l'esperienza di questo blog) non vogliamo togliere il diritto di parola a nessuno. Quando, durante il Pontificato di Benedetto XVI, venivano pubblicati articoli critici, se non denigratori, verso il Papa, nessuno di noi ha mai preteso che gli autori venissero costretti al silenzio. E valeva non solo per i giornalisti ma anche per gli alti prelati in pensione.
Quante volte abbiamo preso posizione nei confronti di certe uscite del card. Martini? Mai e poi mai abbiamo chiesto il suo silenzio. Abbiamo segnalato, commentato e discusso. Al limite possiamo avere ignorato certe uscite ma non ci siamo mai permessi di affermare che il cardinale avrebbe dovuto tacere in quanto vescovo emerito.
Quando ci sono opinioni diverse dalle nostre è buona norma rispondere con argomenti solidi non con le offese personali e, tanto meno, con la richiesta del silenzio.
Leggo che ci vorrebbe una costituzione apostolica (o qualcosa del genere) per disciplinare lo status di Papa emerito. Ma va là! Alcuni vorrebbero semplicemente una legge "contra personam" per obbligare Benedetto a tacere. Se non futuro ci dovesse essere un altro Papa emerito non dovrebbero sorgere problemi: potrà parlare quanto vuole a patto di dire ciò che piace alla gente che piace. Perché questo è il punto! Non dà fastidio che il Papa abbia parlato ma che abbia detto cose urticanti per i commentatori in voga. Se poi questo Papa si chiama Ratzinger...
Quanti post frignanti, quanta indignazione nei tweet: taccia! Non ha il diritto di parlare!
Dice cose assurde! Quel testo non l'ha scritto lui! E' manipolato! Sono cose già sentite (e ci mancherebbe! In quel saggio non c'è nulla di non cattolico!).
Ma smettetela! Imparate a rispetterare le opinioni altrui e scendete da quel piedistallo di sabbia che vi siete costruiti.
Solo chi non ha letto il testo o è in malafede può scrivere che Ratzinger dà la colpa della pedofilia ai movimenti del 1968. Il Papa sta semplicemente analizzando come e in che misura un certo tipo di mentalità è entrata nella chiesa. Vogliamo forse negare che prima del 2001 c'era più di una tolleranza nei confronti dei preti pedofili e che questa tolleranza spesso derivava da una interpretazione del tutto scorretta del concetto di misericordia? Dai, non prendiamoci in giro! 
Fu proprio Ratzinger a cambiare le regole del gioco nel 2001 e a sottrarre ai vescovi diocesani la competenza in materia di pedofilia. Questa è storia, cari signori!
Ciò non significa che prima del 1968 non ci fossero pedofili e infatti Benedetto nel testo non afferma MAI una cosa del genere.
Mi domando però quali siano le ragioni profonde di un odio così radicato nei confronti di Joseph Ratzinger. Posso solo azzardare delle ipotesi.

1) Joseph Ratzinger, per il solo fatto di esistere, ricorda a tutti quanto sia immensa la sua cultura e quanto forte sia la sua fede. Tutto ciò è insopportabile;

2) Joseph Ratzinger è stato Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Questo ruolo suscita di per sé odio e risentimento. Ops...ho sbagliato il tempo del verbo...suscitava;

3) Joseph Ratzinger si è dimesso ma parla ancora. Intollerabile;

4) Joseph Ratzinger vive ancora. Situazione problematica.

Tutte ipotesi ma, secondo me, ancora insufficienti a spiegare la valanga di odio, insulti e risentimento che stiamo leggendo in questi giorni. In fondo i commentatori che piacciono alla gente che piace non dovrebbero prendersela tanto. Quando Ratzinger era Papa potevano criticarlo a volontà e senza conseguenze. Dal marzo 2013 vedono realizzati i loro sogni più segreti e intimi. Perché quindi sono così agitati?
Mi viene in mente un'altra spiegazione.
Solo Benedetto XVI ha il dono di non lasciare indifferente NESSUNO. Si può amare, si può anche odiare, ma di sicuro non si può ignorare.
Basta che Joseph Ratzinger dica una parola e tutti "si risvegliano": chi lo ama torna a commentare e riacquista fiducia e serenità; chi lo detesta mette una pomata antidolofica sulle mani troppo usurate dagli applausi e decide di rimettersi a scrivere. Peccato che ciò che scrive non sia all'altezza di chi si vuole denigrare. Ma questa è un'altra storia...
Benedetto ha il potere di farci riflettere, ha il dono di costringerci a mettere in discussione le nostre comodità (e spesso le nostre banalità) e ha il carisma di arricchirci sempre di più e sempre in modo diverso. Grazie, Santità!
Temo che tutto ciò sia intollerabile per molti e credo che la maggiorparte dei commentatori si sia illusa di potere imporre a tutti i Cattolici una certa visione della Chiesa e del Cristianesimo. E' assai probabile che essi non abbiano messo in conto il fatto che gli otto anni di Pontificato "benedettiano" non sono passati invano e che c'è ancora qualcuno che bada alla sostanza e si pone parecchie domande. Forse da questo nasce una certa frustrazione.
Di prove ce ne sono parecchie: ci sono stati e sono in agenda molti viaggi papali ma tutti aspettano solo il momento della conferenza stampa "ad alta quota" (il resto non conta). Nonostante il martellamento mediatico l'audience televisiva latita e il numero dei fedeli non registra quel boom che solitamente la pubblicità garantisce. Anche gli eventi "choccanti", come il bacio dei piedi, non sortiscono più quell'effetto che si aveva solo tre o quattro anni fa. 
E invece...
Basta che Benedetto scriva una parola che tutti tornano ai loro posti, magari su fronti contrapposti ma tutti sull'attenti. Ecco il grande dono di Ratzinger, il professore, il vescovo, il Papa :-)
Attenzione, quindi, a tentare di ridurre al silenzio una voce tanto carismatica! In questi sei anni egli ha parlato poco, ma tutti noi sappiamo che c'è e ci sarà sempre attraverso la sua testimonianza e i suoi scritti. Rassegnatevi, quindi, e state calmi :-)
Buona giornata.
Raffaella

Non ci voleva proprio...l'intervento di Papa Benedetto XVI manda in tilt i vaticanisti (R.)

Cari Amici,
diciamocelo: ci stiamo divertendo :-)
Ieri è stata davvero la giornata dei grandi avvenimenti: prima lo scritto straordinario di Benedetto XVI (straordinario perchè il Papa interviene raramente e straordinario per il contenuto) e poi le reazioni scomposte di molti che tradiscono non solo lo stupore ma anche la profonda irritazione nel constatare che Ratzinger è sempre lì a fare da pungolo (e da parafulmine). 
Meglio così: ora sappiamo come la pensa ciascuno dei commentatori con cui, negli anni, abbiamo avuto a che fare. Abbiamo avuto molte conferme e qualche sorpresa in positivo ma soprattutto in negativo. I nomi? Non è necessario. Li trovate tutti sui giornali, sui social e in vari siti.
Credo che in un certo senso Benedetto dovrebbe ironicamente scusarsi :-)
Sì...perché ho notato che le reazioni sono davvero sconcertanti ed alcune persino ridicole, segno che si è persa in questi anni ogni capacità di critica costruttiva per il semplice fatto che non si è più abituati ad analizzare i documenti del Pontefice.
Con Ratzinger non si può ridurre tutto a slogan. Chi lo fa, citando il 1968, sa di compiere una forzatura. Con Benedetto non ci si può permettere di ignorare il contenuto dell'intervento per il semplice fatto che è scomodo. Con Ratzinger non si può semplicemente applaudire, occorre approfondire.
Ecco...il Papa dovrebbe scusarsi di avere disturbato la quiete di vaticanisti, commentatori e addetti stampa. Ma come si è permesso? :-)
Ieri poi gli opinionisti più gettonati sono caduti ingenuamente in un trappolone involontario. Ed è proprio lì che hanno mostrato il volto.
Due avvenimenti: lo scritto di Benedetto e il bacio dei piedi.
Il primo è stato criticato, analizzato, minimizzato, ridotto a critica del 1968. Non solo: è tornato di moda chiedersi perché Ratzinger parli ancora visto che ha rinunciato al Pontificato. Qualcuno è arrivato a scrivere che i vescovi emeriti non devono intralciare il cammino dei loro successori. Innanzitutto Benedetto non è un semplice vescovo emerito, ma un Papa emerito (scusate se è poco...). In secondo luogo come mai questa agitazione? Sono noti gli interventi di Martini e di Danneels dopo il pensionamento. Come mai essi davano contributi preziosi e Benedetto no? 
Siamo seri e soprattutto coerenti! O possono parlare tutti o non parla nessuno.
E veniamo al secondo avvenimento: il bacio dei piedi.
Nessun commento, nessuna presa di posizione. Semplicente il solito rumoroso incondizionato applauso. Lodi e lodi a prescindere.
Beh, complimenti, cari vaticanisti! Questi sono i comportamenti imbarazzanti, non certo gli interventi del Santo Padre.
Certo! Non deve essere facile districarsi nella complicata materia: ieri si è accolto con entusiamo il bacio del piede (come verrà esaltata la lavanda dei piedi giovedì prossimo), mentre poco meno di un mese fa si è applaudito il rifiuto del baciamano dei fedeli. Il piede sì e la mano no? E' pur vero che nel caso di Loreto c'è stata la spiegazione ufficiale vaticana: nessun rifiuto ma solo motivi igienici.
Ovviamente la versione è scivolata via come l'olio sui fogli dei commenti di vaticanisti e opinionisti.
Comunque c'è sicuramente un lato positivo: con Benedetto i giornalisti possono tornare a esercitare il diritto di critica. Non fa mai male ripassare un po' la materia.
Mi perdonino, però, se non mi curo più di tanto delle loro invettive. Non mi piace chi critica una persona a prescindere e ne esalta un'altra sempre a prescindere.
E' una questione di coerenza e di dignità (la mia dignità ovviamente).
Buona giornata :-)
R.

p.s. se e quando il "vento" dovesse cambiare, i giornalisti pensano di tornare a prendersela con il Pontefice (chiunque sia) senza battere ciglio? Attenzione perché certi silenzi peseranno eccome se peseranno. Vogliamo citare i dubia (ignorati dai media), le testimonianze di Viganò (ignorate e/o denigrate), lo scandalo del Cile, le vicende Barros, Zanchetta, Pell, Inzoli? C'è poi la vicenda Maradiaga su cui nessuno sembra volere indagare un po' (clicca qui).
Se tutto ciò fosse accaduto ai tempi di Papa Benedetto...ah...quanti titoli! Ah, quante lapidazioni mediatiche!

giovedì 11 aprile 2019

Benedetto XVI "torna" e mette subito in moto commenti, discussioni e polemiche. Finalmente! (Raffaella)

Cari Amici,
il meraviglioso intervento di Benedetto XVI ha immediatamente messo in moto una catena inesauribile di commenti, discussioni e anche polemiche.
Dico subito che queste ultime sono sempre interessanti purché arrivino da pulpiti degni di questo nome. Francamente non mi interessano affatto le crisi "isteriche" di chi, in questi anni, non ha mosso un dito e mezza penna per denunciare la crisi della fede e certi atteggiamenti del nuovo corso nei confronti dei dubia, di Viganò, dello scandalo del Cile, di Inzoli, di Pell, di McCarrick etc. etc.etc.
Le indignazioni "a comando" riversate su chi non ci va a genio e le indulgenze verso chi la pensa come noi hanno sinceramente stancato. Si vuole tacere? E allora si taccia sempre...
La riflessione di Papa Benedetto brilla per la sua attualità e competenza. Joseph Ratzinger dimostra ancora una volta di avere un quadro ben lucido e definito della crisi attuale della chiesa e ne indaga le ragioni profonde.
Lasciamo perdere i titoli ad effetto e le semplificazioni che, come sempre, non posso rilanciare un pensiero così articolato come quello di Benedetto.
Si tratta di un'analisi teologica, storica e giuridica che vale la pena di approfondire in tutti i suoi aspetti.
Vi si riconosce immediatamente il tocco anche ironico del Papa nel parlare di certe reazioni all'enciclica di Giovanni Paolo II :-)
Mi hanno colpito molto i cenni personali. Papa Ratzinger conosce perfettamente la questione perché l'ha vissuta in prima persona. Commovente il racconto delle confidenza della ragazza abusata.
Bellissima la parte riguardante l'aspetto giuridico della piaga della pedofilia con una denuncia fortissima: l'indulgenza che protegge l'abusatore prima dell'abusato.
Vogliamo negare che questa sia l'assoluta verità? Quanti danni ha fatto (e fa) una falsa concezione di misericordia?
Posso dirlo? E' tornato...finalmente :-)
Il Santo Padre ci è mancato molto, dobbiamo gridarlo a gran voce.
Il suo ritorno farà bene anche agli oppositori più incalliti: lo ammettano! Finalmente potranno scrivere qualcosa e non limitarsi a pubblicare la faccina con la mano che applaude :-)
Un po' di brio, suvvia! Certo che quel riferimento alla Dichiarazione di Colonia...chissà quanto infastidisce!
R.

Benedetto XVI sulla piaga degli abusi sessuali e la crisi della fede. Da leggere, stampare e conservare

Pubblichiamo la traduzione in italiano dello straordinario intervento di Papa Benedetto su un mensile tedesco. Finalmente aria fresca. Non a caso certuni iniziano ad agitarsi. Attenzione ai titoli trappola: Benedetto non dice che la pedofilia è nata nel 1968!
Grazie, Santo Padre, per tutto! Ad multos annos.
R.
Dal 21 al 24 febbraio 2019, su invito di Papa Francesco, si sono riuniti in Vaticano i presidenti di tutte le conferenze episcopali del mondo per riflettere insieme sulla crisi della fede e della Chiesa avvertita in tutto il mondo a seguito della diffusione delle sconvolgenti notizie di abusi commessi da chierici su minori. La mole e la gravità delle informazioni su tali episodi hanno profondamente scosso sacerdoti e laici e non pochi di loro hanno determinato la messa in discussione della fede della Chiesa come tale. Si doveva dare un segnale forte e si doveva provare a ripartire per rendere di nuovo credibile la Chiesa come luce delle genti e come forza che aiuta nella lotta contro le potenze distruttrici.
Avendo io stesso operato, al momento del deflagrare pubblico della crisi e durante il suo progressivo sviluppo, in posizione di responsabilità come pastore nella Chiesa, non potevo non chiedermi – pur non avendo più da Emerito alcuna diretta responsabilità – come a partire da uno sguardo retrospettivo, potessi contribuire a questa ripresa. E così, nel lasso di tempo che va dall’annuncio dell’incontro dei presidenti delle conferenze episcopali al syo vero e proprio inizio, ho messo insieme degli appunti con i quali fornire qualche indicazione che potesse essere di aiuto in questo mo­mento difficile. A seguito di contatti con il Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, e con lo stesso Santo Padre, ritengo giusto pubblicare su “Klerusblatt” il testo così concepito.
Il mio lavoro è suddiviso in tre parti. In un primo punto tento molto breve­ mente di delineare in generale il contesto sociale della questione, in mancanza del quale il problema risulta incomprensibile. Cerco di mostrare come negli anni ‘60 si sia verificato un processo inaudito, di un ordine di grandezza che nella storia è quasi senza precedenti. Si può affermare che nel ventennio 1960-1980 i criteri validi sino a quel momento in tema di sessualità sono venuti meno completamente e ne è risultata un’assenza di norme alla quale nel frattempo ci si è sforzati di rimediare.
In un secondo punto provo ad accennare alle conseguenze di questa si­tuazione nella formazione e nella vita dei sacerdoti.
Infine, in una terza parte, svilupperò alcune prospettive per una giusta ri­sposta da parte della Chiesa.
I
Il processo iniziato negli anni ’60 e la teologia morale
1. La situazione ebbe inizio con l’introduzione, decretata e sostenuta dallo Stato, dei bambini e della gioventù alla natura della sessualità. In Ger­mania Kate Strobel, la Ministra della salute di allora, fece produrre un film a scopo informativo nel quale veniva rappresentato tutto quello che sino a quel momento non poteva essere mostrato pubblicamente, rap­porti sessuali inclusi. Quello che in un primo tempo era pensato solo per informare i giovani, in seguito, come fosse ovvio, è stato accettato come possibilità generale.
Sortì effetti simili anche la «Sexkoffer» (valigia del sesso) curata dal governo austriaco. Film a sfondo sessuale e pornografici divennero una realtà, sino al punto da essere proiettati anche nei cinema delle stazioni. Ricordo ancora come un giorno, andando per Ratisbona, vidi che attendevateva di fronte a un grande cinema una massa di persone come sino ad allora si era vista solo in tempo di guerra quando si sperava in qual­ che distribuzione straordinaria. Mi è rimasto anche impresso nella memoria quando il Venerdì Santo del 1970 arrivai in città e vidi tutte le colonnine della pubblicità tappezzate di manifesti pubblicitari che presentavano in grande formato due persone completamente nude abbracciate strettamente.
Tra le libertà che la Rivoluzione del 1968 voleva conquistare c’era anche la completa libertà sessuale, che non tollerava più alcuna norma. Latita la proiezione di film a sfondo sessuale, giacché nella piccola comu­nità di passeggeri scoppiava la violenza. Poiché anche gli eccessi nel ve­stire provocavano aggressività, i presidi cercarono di introdurre un ab­bigliamento scolastico che potesse consentire un clima di studio.
Della fisionomia della Rivoluzione del 1968 fa parte anche il fatto che la pedofilia sia stata diagnosticata come permessa e conveniente. Quantomeno per i giovani nella Chiesa, ma non solo per loro, questo fu per molti versi un tempo molto difficile. Mi sono sempre chiesto come in questa situazione i giovani potessero andare verso il sacerdozio e accet­tarlo con tutte le sue conseguenze. Il diffuso collasso delle vocazioni sa­cerdotali in quegli anni e l’enorme numero di dimissioni dallo stato cle­ricale furono una conseguenza di tutti questi processi.
2. Indipendentemente da questo sviluppo, nello stesso periodo si è verifica­to un collasso della teologia morale cattolica che reso inerme la Chiesa di fronte a quei processi nella società. Cerco di delineare molto brevemente lo svolgimento di questa dinamica. Sino al Vaticano II la teologia morale cattolica veniva largamente fondata giusnaturalistica­mente, mentre la Sacra Scrittura veniva addotta solo come sfondo o a supporto. Nella lotta ingaggiata dal Concilio per una nuova compren­sione della Rivelazione, l’opzione giusnaturalistica venne quasi comple­tamente abbandonata e si esigette una teologia morale completamente fondata sulla Bibbia. Ricordo ancora come la Facoltà dei gesuiti di Francoforte preparò un giovane padre molto dotato (Bruno Schüller) per l’elaborazione di una morale completamente fondata sulla Scrittura. La bella dissertazione di padre Schüller mostra il primo passo dell’elaborazione di una morale fondata sulla Scrittura. Padre Schüller venne poi mandato negli Stati Uniti d’America per proseguire gli studi e tornò con la consapevolezza che non era possibile elaborare sistemati­camente una morale solo a partire dalla Bibbia. Egli tentò successiva­mente di elaborare una teologia morale che procedesse in modo più pragmatico, senza però con ciò riuscire a fornire una risposta alla crisi della morale.
Infine si affermò ampiamente la tesi per cui la morale dovesse essere de­finita solo in base agli scopi dell’agire umano. Il vecchio adagio «il fine giustifica i mezzi» non veniva ribadito in questa forma così rozza, e tut­tavia la concezione che esso esprimeva era divenuta decisiva. Perciò non poteva esserci nemmeno qualcosa dì assolutamente buono né tantome­no qualcosa dì sempre malvagio, ma solo valutazioni relative. Non c’era più il bene, ma solo ciò che sul momento e a seconda delle circostanze è relativamente meglio.
Sul finire degli anni ’80 e negli anni ’90 la crisi dei fondamenti e della presentazione della morale cattolica raggiunse forme drammatiche.
Il 5 gennaio 1989 fu pubblicata la «Dichiarazione di Colonia» firmata da 15 professori di teologia cattolici che si concentrava su diversi punti critici del rapporto fra magistero episcopale e compito della teologia
Questo testo, che inizialmente non andava oltre il livello consueto delle rimostranze, crebbe tuttavia molto velocemente sino a trasformarsi in grido di protesta contro il magistero della Chiesa, raccogliendo in modo ben visibile e udibile il potenziale dì opposizione che in tutto il mondo anda­ va montando contro gli attesi testi magisteriali di Giovanni Paolo II (cfr. D. Mieth, Kölner Erklärung, LThK, VI3,196).
Papa Giovanni Paolo II, che conosceva molto bene la situazione della teologia morale e la seguiva con attenzione, dispose che s’iniziasse a la­vorare a un’enciclica che potesse rimettere a posto queste cose. Fu pubblicata con il titolo Veritatis splendor il 6 agosto 1993 suscitando violente reazioni contrarie da parte dei teologi morali. In precedenza già c’era stato il Catechismo della Chiesa cattolica che aveva sistematica­ mente esposto in maniera convincente la morale insegnata dalla Chiesa.
Non posso dimenticare che Franz Böckle – allora fra i principali teologi morali di lingua tedesca, che dopo essere stato nominato professore emerito si era ritirato nella sua patria svizzera -, in vista delle possibili decisioni di Veritatis splendor, dichiarò che se l’Enciclica avesse deciso che ci sono azioni che sempre e in ogni circostanza vanno considerate malvagie, contro questo egli avrebbe alzato la sua voce con tutta la forza che aveva. Il buon Dio gli risparmiò la realizzazione del suo proposito; Böckle morì l’8 luglio 1991. L’Enciclica fu pubblicata il 6 agosto 1993 e in effetti conteneva l’affermazione che ci sono azioni che non possono mai diventare buone. 
Il Papa era pienamente consapevole de peso di quella decisione in quel momento e, proprio per questa parte del suo scritto, aveva consultato ancora una volta esperti di assoluto livello che di per sé non avevano partecipato alla redazione dell’Enciclica. Non ci poteva e non ci doveva essere alcun dubbio che la morale fondata sul principio del bilanciamento di beni deve rispettare un ultimo limite. Ci sono beni che sono indisponibili. 
Ci sono valori che non è mai lecito sacrificare in nome di un valore ancora più alto e che stanno al di sopra anche della conservazione della vita fisica. Dio è di più anche della sopravvivenza fisica. Una vita che fosse acquistata a prezzo del rinnegamento di Dio, una vita basata su un’ultima menzogna, è una non-vita. 
Il martirio è una categoria fondamentale dell’esistenza cristiana. Che esso in fondo, nella teoria sostenuta da Böckle e da molti altri, non sia più moralmente necessario, mostra che qu1 ne va dell’essenza stessa del cristianesimo.
Nella teologia morale, nel frattempo, era peraltro divenuta pressante un’altra questione: si era ampiamente affermata la tesi che al magistero della Chiesa spetti la competenza ultima e definitiva («infallibilità») solo sulle questioni di fede, mentre le questioni della morale non potrebbero divenire oggetto di decisioni infallibili del magistero ecclesiale. In questa tesi c’è senz’altro qualcosa di giusto che merita di essere ulteriormente discusso e approfondito. E tuttavia c’è un minimum morale che è inscindibilmente connesso con la decisione fondamentale di fede e che deve essere difeso, se non si vuole ridurre la fede a una teoria e si riconosce, al contrario, la pretesa che essa avanza rispetto alla vita concreta. Da tutto ciò emerge come sia messa radicalmente in discussione l’autorità della Chiesa in campo morale. Chi in quest’ambito nega alla Chiesa un’ultima competenza dottrinale, la costringe al silenzio proprio dove è in gioco il confine fra verità e menzogna.
Indipendentemente da tale questione, in ampi settori della teologia mo­rale si sviluppò la tesi che la Chiesa non abbia né possa avere una propria morale. Nell’affermare questo si sottolinea come tutte le affermazioni morali avrebbero degli equivalenti anche nelle altre religioni e che dunque non potrebbe esistere un proprium cristiano. 
Ma alla questione del proprium di una morale biblica, non si risponde affermando che, per ogni singola frase, si può trovare da qualche parte un’equivalente in al­tre religioni. È invece l’insieme della morale biblica che come tale è nuo­vo e diverso rispetto alle singole parti
La peculiarità dell’insegnamento morale della Sacra Scrittura risiede ultimamente nel suo ancoraggio all’immagine di Dio, nella fede nell’unico Dio che si è mostrato in Gesù Cristo e che ha vissuto come uomo. Il Decalogo è un’applicazione alla vi­ta umana della fede biblica in Dio. 
Immagine di Dio e morale vanno in­sieme e producono così quello che è specificamente nuovo dell’atteggiamento cristiano verso il mondo e la vita umana. Del resto, sin dall’inizio il cristianesimo è stato descritto con la parola hodòs. La fede è un cammino, un modo di vivere. 
Nella Chiesa antica, rispetto a una cultura sempre più depravata, fu istituito il catecumenato come spazio di esistenza nel quale quel che era specifico e nuovo del modo di vivere cristiano veniva insegnato e anche salvaguardato rispetto al modo di vivere comune. Penso che anche oggi sia necessario qualcosa di simi­ le a comunità catecumenali affinché la vita cristiana possa affermarsi nella sua peculiarità.
II

Prime reazioni ecclesiali
1. Il processo di dissoluzione della concezione cristiana della morale, da lungo tempo preparato e che è in corso, negli anni ‘60, come ho cercato di mostrare, ha conosciuto una radicalità come mai c’era stata prima di allora. Questa dissoluzione dell’autorità dottrinale della Chiesa in materia morale doveva necessariamente ripercuotersi anche nei diversi spazi di vita della Chiesa. Nell’ambito dell’incontro dei presidenti delle Conferenze episcopali di tutto il mondo, interessa soprattutto la questione della vita sacerdotale e inoltre quella dei seminari. Riguardo al problema della preparazione al ministero sacerdotale nei seminari, si constata in effetti un ampio collasso della forma vigente sino a quel momento di questa preparazione.
In diversi seminari si formarono club omosessuali che agivano più o meno apertamente e che chiaramente trasformarono il clima nei seminari. In un seminario nella Germania meridionale i candidati al sacerdozio e i candidati all’ufficio laicale di referente pastorale vivevano in­sieme. Durante i pasti comuni, i seminaristi stavano insieme ai referenti pastorali coniugati in parte accompagnati da moglie e figlio e in qualche caso dalle loro fidanzate. Il clima nel seminario non poteva aiutare la formazione sacerdotale. 
La Santa Sede sapeva di questi problemi, senza esserne in formata nel dettaglio. Come primo passo fu disposta una Visita apostolica nei seminari degli Stati Uniti.
Poiché dopo il Concilio Vaticano II erano stati cambiati pure i criteri per la scelta e la nomina dei vescovi, anche il rapporto dei vescovi con i loro seminari era differente. 
Come criterio per la nomina di nuovi vescovi va­ leva ora soprattutto la loro «conciliarità», potendo intendersi natural­mente con questo termine le cose più diverse. 
In molte parti della Chie­sa, il sentire conciliare venne di fatto inteso come un atteggiamento cri­tico o negativo nei confronti della tradizione vigente fino a quel momen­to, che ora doveva essere sostituita da un nuovo rapporto, radicalmente aperto, con il mondo. 
Un vescovo, che in precedenza era stato rettore, aveva mostrato ai seminaristi film pornografici, presumibilmente con l’intento di renderli in tal modo capaci di resistere contro un comportamento contrario alla fede. Vi furono singoli vescovi – e non solo negli Stati Uniti d’America – che rifiutarono la tradizione cattolica nel suo complesso mirando nelle loro diocesi a sviluppare una specie di nuova, moderna «cattolicità». 
Forse vale la pena accennare al fatto che, in non pochi seminari, studenti sorpresi a leggere i miei libri venivano considerati non idonei al sacerdozio. I miei libri venivano nascosti come letteratura dannosa e venivano per così dire letti sottobanco.
La Visita che seguì non portò nuove informazioni, perché evidentemente diverse forze si erano coalizzate al fine di occultare la situazione reale. Venne disposta una seconda Visita che portò assai più informazioni, ma nel complesso non ebbe conseguenze. Ciononostante, a partire dagli anni ‘70, la situazione nei seminari in generale si è consolidata. E tutta­via solo sporadicamente si è verificato un rafforzamento delle vocazioni, perché nel complesso la situazione si era sviluppata diversamente.
2. La questione della pedofilia è, per quanto ricordi, divenuta scottante solo nella seconda metà degli anni‘80. Negli Stati Uniti nel frattempo era già cresciuta, divenendo un problema pubblico. 
Così i vescovi chiesero aiuto a Roma perché il diritto canonico, così come fissato nel Nuovo Co­dice, non appariva sufficiente per adottare le misure necessarie. In un primo momento Roma e i canonisti romani ebbero delle difficoltà con questa richiesta; a loro avviso, per ottenere purificazione e chiarimento sarebbe dovuta bastare la sospensione temporanea dal ministero sacerdotale. Questo non poteva essere accettato dai vescovi americani perché in questo modo i sacerdoti restavano al servizio del vescovo venendo così ritenuti come figure direttamente a lui legate. Un rinnovamento e un approfondimento del diritto penale, intenzionalmente costruito m modo blando nel Nuovo Codice, poté farsi strada solo lentamente.
A questo si aggiunse un problema di fondo che riguardava la concezione del diritto penale. Ormai era considerato «conciliare» solo il così detto «garantismo». 
Significa che dovevano essere garantiti soprattutto i diritti degli accusati e questo fino al punto da escludere di fatto una condanna. Come contrappeso alla possibilità spesso insufficiente di difendersi da parte di teologi accusati, il loro diritto alla difesa venne talmente esteso nel senso del garantismo che le condanne divennero quasi impossibili.
Mi sia consentito a questo punto un breve excursus. Di fronte all’estensione delle colpe di pedofilia, viene in mente una parola di Gesù che dice: «Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare» (Mc 9,42). Nel suo significato originario questa parola non parla dell’adescamento di bambini a scopo sessuale. 
Il termine «i piccoli» nel linguaggio di Gesù designa i credenti semplici, che potrebbero essere scossi nella loro fede dalla superbia intellettuale di quelli che si credono intelligenti. Gesù qui allora protegge il bene della fede con una perentoria minaccia di pena per coloro che le recano offesa
Il moderno utilizzo di quelle parole in sé non è sbagliato, ma non deve occultare il loro sen­ so originario. In esso, contro ogni garantismo, viene chiaramente in luce che è importante e abbisogna di garanzia non solo il diritto dell’accusato. Sono altrettanto importanti beni preziosi come la fede. 
Un diritto canonico equilibrato, che corrisponda al messaggio di Gesù nella sua interezza, non deve dunque essere garantista solo a favore dell’accusato, il cui rispetto è un bene protetto dalla legge. Deve proteg­gere anche la fede, che del pari è un bene importante protetto dalla legge.
Un diritto canonico costruito nel modo giusto deve dunque contenere una duplice garanzia: protezione giuridica dell’accusato e protezione giuridica del bene che è in gioco
Quando oggi si espone questa concezione in sé chiara, in genere ci si scontra con sordità e indifferenza sulla questione della protezione giuridica della fede. 
Nella coscienza giuridica comune la fede non sembra più avere il rango di un bene da proteggere. È una situazione preoccupante, sulla quale i pastori della Chiesa devo­no riflettere e considerare seriamente.
Ai brevi accenni sulla situazione della formazione sacerdotale al mo­mento del deflagrare pubblico della crisi, vorrei ora aggiungere alcune indicazioni sull’evoluzione del diritto canonico in questa questione. In sé, per i delitti commessi dai sacerdoti è responsabile la Congregazione per il clero. Poiché tuttavia in essa il garantismo allora dominava am­ piamente la situazione, concordammo con papa Giovanni Paolo II sull’ opportunità di attribuire la competenza su questi delitti alla Con­gregazione per la Dottrina della Fede, con la titolatura «Delicta maiora contra fidem». Con questa attribuzione diveniva possibile anche la pena massima, vale a dire la riduzione allo stato laicale, che invece non sa­rebbe stata comminabile con altre titolature giuridiche. Non si trattava di un escamotage per poter comminare la pena massima, ma una con­ seguenza del peso della fede per la Chiesa. 
In effetti è importante tener presente che, in simili colpe di chierici, ultimamente viene danneggiata la fede: solo dove la fede non determina più l’agire degli uomini sono possibili tali delitti. La gravità della pena presuppone tuttavia anche una chiara prova del delitto commesso: è il contenuto del garantismo che rimane in vigore. 
In altri termini: per poter legittimamente comminare la pena massima è necessario un vero processo penale. E tuttavia, in questo modo si chiedeva troppo sia alle diocesi che alla Santa Sede. E così stabilimmo una forma minima di processo penale e lasciammo aperta la possibilità che la stessa Santa Sede avocasse a sé il processo nel caso che la diocesi o la metropolia non fossero in grado di svolgerlo. 
In ogni caso il processo doveva essere verificato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede per garantire i diritti dell’accusato. Alla fine, però, nella Feria IV (vale a dire la riunione di tutti i membri della Congrega­zione), creammo un’istanza d’appello, per avere anche la possibilità di un ricorso contro il processo
Poiché tutto questo in realtà andava al di là delle forze della Congregazione per la Dottrina della Fede e si verifica­ vano dei ritardi che invece, a motivo della materia, dovevano essere evi­tati, papa Francesco ha intrapreso ulteriori riforme.
III
Alcune prospettive
1. Cosa dobbiamo fare? Dobbiamo creare un’altra Chiesa affinché le cose possano aggiustarsi? Questo esperimento già è stato fatto ed è già falli­to. Solo l’amore e l’obbedienza a nostro Signore Gesù Cristo possono in­dicarci la via giusta. Proviamo perciò innanzitutto a comprendere in modo nuovo e in profondità cosa il Signore abbia voluto e voglia da noi.
In primo luogo direi che, se volessimo veramente sintetizzare al massi­mo il contenuto della fede fondata nella Bibbia, potremmo dire: il Signo­re ha iniziato con noi una storia d’amore e vuole riassumere in essa l’intera creazione. L’antidoto al male che minaccia noi e il mondo intero ultimamente non può che consistere nel fatto che ci abbandoniamo a questo amore. Questo è il vero antidoto al male
La forza del male nasce dal nostro rifiuto dell’amore a Dio. È redento chi si affida all’amore di Dio. Il nostro non essere redenti poggia sull’incapacità di amare Dio. Imparare ad amare Dio è dunque la strada per la redenzione degli uo­mini.
Se ora proviamo a svolgere un po’ più ampiamente questo contenuto es­senziale della Rivelazione di Dio, potremmo dire: il primo fondamentale dono che la fede ci offre consiste nella certezza che Dio esiste. 
Un mon­do senza Dio non può essere altro che un mondo senza senso. Infatti, da dove proviene tutto quello che è? In ogni caso sarebbe privo di un fondamento spirituale. In qualche modo ci sarebbe e basta, e sarebbe privo di qualsiasi fine e di qualsiasi senso. Non vi sarebbero più criteri del bene e del male. Dunque avrebbe valore unicamente ciò che è più forte. Il potere diviene allora l’unico principio. La verità non conta, anzi in realtà non esiste. Solo se le cose hanno un fondamento spirituale, so­ lo se sono volute e pensate – solo se c’è un Dio creatore che è buono e vuole il bene- anche la vita dell’uomo può avere un senso.
Che Dio ci sia come creatore e misura di tutte le cose, è innanzitutto un’esigenza originaria. Ma un Dio che non si manifestasse affatto, che non si facesse riconoscere, resterebbe un’ipotesi e perciò non potrebbe determinare la forma della nostra vita. Affinché Dio sia realmente Dio nella creazione consapevole, dobbiamo attenderci che egli si manifesti in una qualche forma. Egli lo ha fatto in molti modi, e in modo decisivo nella chiamata che fu rivolta ad Abramo e diede all’uomo quell’orientamento, nella ricerca di Dio, che supera ogni attesa: Dio di­ viene creatura egli stesso, parla a noi uomini come uomo.
Così finalmente la frase «Dio è» diviene davvero una lieta novella, pro­prio perché è più che conoscenza, perché genera amore ed è amore. Rendere gli uomini nuovamente consapevoli di questo, rappresenta il primo e fondamentale compito che il Signore ci assegna.
Una società nella quale Dio è assente -una società che non lo conosce più e lo tratta come se non esistesse- è una società che perde il suo cri­terio. Nel nostro tempo è stato coniato il motto della «morte di Dio». Quando in una società Dio muore, essa diviene libera, ci è stato assicurato. In verità, la morte di Dio in una società significa anche la fine della sua libertà, perché muore il senso che offre orientamento. E perché vie­ne meno il criterio che ci indica la direzione insegnandoci a distinguere il bene dal male. 
La società occidentale è una società nella quale Dio nella sfera pubblica è assente e per la quale non ha più nulla da dire. E per questo è una società nella quale si perde sempre più il criterio e la misura dell’umano. In alcuni punti, allora, a volte diviene improvvisa­mente percepibile che è divenuto addirittura ovvio quel che è male e che distrugge l’uomo. – il caso della pedofilia. Teorizzata ancora non tempo fa come del tutto giusta, essa si è diffusa sempre più. 
E ora, scossi e scandalizzati, riconosciamo che sui nostri bambini e giovani si commet­tono cose che rischiano di distruggerli. Che questo potesse diffondersi anche nella Chiesa e tra i sacerdoti deve scuoterci e scandalizzarci in misura particolare.
Come ha potuto la pedofilia raggiungere una dimensione del genere? In ultima analisi il motivo sta nell’assenza di Dio. 
Anche noi cristiani e sacerdoti preferiamo non parlare di Dio, perché è un discorso che non sembra avere utilità pratica
Dopo gli sconvolgimenti della Seconda guerra mondiale, in Germania avevamo adottato la nostra Costituzione dichiarandoci esplicitamente responsabili davanti a Dio come criterio guida. Mezzo secolo dopo non era più possibile, nella Costituzione euro­ pea, assumere la responsabilità di fronte a Dio come criterio di misura. Dio viene visto come affare di partito di un piccolo gruppo e non può più essere assunto come criterio di misura della comunità nel suo complesso. In quest a decisione si rispecchia la situazione dell’Occidente, nel quale Dio è divenuto fatto privato di una minoranza.
Il primo compito che deve scaturire dagli sconvolgimenti morali del no­stro tempo consiste nell’iniziare di nuovo noi stessi a vivere di Dio, rivol­ti a lui e in obbedienza a lui. Soprattutto dobbiamo noi stessi di nuovo imparare a riconoscere Dio come fondamento della nostra vita e non ac­cantonarlo come fosse una parola vuota qualsiasi. Mi resta impresso il monito che il grande teologo Hans Urs von Balthasar vergò una volta su uno dei suoi biglietti: dl Dio trino, Padre, Figlio e Spirito Santo: non presupporlo ma anteporlo!». In effetti, anche nella teologia, spesso Dio viene presupposto come fosse un’ovvietà, ma concretamente di lui non ci si occupa. Il tema “Dio” appare così irreale, così lontano dalle cose che ci occupano. E tuttavia cambia tutto se Dio non lo si presuppone, ma lo si antepone. Se non lo si lascia in qualche modo sullo sfondo ma lo si riconosce come centro del nostro pensare, parlare e agire.
2. Dio è divenuto uomo per noi. La creatura uomo gli sta talmente a cuore che egli si è unito a essa entrando concretamente nella storia. Parla con noi, vive con noi, soffre con noi e per noi ha preso su di sé la morte. Di questo certo parliamo diffusamente nella teologia con un linguaggio e con concetti dotti. Ma proprio così nasce il pericolo che ci facciamo si­gnori della fede, invece di lasciarci rinnovare e dominare dalla fede.
Consideriamo questo riflettendo su un punto centrale, la celebrazione della Santa Eucaristia. Il nostro rapporto con l’Eucaristia non può che destare preoccupazione. A ragione il Vaticano II intese mettere di nuovo al centro della vita cristiana e dell’esistenza della Chiesa questo sacra­ mento della presenza del corpo e del sangue di Cristo, della presenza della sua persona, della sua passione, morte e risurrezione. In parte questa cosa è realmente avvenuta e per questo vogliamo di cuore rin­ graziare il Signore.
Ma largamente dominante è un altro atteggiamento: non domina un nuovo profondo rispetto di fronte alla presenza della morte e risurrezio­ ne di Cristo, ma un modo di trattare con lui che distrugge la grandezza del mistero. La calante partecipazione alla celebrazione domenicale dell’Eucaristia mostra quanto poco noi cristiani di oggi siamo in grado di valutare la grandezza del dono che consiste nella Sua presenza reale. 
L’Eucaristia è declassata a gesto cerimoniale quando si considera ovvio che le buone maniere esigano che sia distribuita a tutti gli invitati a ra­ gione della loro appartenenza al parentado, in occasione di feste familia­ri o eventi come matrimoni e funerali. L’ovvietà con la quale in alcuni luoghi i presenti, semplicemente perché tali, ricevono il Santissimo Sa­cramento mostra come nella Comunione si veda ormai solo un gesto cerimoniale. Se riflettiamo sul da farsi, è chiaro che non abbiamo bisogno di un’altra Chiesa inventata da noi. Quel che è necessario è invece il rinnovamento della fede nella realtà di Gesù Cristo donata a noi nel Sacramento.
Nei colloqui con le vittime della pedofilia sono divenuto consapevole con sempre maggiore forza di questa necessità. Una giovane ragazza che serviva all’altare come chierichetta mi ha raccontato che il vicario parrocchiale, che era suo superiore visto che lei era chierichetta, introduceva l’abuso sessuale che compiva su di lei con queste parole: «Questo è il mio corpo che è dato per te». È evidente che quella ragazza non può più ascoltare le parole della consacrazione senza provare terribilmente su di sé tutta la sofferenza dell’abuso subìto. Sì, dobbiamo urgentemen­te implorare il perdono del Signore e soprattutto supplicarlo e pregarlo di insegnare a noi tutti a comprendere nuovamente la grandezza della sua passione, del suo sacrificio. E dobbiamo fare di tutto per proteggere dall’abuso il dono della Santa Eucaristia.
3. Ed ecco infine il mistero della Chiesa. Restano impresse nella memoria le parole con cui ormai quasi cento anni fa Romano Guardini esprimeva la gioiosa speranza che allora si affermava in lui e in molti altri: «Un evento di incalcolabile portata è iniziato: La Chiesa si risveglia nelle anime». Con questo intendeva dire che la Chiesa non era più, come prima, semplicemente un apparato che ci si presenta dal di fuori, vissu­ta e percepita come una specie di ufficio, ma che iniziava ad essere sen­tita viva nei cuori stessi: non come qualcosa di esteriore ma che ci toc­cava dal di dentro. Circa mezzo secolo dopo, riflettendo di nuovo su quel processo e guardando a cosa era appena accaduto, fui tentato di capo­ volgere la frase: «La Chiesa muore nelle anime». 
In effetti oggi la Chiesa viene in gran parte vista solo come una specie di apparato politico. Di fatto, di essa si parla solo utilizzando categorie politiche e questo vale persino per dei vescovi che formulano la loro idea sulla Chiesa di domani in larga misura quasi esclusivamente in termini politici. La crisi cau­sata da molti casi di abuso ad opera di sacerdoti spinge a considerare la Chiesa addirittura come qualcosa di malriuscito che dobbiamo decisa­ mente prendere in mano noi stessi e formare in modo nuovo. Ma una Chiesa fatta da noi non può rappresentare alcuna speranza.
Gesù stesso ha paragonato la Chiesa a una rete da pesca nella quale stanno pesci buoni e cattivi, essendo Dio stesso colui che alla fine dovrà separare gli uni dagli altri. 
Accanto c’è la parabola della Chiesa come un campo sul quale cresce il buon grano che Dio stesso ha seminato, ma anche la zizzania che un “nemico” di nascosto ha seminato in mezzo al grano. In effetti, la zizzania nel campo di Dio, la Chiesa, salta all’occhio per la sua quantità e anche i pesci cattivi nella rete mostrano la loro forza. Ma il campo resta comunque campo di Dio e la rete rimane rete da pesca di Dio. E in tutti i tempi c’è e ci saranno non solo la zizzania e i pesci cattivi ma anche la semina di Dio e i pesci buoni. Annunciare in egual misura entrambe con forza non è falsa apologetica, ma un servizio necessario reso alla verità.
In quest’ambito è necessario rimandare a un importante testo della Apocalisse di San Giovanni. Qui il diavolo è chiamato accusatore che accusa i nostri fratelli dinanzi a Dio giorno e notte (Ap 12, 10). In questo modo l’Apocalisse riprende un pensiero che sta al centro del racconto che fa da cornice allibro di Giobbe (Gb 1 e 2, 10; 42, 7-16). Qui si narra che il diavolo tenta di screditare la rettitudine e l’integrità di Giobbe co­me puramente esteriori e superficiali. Si tratta proprio di quello di cui parla l’Apocalisse: il diavolo vuole dimostrare che non ci sono uomini giusti; che tutta la giustizia degli uomini è solo una rappresentazione esteriore. Che se la si potesse saggiare di più, ben presto l’apparenza della giustizia svanirebbe. Il racconto inizia con una disputa fra Dio e il diavolo in cui Dio indicava in Giobbe un vero giusto. Ora sarà dunque lui il banco di prova per stabilire chi ha ragione. «Togligli quanto possie­de – argomenta il diavolo – e vedrai che nulla resterà della sua devozio­ne». Dio gli permette questo tentativo dal quale Giobbe esce in modo po­sitivo. Ma il diavolo continua e dice: «Pelle per pelle; tutto quanto ha, l’uomo è pronto a darlo per la sua vita. Ma stendi un poco la mano e toccalo nell’osso e nella carne e vedrai come ti benedirà in faccia» (Gb 2, 4s). Così Dio concede al diavolo una seconda possibilità. Gli è permesso anche di stendere la mano su Giobbe. Unicamente gli è precluso ucci­derlo. Per i cristiani è chiaro che quel Giobbe che per tutta l’umanità esemplarmente sta di fronte a Dio è Gesù Cristo. Nell’Apocalisse, il dramma dell’uomo è rappresentato in tutta la sua ampiezza. Al Dio creatore si contrappone il diavolo che scredita l’intera creazione e l’intera umanità. Egli si rivolge non solo a Dio ma soprattutto agli uo­ mini dicendo: «Ma guardate cosa ha fatto questo Dio. Apparentemente una creazione buona. In realtà nel suo complesso è piena di miseria e di schifo». Il denigrare la creazione in realtà è un denigrare Dio. Il diavolo vuole dimostrare che Dio stesso non è buono e vuole allontanarci da lui.
L’attualità di quel che dice l’Apocalisse è lampante L’accusa contro Dio oggi si concentra soprattutto nello screditare la sua Chiesa nel suo complesso e così nell’allontanarci da essa. L’idea di una Chiesa migliore creata da noi stessi è in verità una proposta del diavolo con la quale vuole allontanarci dal Dio vivo, servendosi di una logica menzognera nella quale caschiamo sin troppo facilmente. No, anche oggi la Chiesa non consiste solo di pesci cattivi e di zizzania. La Chiesa di Dio c’è an­ che oggi, e proprio anche oggi essa è lo strumento con il quale Dio ci salva. È molto importante contrapporre alle menzogne e alle mezze verità del diavolo tutta la verità: sì, il peccato e il male nella Chiesa sono. Ma anche oggi c’è pure la Chiesa santa che è indistruttibile. Anche oggi ci sono molti uomini che umilmente credono, soffrono e amano e nei quali si mostra a noi il vero Dio, il Dio che ama. Anche oggi Dio ha i suoi testimoni («martyres») nel mondo. Dobbiamo solo essere vigili per vederli e ascoltarli.
Il termine martire è tratto dal diritto processuale. Nel processo contro il diavolo, Gesù Cristo è il primo e autentico testimone di Dio, il primo martire, al quale da allora innumerevoli ne sono seguiti. La Chiesa di oggi è come non mai una Chiesa di martiri e così testimone del Dio vivente. 
Se con cuore vigile ci guardiamo intorno e siamo in ascolto, ovunque, fra le persone semplici ma anche nelle alte gerarchie della Chiesa, possiamo trovare testimoni che con la loro vita e la loro soffe­renza si impegnano per Dio. È pigrizia del cuore non volere accorgersi di loro. Fra i compiti grandi e fondamentali del nostro annuncio c’è, nel limite delle nostre possibilità, il creare spazi di vita per la fede, e soprat­tutto il trovarli e il riconoscerli.
Vivo in una casa nella quale una piccola comunità di persone scopre di continuo, nella quotidianità, testimoni così del Dio vivo, indicandoli an­che a me con letizia. Vedere e trovare la Chiesa viva è un compito meraviglioso che rafforza noi stessi e che sempre di nuovo ci fa essere lieti della fede.
Alla fine delle mie riflessioni vorrei ringraziare Papa Francesco per tutto quello che fa per mostrarci di continuo la luce di Dio che anche oggi non è tramontata. Grazie, Santo Padre!