mercoledì 31 agosto 2016
Benedetto XVI a Sydney: la vita è una ricerca del vero, del bene e del bello (YouTube)
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Il 15 luglio 2008 iniziava la XXIII Giornata mondiale della gioventù a Sydney. Benedetto XVI raggiungeva la metropoli australiana via mare su un battello in compagnia di moltissimi giovani e veniva accolto da una folla oceanica di giovani.
Durante la Festa di accoglienza Benedetto XVI tenne un bellissimo discorso attualissimo per le tematiche affrontate.
Grazie come sempre a Gemma :-)
R.
FESTA DI ACCOGLIENZA DEI GIOVANI
DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Molo di Barangaroo di Sydney
Giovedì, 17 luglio 2008
Cari giovani,
quale gioia è potervi salutare qui a Barangaroo, sulle sponde della magnifica baia di Sydney, con il famoso ponte e l’Opera House. Molti di voi sono di questo Paese, dall’interno o dalle dinamiche comunità multiculturali delle città australiane. Altri di voi sono giunti dalle isole sparse dell’Oceania, altri ancora dall’Asia, dal Medio Oriente, dall’Africa e dalle Americhe. Un certo numero di voi, in verità, è arrivato da così lontano quanto me, dall’Europa! Qualunque sia il Paese da cui proveniamo, finalmente siamo qui, a Sydney! E insieme siamo presenti in questo nostro mondo come famiglia di Dio, quali discepoli di Cristo, confermati dal suo Spirito per essere testimoni del suo amore e della sua verità davanti a tutti.
Desidero anzitutto ringraziare gli Anziani degli Aborigeni che mi hanno dato il benvenuto prima che io salissi sul battello nella Rose Bay. Sono profondamente commosso di trovarmi nella vostra terra, sapendo delle sofferenze e delle ingiustizie che essa ha sopportato, ma cosciente anche del risanamento e della speranza ora in atto, di cui giustamente tutti i cittadini australiani possono essere fieri. Ai giovani indigeni – aborigeni e abitanti delle Isole dello Stretto di Torres – e Tokelauani esprimo il mio grazie per il toccante benvenuto. Attraverso di voi, invio cordiali saluti ai vostri popoli.
Signor Cardinale Pell e Mons. Arcivescovo Wilson: vi ringrazio per le vostre calde espressioni di benvenuto. So che i vostri sentimenti riecheggiano nel cuore dei giovani qui radunati questa sera, e perciò vi ringrazio tutti. Di fronte a me vedo un’immagine vibrante della Chiesa universale. La varietà di Nazioni e di culture dalle quali voi provenite dimostra che davvero la Buona Novella di Cristo è per tutti e per ciascuno; essa ha raggiunto i confini della terra. E tuttavia so anche che un buon numero fra voi è tuttora alla ricerca di una patria spirituale. Alcuni fra voi, assolutamente benvenuti tra noi, non sono cattolici o cristiani. Altri tra voi, forse, si muovono ai confini della vita della parrocchia e della Chiesa. A voi desidero offrire il mio incoraggiamento: avvicinatevi all’amorevole abbraccio di Cristo; riconoscete la Chiesa come vostra casa. Nessuno è obbligato a rimanere all’esterno, poiché dal giorno di Pentecoste la Chiesa è una e universale.
Questa sera desidero includere anche quanti non sono presenti fra di noi. Penso specialmente ai malati o ai disabili psichici, ai giovani in prigione, a quanti faticano ai margini delle nostre società ed a coloro che per una qualche ragione si sentono alienati dalla Chiesa. A loro dico: Gesù ti è vicino! Sperimenta il suo abbraccio che guarisce, la sua compassione, la sua misericordia!
Quasi duemila anni orsono gli Apostoli, radunati nella sala superiore della casa insieme con Maria (cfr At 1,14) e con alcune donne fedeli, furono riempiti di Spirito Santo (cfr At 2,4). In quello straordinario momento, che segnò la nascita della Chiesa, la confusione e la paura che avevano afferrato i discepoli di Cristo si trasformarono in una vigorosa convinzione e in consapevolezza di uno scopo. Si sentirono spinti a parlare del loro incontro con Gesù risorto, che oramai chiamavano affettuosamente il Signore. In molti modi gli Apostoli erano persone ordinarie. Nessuno poteva affermare di essere il discepolo perfetto. Avevano mancato di riconoscere Cristo (cfr Lc 24,13-32), avevano dovuto vergognarsi della loro ambizione (cfr Lc 22,24-27), lo avevano anche rinnegato (cfr Lc 22,54-62). E tuttavia, quando furono ripieni di Spirito Santo, furono trafitti dalla verità del Vangelo di Cristo e ispirati a proclamarlo senza timore. Rinfrancati, gridarono: pentitevi, fatevi battezzare, ricevete lo Spirito Santo (cfr At 2,37-38)! Fondata sull’insegnamento degli Apostoli, sull’adesione a loro, sullo spezzare il pane e sulla preghiera (cfr At 2,42), la giovane comunità cristiana si fece avanti per opporsi alla perversità della cultura che la circondava (cfr At 2,40), per prendersi cura dei propri membri (cfr At 2,44-47), per difendere la propria fede in Gesù di fronte alle ostilità (cfr At 4,33) e per guarire i malati (cfr At 5,12-16). E in adempimento del comando di Cristo stesso, partirono, testimoniando la storia più grande di tutti i tempi: quella che Dio si è fatto uno di noi, che il divino è entrato nella storia umana per poterla trasformare, e che siamo chiamati ad immergerci nell’amore salvifico di Cristo che trionfa sul male e sulla morte. Nel suo famoso discorso all’areopago, san Paolo introdusse il messaggio così: Dio dona ogni cosa, compresa la vita e il respiro, a ciascuno, così che tutte le Nazioni possano ricercare Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni. Infatti egli non è lontano da ciascuno di noi, poiché in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo (cfr At 17, 25-28).
Da quel momento, uomini e donne sono usciti fuori per raccontare la stessa vicenda, testimoniando l’amore e la verità di Cristo, e contribuendo alla missione della Chiesa. Oggi pensiamo a quei pionieri – sacerdoti, suore e frati - che giunsero a questi lidi e in altre parti del Pacifico, dall’Irlanda, dalla Francia, dalla Gran Bretagna e da altre parti d’Europa. La maggior parte di loro erano giovani, alcuni persino non ancora ventenni, e quando salutarono per sempre i genitori, i fratelli, le sorelle, gli amici, ben sapevano che sarebbe stato improbabile per loro ritornare a casa. Le loro vite furono una testimonianza cristiana priva di interessi egoistici. Divennero umili ma tenaci costruttori di così gran parte dell’eredità sociale e spirituale che ancora oggi reca bontà, compassione e scopo a queste Nazioni. E furono capaci di ispirare un’altra generazione. Viene alla mente immediatamente la fede che sostenne la beata Mary MacKillop nella sua decisa determinazione di educare specialmente i poveri, e il beato Peter To Rot nella sua ferma convinzione che la guida di una comunità deve sempre rifarsi al Vangelo. Pensate anche ai vostri nonni e ai vostri genitori, i vostri primi maestri nella fede. Anch’essi hanno fatto innumerevoli sacrifici di tempo e di energia, mossi dall’amore per voi. Con il sostegno dei sacerdoti e degli insegnanti della vostra parrocchia, essi hanno il compito, non sempre facile ma altamente gratificante, di guidarvi verso tutto ciò che è buono e vero, mediante il loro esempio personale, il loro modo di insegnare e di vivere la fede cristiana.
Oggi è il mio turno. Ad alcuni di noi può sembrare di essere giunti alla fine del mondo! Per le persone della vostra età, comunque, ogni volo è una prospettiva eccitante. Ma per me, questo volo è stato in qualche misura causa di apprensione. E tuttavia la vista del nostro pianeta dall’alto è stata davvero magnifica. Il luccichio del Mediterraneo, la magnificenza del deserto nordafricano, la lussureggiante foresta dell’Asia, la vastità dell’Oceano Pacifico, l’orizzonte sul quale il sole sorge e cala, il maestoso splendore della bellezza naturale dell’Australia, di cui ho potuto godere nei giorni scorsi; tutto ciò suscita un profondo senso di reverente timore. È come se uno catturasse rapide immagini della storia della creazione raccontata nella Genesi: la luce e le tenebre, il sole e la luna, le acque, la terra e le creature viventi. Tutto ciò è “buono” agli occhi di Dio (cfr Gn 1,1–2,4). Immersi in simile bellezza, come si potrebbe non far eco alle parole del Salmista nel lodare il Creatore: “Quanto è grande il tuo nome su tutta la terra” (Sal 8,2)?
Ma vi è di più, qualcosa di difficile percezione dall’alto dei cieli: uomini e donne creati niente di meno che ad immagine e somiglianza di Dio (cfr Gn 1,26). Al cuore della meraviglia della creazione ci siamo voi ed io, la famiglia umana “coronata di gloria e di onore” (cfr Sal 8,6). Quale meraviglia! Con il Salmista sussurriamo: “Che cosa è l’uomo perché te ne curi?” (cfr Sal 8,5). Introdotti nel silenzio, in uno spirito di gratitudine, nella potenza della santità, noi riflettiamo.
Che cosa scopriamo? Forse con riluttanza giungiamo ad ammettere che vi sono anche delle ferite che segnano la superficie della terra: l’erosione, la deforestazione, lo sperpero delle risorse minerali e marine per alimentare un insaziabile consumismo. Alcuni di voi giungono da isole-Stato, la cui esistenza stessa è minacciata dall’aumento dei livelli delle acque; altri da Nazioni che soffrono gli effetti di siccità devastanti. La meravigliosa creazione di Dio viene talvolta sperimentata come una realtà quasi ostile per i suoi custodi, persino come qualcosa di pericoloso. Come può ciò che è “buono” apparire così minaccioso?
E c’è di più. Che dire dell’uomo, del vertice della creazione di Dio? Ogni giorno incontriamo il genio delle conquiste umane. Dai progressi nelle scienze mediche e dalla sapiente applicazione della tecnologia fino alla creatività riflessa nelle arti, in molti modi cresce costantemente la qualità e la soddisfazione della vita della gente. Anche tra voi vi è una pronta disponibilità ad accogliere le abbondanti opportunità che vi vengono offerte. Alcuni di voi eccellono negli studi, nello sport, nella musica, o nella danza e nel teatro, altri tra voi hanno un acuto senso della giustizia sociale e dell’etica e molti di voi si assumono impegni di servizio e di volontariato. Tutti noi, giovani e vecchi, abbiamo momenti nei quali la bontà innata della persona umana - percepibile forse nel gesto di un piccolo bambino o nella disponibilità di un adulto a perdonare - ci riempie di profonda gioia e gratitudine.
E tuttavia tali momenti non durano a lungo. Perciò, ancora, riflettiamo. E scopriamo che non soltanto l’ambiente naturale, ma anche quello sociale - l’habitat che ci creiamo noi stessi - ha le sue cicatrici; ferite che stanno ad indicare che qualcosa non è a posto. Anche qui nelle nostre vite personali e nelle nostre comunità possiamo incontrare ostilità a volte pericolose; un veleno che minaccia di corrodere ciò che è buono, riplasmare ciò che siamo e distorcere lo scopo per il quale siamo stati creati. Gli esempi abbondano, come voi ben sapete. Fra i più in evidenza vi sono l’abuso di alcool e di droghe, l’esaltazione della violenza e il degrado sessuale, presentati spesso dalla televisione e da internet come divertimento. Mi domando come potrebbe uno che fosse posto faccia a faccia con persone che soffrono realmente violenza e sfruttamento sessuale spiegare che queste tragedie, riprodotte in forma virtuale, sono da considerare semplicemente come “divertimento”.
Vi è anche qualcosa di sinistro che sgorga dal fatto che libertà e tolleranza sono così spesso separate dalla verità. Questo è alimentato dall’idea, oggi ampiamente diffusa, che non vi sia una verità assoluta a guidare le nostre vite. Il relativismo, dando valore in pratica indiscriminatamente a tutto, ha reso l’“esperienza” importante più di tutto. In realtà, le esperienze, staccate da ogni considerazione di ciò che è buono o vero, possono condurre non ad una genuina libertà, bensì ad una confusione morale o intellettuale, ad un indebolimento dei principi, alla perdita dell’autostima e persino alla disperazione.
Cari amici, la vita non è governata dalla sorte, non è casuale. La vostra personale esistenza è stata voluta da Dio, benedetta da lui e ad essa è stato dato uno scopo (cfr Gn 1,28)! La vita non è un semplice succedersi di fatti e di esperienze, per quanto utili molti di tali eventi possano essere. È una ricerca del vero, del bene e del bello. Proprio per tale fine compiamo le nostre scelte, esercitiamo la nostra libertà e in questo, cioè nella verità, nel bene e nel bello, troviamo felicità e gioia. Non lasciatevi ingannare da quanti vedono in voi semplicemente dei consumatori in un mercato di possibilità indifferenziate, dove la scelta in se stessa diviene il bene, la novità si contrabbanda come bellezza, l’esperienza soggettiva soppianta la verità.
Cristo offre di più! Anzi, offre tutto! Solo lui, che è la Verità, può essere la Via e pertanto anche la Vita. Così la “via” che gli Apostoli recarono sino ai confini della terra è la vita in Cristo. È la vita della Chiesa. E l’ingresso in questa vita, nella via cristiana, è il Battesimo.
Questa sera desidero pertanto ricordare brevemente qualcosa della nostra comprensione del Battesimo, prima di considerare domani lo Spirito Santo. Nel giorno del Battesimo Dio vi ha introdotto nella sua santità (cfr 2 Pt 1,4). Siete stati adottati quali figli e figlie del Padre e siete stati incorporati in Cristo. Siete divenuti abitazione del suo Spirito (cfr 1 Cor 6,19). Perciò, verso la fine del rito del Battesimo, il sacerdote si è rivolto ai vostri genitori e ai partecipanti, e chiamandovi per nome ha detto: “Sei diventato nuova creatura” (Rito del Battesimo, 99).
Cari amici, a casa, a scuola, all’università, nei luoghi di lavoro e di svago, ricordatevi che siete creature nuove. Come cristiani, voi siete in questo mondo sapendo che Dio ha un volto umano – Gesù Cristo – la “via” che soddisfa ogni anelito umano, e la “vita” della quale siamo chiamati a dare testimonianza, camminando sempre nella sua luce (cfr ibid., 100). Il compito di testimone non è facile. Vi sono molti, oggi, i quali pretendono che Dio debba essere lasciato “in panchina” e che la religione e la fede, per quanto accettabili sul piano individuale, debbano essere o escluse dalla vita pubblica o utilizzate solo per perseguire limitati scopi pragmatici. Questa visione secolarizzata tenta di spiegare la vita umana e di plasmare la società con pochi riferimenti o con nessun riferimento al Creatore. Si presenta come una forza neutrale, imparziale e rispettosa di ciascuno. In realtà, come ogni ideologia, il secolarismo impone una visione globale. Se Dio è irrilevante nella vita pubblica, allora la società potrà essere plasmata secondo un’immagine priva di Dio. Ma quando Dio viene eclissato, la nostra capacità di riconoscere l’ordine naturale, lo scopo e il “bene” comincia a svanire. Ciò che ostentatamente è stato promosso come umana ingegnosità si è ben presto manifestato come follia, avidità e sfruttamento egoistico. E così ci siamo resi sempre più conto del bisogno di umiltà di fronte alla delicata complessità del mondo di Dio.
E che dire del nostro ambiente sociale? Siamo ugualmente vigili quanto ai segni del nostro volgere le spalle alla struttura morale di cui Dio ha dotato l’umanità (cfr Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2007, 8)? Sappiamo riconoscere che l’innata dignità di ogni individuo poggia sulla sua più profonda identità, quale immagine del Creatore, e che perciò i diritti umani sono universali, basati sulla legge naturale, e non qualcosa dipendente da negoziati o da condiscendenza, men che meno da compromesso? E così siamo condotti a riflettere su quale posto hanno nelle nostre società i poveri, i vecchi, gli immigranti, i privi di voce. Come può essere che la violenza domestica tormenti tante madri e bambini? Come può essere che lo spazio umano più mirabile e sacro, il grembo materno, sia diventato luogo di violenza indicibile?
Cari amici, la creazione di Dio è unica ed è buona. Le preoccupazioni per la non violenza, lo sviluppo sostenibile, la giustizia e la pace, la cura del nostro ambiente sono di vitale importanza per l’umanità. Tutto ciò non può però essere compreso a prescindere da una profonda riflessione sull’innata dignità di ogni vita umana dal concepimento fino alla morte naturale, una dignità che è conferita da Dio stesso e perciò inviolabile. Il nostro mondo si è stancato dell’avidità, dello sfruttamento e della divisione, del tedio di falsi idoli e di risposte parziali, e della pena di false promesse. Il nostro cuore e la nostra mente anelano ad una visione della vita dove regni l’amore, dove i doni siano condivisi, dove si edifichi l’unità, dove la libertà trovi il proprio significato nella verità, e dove l’identità sia trovata in una comunione rispettosa. Questa è opera dello Spirito Santo! Questa è la speranza offerta dal Vangelo di Gesù Cristo! È per rendere testimonianza a questa realtà che siete stati ricreati nel Battesimo e rafforzati mediante i doni dello Spirito nella Cresima. Sia questo il messaggio che voi portate da Sydney al mondo!
Mi rivolgo ora con affetto ai giovani di lingua italiana. Cari amici, anche questa volta avete risposto numerosi al mio invito, nonostante le difficoltà dovute alla distanza. Vi ringrazio, e voglio salutare anche i vostri coetanei che dall’Italia sono spiritualmente uniti a noi. Vi invito a vivere con grande impegno interiore queste giornate: aprite il cuore al dono dello Spirito Santo, per essere rafforzati nella fede e nella capacità di rendere testimonianza al Signore risorto. Arrivederci!
[Chers jeunes francophones, poussés par le désir d’approfondir votre foi, vous êtes venus des extrémités de la terre pour vivre à Sydney l’expérience unique et communautaire d’une rencontre privilégiée avec le Seigneur. C’est l’Esprit Saint qui vous a rassemblés ici. Puisse-t-Il vous permettre de expérimenter sa présence dans votre cœur et vous pousser à rendre témoignage avec ardeur de Jésus-Christ mort et ressuscité pour vous!
Liebe Freunde, die ihr mich in meiner Muttersprache versteht, von Herzen grüße ich euch alle. Erweist euch überall als freudige Zeugen der frohmachenden Botschaft Jesu! Sprecht mutig von eurem Glauben, auch wenn ihr zuweilen auf Widerspruch stößt und das Kreuz der Ablehnung erfährt. Der Herr, der für uns ein größeres Kreuz getragen hat, wird euch beistehen. Gott schenke euch eine gute, gesegnete Zeit hier in Australien.
Queridos jóvenes de lengua española, la misión de ser testigos del Señor en todos los lugares de la tierra es una apasionante tarea, que exige acoger su Palabra e identificarse con Él, compartiendo con los demás la alegría de haber encontrado al verdadero amigo que nunca defrauda. Que este reto agrande vuestra generosidad. Un saludo muy cordial a todos.
Queridos amigos dos vários países de língua oficial portuguesa, bem-vindos a Sidney! A todos saúdo com afecto: os de perto e os de longe. Lá, na vossa Pátria, tereis ouvido Jesus segredar-vos: «Sereis minhas testemunhas… até aos confins do mundo» (Act 1, 8). A viagem mais ou menos longa que enfrentastes para chegar até aqui, à Austrália ou – de seu nome cristão completo – «Terra Austral do Espírito Santo», não deixou em vós a sensação de terdes chegado aos confins do mundo? Pois bem! É com grande alegria que o Papa vos acolhe para vos confirmar como testemunhas de Jesus, por Ele acreditadas com o dom do seu próprio Espírito.]
© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana
lunedì 29 agosto 2016
Prof. Joseph Ratzinger: Non fa parte della rivelazione cristiana solo la parola di Dio, ma anche il silenzio di Dio (Da Introduzione al Cristianesimo)
Grazie al grande lavoro della nostra Gemma, possiamo leggere questo brano che definire straordinario e' un eufemismo.
In un momento in cui molti parlano del silenzio di Dio (alcuni a proposito, altri decisamente a sproposito...) è bello rileggere parole così belle e alte.
Il brano è tratto da "Introduzione al Cristianesimo" scritto dall'allora Professor Ratzinger nel 1968.
Particolarmente significativo e' il passaggio sul "silenzio di Dio", straordinariamente importante in questi giorni di dolore e di speranza.
Grazie ancora a Gemma :-)
Raffaella
Introduzione al cristianesimo
parte seconda - Gesù Cristo
2. Lo sviluppo della professione di fede in Cristo negli articoli di fede cristologica
3. << Discese agli inferi >>
Forse nessun articolo di fede suona così estraneo alla nostra coscienza odierna come questo. Assieme alla confessione della nascita di Gesù dalla vergine Maria e dell'Ascensione del Signore al cielo, esso è un forte stimolo alla "demitizzazione", che qui sembra possibile senza alcun pericolo e senza scandali. I pochi passi nei quali la Scrittura sembra dire qualcosa sull'argomento (1 Pt 3,19s; 4,6; Ef 4,9; Rm 10,7; Mt 12,40; At 2,27,31) sono di così difficile comprensione da poter essere facilmente interpretati nelle direzioni più diverse. Sicchè, se alla fine si elimina del tutto l'affermazione, sembra di aver ottenuto il vantaggio di liberarsi di una questione strana e diffcilmente inquadrabile nel nostro pensiero, pur senza rendersi colpevoli di una particolare infedeltà. Ma così facendo, si è davvero guadagnato qualcosa? O non si è piuttosto soltanto evitato di affrontare un aspetto difficile e oscuro del reale? Si può cercare di sfuggire ai problemi semplicemente negandoli, oppure si può cercare di risolverli prendendoli di petto.
La prima via è certo più comoda, ma soltanto la seconda fa progredire.
Invece di accantonare il problema, non dovremmo dunque imparare piuttosto a vedere come questo articolo di fede, al quale nel corso dell'anno liturgico è liturgicamente correlato il Sabato santo, ci interessi oggi più che mai da vicino, in quanto esprime in modo del tutto speciale l'esperienza del nostro tempo?
Al Venerdi santo, il nostro sguardo rimane sempre puntato sul Crocifisso; il Sabato santo, invece, è il giorno della "morte di Dio", il giorno che esprime e anticipa l'ineaudita esperienza del nostro tempo: la sensazione che Dio è semplicemente assente, che la tomba lo ricopre, che egli non è più desto, non parla più, sicchè non c'è più nemmeno bisogno di contestarne l'esistenza, ma si può tranquillamente farne a meno. "Dio è morto, e noi l'abbiamo ucciso" . Questa lapidaria affermazione di Nietzsche appartiene, quanto a linguaggio, alla tradizione della pietà cristiana centrata sulla Passione ed esprime il senso del Sabato santo, la 'discesa agli inferi'.
In relazione a questo articolo mi vengono sempre alla mente due scene bibliche. Innanzitutto quel crudele episodio dell'Antico Testamento , in cui Elia incita i sacerdoti di Baal a impetrare dal loro Dio il fuoco per il sacrificio. Essi lo fanno, ma naturalmente non succede nulla. Allora egli lo schernisce, esattamente come un illuminista sbeffeggia la persona pia, trovandola ridicola quando non ottiene nulla con la sua preghiera. Il profeta li prende in giro, facendo loro osservare che forse non hanno pregato a voce abbastanza alta: "Gridate con voce più alta, perchè certo egli è un dio! Forse è soprappensiero oppure indaffarato e in viaggio; caso mai fosse addormentato, si sveglierà!" (1 Re 18,27). Rileggendo oggi questo scherno rivolto ai devoti di Baal , ci si può certamente sentire un pò sconcertati; si può avere la sensazione che ora noi stessi ci troviamo in una situazione del genere, e che quello scherno tocchi ora a noi. Nessun grido sembra più capace di risvegliare Dio. Il razionalista pare tranquillamente autorizzato a dirci: pregate più forte, forse allora il vostro Dio si sveglierà. "Discese nel regno dei morti": questa frase sembra proprio dire la verità della nostra ora, lo sprofondamento di Dio nel mutismo, nel cupo silenzio dell'assente.
Ma accanto alla storia di Elia e alla sua analogia neotestamentaria nel racconto del Signore che dorme durante l'infuriare della tempesta sul lago (Mc 4,35-41 par.), affiora qui alla memoria anche il racconto di Emmaus (lLc 24,13-35). I discepoli sconvolti parlano della morte della loro speranza. Per essi è accaduto quacosa che assomiglia alla morte di Dio: il punto in cui Dio sembrava avere defìnitivamente parlato è stato cancellato.
L'inviato di Dio è morto, e quindi si è fatto il vuoto assoluto. Nulla più risponde. Ma proprio mentre vanno parlando della morte della loro speranza, ormai incapaci di vedere Dio, essi non avvertono che proprio questa speranza è lì viva in mezzo a loro. Non avvertono che 'Dio', o piuttosto l'idea che si erano fatti della sua promessa, doveva morire per poi rivivere più grande di prima. L'immagine che si erano formata di Dio, e nella quale avevano tentato di comprimerlo, doveva essere distrutta perchè essi potessero, per così dire sulle rovine della casa demolita, rivedere il cielo e Quello stesso che resta sempre l'infinitamente più grande.
IL poeta Eichendorff ha formulato questo pensiero con ricchezza di sentimento, in un modo che a noi appare quasi ingenuo, ma è tipico del suo secolo:
Tu sei colui che distrugge con mite mano ciò che noi costruiamo sul nostro capo; e lo fai dolcemente, per farci rivedere il cielo.
Ecco perchè non me ne lamento.
Allo stesso modo, l'articolo di fede sulla discesa del Signore agli inferi ci rammenta come della rivelazione cristiana non faccia parte solo la parola di Dio, ma anche il silenzio di Dio.
Dio non è soltanto la parola comprensibile che viene a noi; è anche il fondamento nascosto e inaccessibile, incompreso e inafferrabile, che si sottrae a noi. Certo, nel cristianesimo c'è un primato del Logos, della Parola, sul silenzio. Dio ha parlato. Dio è parola. Ma non dobbiamo per questo dimenticare la verità del perenne nascondimento di Dio. Solo dopo averlo sperimentato come silenzio, possiamo sperare di percepire anche il suo parlare che risuona nel silenzio. La cristologia procede oltre la croce, il momento in cui si coglie l'amore divino, per entrare nella morte, nel silenzio e nell'occultamento di Dio. Possiamo allora meravigliarci se la chiesa, se la vita stessa del singolo, vengono continuamente introdotte in quest'ora del silenzio, nel dimenticato e accantonato articolo "Discese agli inferi"?
Se si pensa a questo, la questione delle prove dalla 'Scrittura' si risolve da sè. Per lo meno nel grido di Gesù al momento della sua morte: "Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?" (Mc 15,34), percepiamo il mistero della discesa di Gesù agli inferi come un lampo nell'oscurità della notte. Non dimentichiamo che questa invocazione del Crocifisso è la frase iniziale di una preghiera di Israele (Sal 22(21),2), nella quale si riassumono in maniera toccante l'afflizione e la speranza di questo popolo scelto da Dio e ora da lui abbandonato nel modo apparentemente più desolante. Tale preghiera, che sgorga dalla più profonda afflizione per la tenebra in cui Dio si è avvolto, termina con un inno alla grandezzadi Dio . Anche questo è presente nel grido di morte emesso da Gesù, grido che Ernst Kasermann ha concisamente connotato come una preghiera dall'inferno, come l'ergersi del primo Comandamento nel deserto dell'apparente assenza di Dio: "Il Figlio mantiene ancora salda la fede, anche adesso che la fede sembra divenuta un non -senso e la realtà terrena proclama che Dio è assente, il Dio di cui non per nulla parlano il primo ladrone e la folla schernitrice. Il suo grido non è rivolto alla vita e alla sopravvivenza, non a se stesso, bensì al Padre. Il suo grido si contrappone alla realtà del mondo intero". E allora, abbiamo ancora bisogno di chiederci che significato debba avere la preghiera nella nostra ora di tenebra? Può forse essere qualcosa di diverso dal grido dal profondo, assieme al Signore che è 'disceso agli inferi' e ha riaffermato la vicinanza di Dio proprio nel mezzo dell'abbandono da parte di Dio?
Tentiamo di fare anche un'altra riflessione, per penetrare in questo poliedrico mistero che da un lato solo non è possibile chiarire. Prendiamo innanzitutto atto di una constatazione esegetica. Ci si dice che, nel nostro articolo di fede, la parola 'inferi' ('inferno') sarebbe solo un'errata traduzione di She' ol (in greco Hades), con cui gli ebrei designavano lo stato oltre la morte, che veniva immaginato molto vagamente come una specie di esistenza umbratile, più un non-essere che un essere. Pertanto, la frase avrebbe originariamente significato solo che Gesù era entrato nello She' ol, ossia che era morto. Ora, ciò potrà anche essere assolutamente giusto. Ma resta pur sempre da vedere se la cosa si è così davvero semplificata, divenendo meno misteriosa di prima. Io ritengo, invece, che proprio ora il problema presenti il suo vero volto: la morte e ciò che accade qunado uno muore, ossia quando entra nel regno della morte. Di fronte a questo problema dobbiamo tutti confessare il nostro imbarazzo. Nessuno sa realmente che cosa succeda, perchè tutti viviamo al di qua della morte, non abbiamo alcuna esperienza della morte. Possiamo, però, forse tentare di avvicinarci proprio partendo ancora una volta dal grido di Gesù sulla croce, in cui abbiamo colto il nucleo centrale di ciò che significa la discesa di Gesù agli inferi, la sua partecipazione al destino di morte degli uomini.. In quest'ultima preghiera di Gesù, come del resto anche nella scelta dell'Orto degli ulivi, il nucleo più profondo della sua passione non sembra essere qualche dolore fisico, bensì la radicale solitudine, il completo abbandono. Ora qui viene alla luce, in definitiva, semplicemente l'abissale solitudine dell'uomo: dell'uomo che nel suo intimo è solo. Questa solitudine, che viene si per lo più camuffata in svariati modi, ma che rimane la vera situazione dell'uomo, denota al contempo la più stridente contraddizione con la natura dell'uomo, che non può vivere da solo, ma ha bisogno di essere con gli altri. La solitudine è perciò la regione dell'angoscia, radicata nella condizione di essere abbandonato in cui l'essere si trova, che deve essere e tuttavia è costretto ad affrontare l'impossibile.
Cerchiamo di spiegarci meglio con un esempio. Quando un bambino si trova obbligato ad attraversare un bosco da solo, in una notte oscura, è preso dal terrore, anche se gli è stato dimostrato nella maniera più convincente che non c'è assolutamente nulla di cui debba temere. Nel momento in cui si trova solo nelle tenebre, e sperimenta così radicalmente il senso della solitudine, insorge in lui la paura, l'autentica paura dell'uomo, che non è paura di fronte a qualcosa, bensì paura e basta. La paura di fronte a qualcosa di determinato è in fondo innocua: può essere scacciata togliendo di mezzo l'oggetto che la provoca. Tanto per fare un esempio, quando uno ha paura di un cane che morde, si fa presto a rimediare legando il cane alla catena. Nel caso nostro, invece, ci imbattiamo in qualcosa di ben più profondo: l'uomo, allorchè finisce nell'estrema solitudine, non trema di fronte a qualcosa di determinato, che può esere eliminato; prova invece il terrore della solitudine, avverte l'aspetto inquietante e il senso di essere abbandonato propri della sua stessa condizione, non superabili per via razionale. Aggiungiamo ancora: quando uno deve vegliare un morto da solo e di notte in una stanza, avvertirà pur sempre la sua situazione con una certa inquietudine, anche se non vuole ammetterlo ed è in grado di convincersi razionalmente che le sue sensazioni sono prive di oggetto. Di per sè, egli sa benissimo che il morto non può fargli assolutamente nulla e che la sua situazione sarebbe probabilmente assai più pericolosa se la persona che veglia fosse ancora viva.
Ciò che qui affiora è un tipo completamente diverso di paura: non è la paura di fronte a qualcosa, bensì la sinistra angoscia della solitudine in sè, nell'essere solo con la morte, l'essere-abbondanato dell'esistenza.
Dobbiamo ora chiederci: com'è possibile vincere tale paura, se la prova dell'inconsistenza del pericolo fallisce? Ebbene, il bambino sarà libero dalla sua paura nel momento in cui troverà una mano che stringa la sua e lo guidi, quando sentirà una voce che gli parli; nel momento, quindi, in cui sperimenterà la compagnia di una persona che gli vuole bene. E anche colui che si trova solo col morto, sentirà sparire la paura non appena un'altra persona sia con lui, non appena avverta la vicinanza di un 'tu'. In questo superamento della paura si rivela allo stesso tempo, di nuovo, la sua natura: come essa sia il terrore della solitudine, l'angoscia di un essere che può vivere solo insieme con altri. La vera paura dell'uomo può essere superata non con l'intelletto, bensì soltanto grazie alla presenza di una persona che gli voglia bene.
Dobbiamo approfondire ulteriormente il nostro interrogativo. Se ci fosse una solitudine in cui nessuna parola di un altro potesse più penetrare a cambiare la situazione, se si verificasse un abbandono talmente profondo da non permettere più ad alcun 'tu' di raggiungere chi è abbandonato, avremmo allora uno stato di vera e totale solitudine , quello stato spaventoso che il teologo chiama 'inferno' . Che cosa significhi questa parola, lo possiamo esattamente definire a partire da quanto abbiamo detto: essa denota una solitudine in cui non penetra più la parola dell'amore e che costituisce quindi l'autentica situazione di esistenza abbandonata. A questo proposito, a chi non viene in mente come poeti e filosofi del nostro tempo esprimono l'opinione che, in fondo, tutti gli incontri fra uomini si arrestano alla superficie, sicchè nessun uomo ha accesso alla vera profondità dell'altro? Nessuno, quindi, può realmente raggiungere l'intimo dell'altro; ogni incontro, per bello che sembri, si limita in sostanza ad anestetizzare l'insanabile ferita della solitudine. Nel più profondo della nostra esistenza, perciò, abiterebbe l'inferno, la disperazione: la solitudine, insomma, che è tanto ineluttabile quanto raccapricciante. E' noto come Sartre abbia costruito su quest'idea tutta la sua antropologia. Ma anche un poeta, in apparenza così conciliante e sereno come Hermann Hesse lascia trapelare, in fondo, gli stessi pensieri:
E' strano camminare nella nebbia!
Vivere vuol dire essere soli.
Nessun uomo conosce l'altro:ognuno è solo!
In effetti, una cosa è certa: c'è una notte nel cui abbandono non scende alcuna voce; c'è una porta per la quale possiamo passare esclusivamente da soli: la porta della morte. Ogni paura del mondo è, in definitiva, paura di questa solitudine. Si capisce allora perchè l'Antico Testamento abbia una sola parola per indicare sia gli inferi sia la morte: la parola She' ol. In fondo, per esso le due situazioni sono identiche. La morte è la solitudine, semplicemente. Ma quella solitudine in cui nemmeno l'amore riesce più a penetrare, quella è davvero l''inferno'.
Siamo così tornati nuovamente al punto di partenza, all'articolo di fede che afferma la discesa di Gesù agli inferi. Questa frase ci conferma quindi che Cristo ha varcato la soglia della nostra ultima solitudine, calandosi con la sua passione in questo abisso del nostro estremo abbandono. Là dove nessuna voce è più in grado di raggiungerci, lì egli è presente.
Con ciò l'inferno è vinto, o - per essere più esatti - la morte, che prima era l''inferno', ora non lo è più. Nessuna delle due realtà è più la stessa di prima, perchè al centro della morte c'è la vita, perchè l'amore abita ora al centro di essa. Soltanto la chiusura in se stessi, voluta di proposito, è ora l''inferno', o- per dirla con la Bibbia - la seconda morte (per esempio, Ap 20,14). Il morire, invece, non è più la via che porta alla solitudine glaciale, le porte dello She' ol sono state sfondate. Io credo che a partire da qui si possono comprendere le immagini dei Padri, a prima vista di sapore così mitologico, che ci parlano di Gesù che ha fatto uscire i morti, di apertura delle porte; e diventa comprensibile anche quel testo, apparentemente così mitico, del vangelo di Matteo, dove si afferma che alla morte di Gesù si sono aperti i sepolcri e sono risuscitati i corpi di molti santi (Mt 27, 52). La porta della morte resta aperta, da quando nella morte abita la vita: l'amore...
Da Joseph Ratzinger, "Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico", Edizioni Queriniana 2005
Non c’è Europa senza Cristo. La profezia di Romano Guardini (Matzuzzi)
Clicca qui per leggere l'articolo segnalatoci da Arcangela e Laura.
domenica 28 agosto 2016
Benedetto XVI, un Pontificato segnato da polemiche crudeli, sterili e inutili (Raffaella)
Carissimi amici, ieri ho visto in tv i funerali delle vittime marchigiane del sisma che ha colpito l'Italia centrale. Non si può rimanere indifferenti rispetto a questo dolore, difficile da capire e impossibile da sopportare.
Mi sono venute in mente le visite di Benedetto XVI a Onna, L'Aquila (clicca qui) e nelle zone colpite dal sisma in Emilia Romagna (clicca qui).
Non posso dimenticare la vicinanza del Papa alle popolazioni colpite dai due sismi che colpirono l'Italia nel 2009 e nel 2012.
Non posso dimenticare i segni tangibili della vicinanza di Benedetto XVI all'Aquila (come l'invio di donazioni, dell'olio santo, dei calici e l'annuncio della visita a due giorni da sisma!) così come il grande gesto di inviare il segretario di stato a celebrare le esequie delle oltre trecento vittime e soprattutto la grande delicatezza di mandare il suo segretario personale, Mons. Georg Gänswein a visitare le tendopoli e, non dimentichiamolo, a leggere un messaggio personale del Santo Padre durante i funerali (clicca qui).
Mi ricordo degli abbracci e del grande conforto dati dal Papa durante le visite in Abruzzo e Emilia-Romagna.
Non posso dimenticare la veste bianca sporca di fango durante la visita a Onna, la commozione nell'incontrare i sopravvissuti, il dolore provato davanti alle macerie della "casa dello studente" e l'omaggio a Celestino V (triste, tristissimo, presagio...).
Non posso però nemmeno dimenticare le stupide e sterili polemiche che qualche "buontempone" si permise di fare a suo tempo. Ci fu addirittura chi disse che il Papa avrebbe dovuto immediatamente recarsi all'Aquila (certamente incurante dell'intralcio che una visita del genere avrebbe causato in un momento così delicato in cui tutti erano impegnati a cercare sopravvissuti fra le macerie o a recuperare i corpi delle vittime).
Quante polemiche! Inutili! Sterili! Puerili!
In questi giorni non una voce si è levata nella direzione degli stessi sciocchi rimproveri. Ah già...è cambiato tutto dal 2009!
E oggi nemmeno un appunto sul fatto che ai funerali di ieri non ci fosse nemmeno un rappresentante del Vaticano e non sia stato inviato nemmeno un messaggio. Non solo: non è nemmeno stata annunciata una visita (Papa Benedetto fece l'annuncio a quarantotto ore dal sisma).
Meglio così! Queste polemiche non fanno bene a nessuno.
I giornalisti avranno imparato dai loro errori? Ma va là!
Era il Papa, quel Papa, che dava fastidio. Qualunque cosa facesse non era mai sufficiente.
Ormai abbiamo capito che non c'entrano i presunti errori di comunicazione o le ingenuità (o altro) dei collaboratori di un Pontefice, anche perché negli ultimi mesi di errori di comunicazione ce ne sono stati a volontà e non è accaduto nulla.
Quando i media decidono di demolire qualcuno, lo fanno a prescindere da ciò che fa. Dall'altro lato quando decidono di glorificare qualcuno, lo fanno a prescindere da ciò che non fa.
Ma lasciamo perdere...continuaiamo a pregare per le care popolazioni colpite dal sisma come sicuramente sta facendo Papa Benedetto.
Di seguito la playlist con i cinque video dedicati alla visita di Benedetto XVI in Abruzzo.
R.
Mi sono venute in mente le visite di Benedetto XVI a Onna, L'Aquila (clicca qui) e nelle zone colpite dal sisma in Emilia Romagna (clicca qui).
Non posso dimenticare la vicinanza del Papa alle popolazioni colpite dai due sismi che colpirono l'Italia nel 2009 e nel 2012.
Non posso dimenticare i segni tangibili della vicinanza di Benedetto XVI all'Aquila (come l'invio di donazioni, dell'olio santo, dei calici e l'annuncio della visita a due giorni da sisma!) così come il grande gesto di inviare il segretario di stato a celebrare le esequie delle oltre trecento vittime e soprattutto la grande delicatezza di mandare il suo segretario personale, Mons. Georg Gänswein a visitare le tendopoli e, non dimentichiamolo, a leggere un messaggio personale del Santo Padre durante i funerali (clicca qui).
Mi ricordo degli abbracci e del grande conforto dati dal Papa durante le visite in Abruzzo e Emilia-Romagna.
Non posso dimenticare la veste bianca sporca di fango durante la visita a Onna, la commozione nell'incontrare i sopravvissuti, il dolore provato davanti alle macerie della "casa dello studente" e l'omaggio a Celestino V (triste, tristissimo, presagio...).
Non posso però nemmeno dimenticare le stupide e sterili polemiche che qualche "buontempone" si permise di fare a suo tempo. Ci fu addirittura chi disse che il Papa avrebbe dovuto immediatamente recarsi all'Aquila (certamente incurante dell'intralcio che una visita del genere avrebbe causato in un momento così delicato in cui tutti erano impegnati a cercare sopravvissuti fra le macerie o a recuperare i corpi delle vittime).
Quante polemiche! Inutili! Sterili! Puerili!
In questi giorni non una voce si è levata nella direzione degli stessi sciocchi rimproveri. Ah già...è cambiato tutto dal 2009!
E oggi nemmeno un appunto sul fatto che ai funerali di ieri non ci fosse nemmeno un rappresentante del Vaticano e non sia stato inviato nemmeno un messaggio. Non solo: non è nemmeno stata annunciata una visita (Papa Benedetto fece l'annuncio a quarantotto ore dal sisma).
Meglio così! Queste polemiche non fanno bene a nessuno.
I giornalisti avranno imparato dai loro errori? Ma va là!
Era il Papa, quel Papa, che dava fastidio. Qualunque cosa facesse non era mai sufficiente.
Ormai abbiamo capito che non c'entrano i presunti errori di comunicazione o le ingenuità (o altro) dei collaboratori di un Pontefice, anche perché negli ultimi mesi di errori di comunicazione ce ne sono stati a volontà e non è accaduto nulla.
Quando i media decidono di demolire qualcuno, lo fanno a prescindere da ciò che fa. Dall'altro lato quando decidono di glorificare qualcuno, lo fanno a prescindere da ciò che non fa.
Ma lasciamo perdere...continuaiamo a pregare per le care popolazioni colpite dal sisma come sicuramente sta facendo Papa Benedetto.
Di seguito la playlist con i cinque video dedicati alla visita di Benedetto XVI in Abruzzo.
R.
sabato 27 agosto 2016
Ratzinger-schülerkreis. L’Europa è diventata un’unione di diritti, ma mai di doveri (Aci Stampa)
Clicca qui per leggere il testo.
venerdì 26 agosto 2016
Benedetto XVI arriva a Sydney via mare accompagnato e accolto da una folla oceanica di giovani (YouTube)
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In mezzo al grande dolore di questi giorni penso sia bello vedere queste belle immagini...
Il 15 luglio 2008 iniziava la XXIII Giornata mondiale della gioventù a Sydney. Benedetto XVI raggiungeva la metropoli australiana via mare su un battello in compagnia di moltissimi giovani.
Vediamo l'arrivo di Papa Benedetto a Sydney accolto da una folla oceanica di ragazzi in festa.
Grazie a Gemma per il grande lavoro :-)
mercoledì 24 agosto 2016
Una preghiera per le vittime e i feriti del grave sisma che ha colpito l'Italia centrale
Carissimi amici, abbiamo di fronte le terribili immagini delle conseguenze del sisma che stanotte ha colpito vari paesi fra il Lazio, le Marche e l'Umbria.
Una preghiera speciale per i feriti e per le tante vittime.
Raffaella
Una preghiera speciale per i feriti e per le tante vittime.
Raffaella
martedì 23 agosto 2016
Gmg di Sydney (2008): Benedetto XVI attraversa il mare su un battello con i giovani (YouTube)
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Il 15 luglio 2008 iniziava la XXIII Giornata mondiale della gioventù a Sydney. Benedetto XVI raggiungeva la metropoli australiana via mare su un battello in compagnia di moltissimi giovani rappresentanti dei loro coetanei, giunti in Australia per partecipare alla Gmg.
Vediamo insieme l'omaggio degli Aborigeni al Papa e la traversata. Grandissima era la felicità di Benedetto XVI e l'allegria dei giovani che lo accompagnavano. Sullo sfondo le straordinarie immagini della baia di Sydney, uno degli spettacoli più belli al mondo.
Grazie a Gemma per il grande lavoro :-)
R.
lunedì 22 agosto 2016
venerdì 19 agosto 2016
GMG Madrid, Benedetto XVI presiede l'Adorazione davanti a due milioni di giovani mentre imperversa il maltempo (YouTube)
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Il 20 agosto 2011, in occasione della GMG di Madrid, Benedetto XVI presiede la Veglia e l'Adorazione davanti a oltre due milioni di giovani che, incuranti del maltempo, si inginocchiano nel fango.
Da parte sua il Santo Padre, Benedetto XVI, nonostante le insistenze dei collaboratori, rifiuta di abbandonare la spianata restando con i giovani fino alla fine.
Un grandissimo esempio di fede e di comunione che difficilmente si è visto negli ultimi decenni.
Grazie a Gemma per il bellissimo regalo :-)
R.
lunedì 15 agosto 2016
Benedetto XVI: "Dio non abita in un mobile, Dio abita in una persona, in un cuore" (15 agosto 2011)
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Grazie al lavoro della nostra Gemma riascoltiamo l'omelia tenuta da Papa Benedetto nella Solennità dell'Assunzione di Maria nel 2011.
Come da tradizione dei Pontefici, interrotta solo recentemente, anche il 15 agosto 2011 Papa Benedetto XVI celebrò la Santa Messa dell'Assunzione di Maria nella Parrocchia di San Tommaso da Villanova, a Castel Gandolfo. Le omelie dell'Assunta sono vere perle del Pontificato di Joseph Ratzinger.
SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DELL’ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA
OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Parrocchia di San Tommaso da Villanova, Castel Gandolfo
Lunedì, 15 agosto 2011
Cari fratelli e sorelle,
ci ritroviamo riuniti, ancora una volta, a celebrare una delle più antiche e amate feste dedicate a Maria Santissima: la festa della sua assunzione alla gloria del Cielo in anima e corpo, cioè in tutto il suo essere umano, nell’integrità della sua persona. Ci è data così la grazia di rinnovare il nostro amore a Maria, di ammirarla e di lodarla per le “grandi cose” che l’Onnipotente ha fatto per Lei e che ha operato in Lei.
Nel contemplare la Vergine Maria ci è data un’altra grazia: quella di poter vedere in profondità anche la nostra vita. Sì, perché anche la nostra esistenza quotidiana, con i suoi problemi e le sue speranze, riceve luce dalla Madre di Dio, dal suo percorso spirituale, dal suo destino di gloria: un cammino e una meta che possono e devono diventare, in qualche modo, il nostro stesso cammino e la nostra stessa meta.
Ci lasciamo guidare dai brani della Sacra Scrittura che la liturgia oggi ci propone. Vorrei soffermarmi, in particolare, su un’immagine che troviamo nella prima lettura, tratta dall’Apocalisse, e alla quale fa eco il vangelo di Luca: cioè, quella dell’arca.
Nella prima lettura, abbiamo ascoltato: “Si aprì il tempio di Dio che è nel cielo e apparve nel tempio l’arca della sua alleanza” (Ap 11,19). Qual è il significato dell’arca? Che cosa appare? Per l’Antico Testamento, essa è il simbolo della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Ma ormai il simbolo ha ceduto il posto alla realtà. Così il Nuovo Testamento ci dice che la vera arca dell’alleanza è una persona viva e concreta: è la Vergine Maria.
Dio non abita in un mobile, Dio abita in una persona, in un cuore: Maria, Colei che ha portato nel suo grembo il Figlio eterno di Dio fatto uomo, Gesù nostro Signore e Salvatore.
Nell’arca – come sappiamo – erano conservate le due tavole della legge di Mosè, che manifestavano la volontà di Dio di mantenere l’alleanza con il suo popolo, indicandone le condizioni per essere fedeli al patto di Dio, per conformarsi alla volontà di Dio e così anche alla nostra verità profonda.
Maria è l’arca dell’alleanza, perché ha accolto in sé Gesù; ha accolto in sé la Parola vivente, tutto il contenuto della volontà di Dio, della verità di Dio; ha accolto in sé Colui che è la nuova ed eterna alleanza, culminata con l’offerta del suo corpo e del suo sangue: corpo e sangue ricevuti da Maria. A ragione, dunque, la pietà cristiana, nelle litanie in onore della Madonna, si rivolge a Lei invocandola come Foederis Arca, ossia “arca dell’alleanza”, arca della presenza di Dio, arca dell’alleanza d’amore che Dio ha voluto stringere in modo definitivo con tutta l’umanità in Cristo.
Il brano dell’Apocalisse vuole indicare un altro aspetto importante della realtà di Maria. Ella, arca vivente dell’alleanza, ha un destino di gloria straordinaria, perché è così strettamente unita al Figlio che ha accolto nella fede e generato nella carne, da condividerne pienamente la gloria del cielo. E’ quanto ci suggeriscono le parole ascoltate: “Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. Era incinta… Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni…” (12,1-2; 5). La grandezza di Maria, Madre di Dio, piena di grazia, pienamente docile all’azione dello Spirito Santo, vive già nel Cielo di Dio con tutta se stessa, anima e corpo. San Giovanni Damasceno riferendosi a questo mistero in una famosa Omelia afferma: “Oggi la santa e unica Vergine è condotta al tempio celeste … Oggi l’arca sacra e animata del Dio Vivente, [l’arca] che ha portato in grembo il proprio Artefice, si riposa nel tempio del Signore, non costruito da mano d’uomo” (Omelia II sulla Dormizione, 2, PG 96, 723) e continua: “Bisognava che colei che aveva ospitato nel suo grembo il Logos divino, si trasferisse nei tabernacoli del Figlio suo … Bisognava che la Sposa che il Padre si era scelta, abitasse nella stanza nuziale del Cielo” (ibid., 14, PG 96, 742). Oggi la Chiesa canta l’amore immenso di Dio per questa sua creatura: l’ha scelta come vera “arca dell’alleanza”, come Colei che continua a generare e a donare Cristo Salvatore all’umanità, come Colei che in cielo condivide la pienezza della gloria e gode della felicità stessa di Dio e, nello stesso tempo, invita anche noi a divenire, nel nostro modo modesto, “arca” nella quale è presente la Parola di Dio, che è trasformata e vivificata dalla sua presenza, luogo della presenza di Dio, affinché gli uomini possano incontrare nell’altro uomo la vicinanza di Dio e così vivere in comunione con Dio e conoscere la realtà del Cielo.
Il vangelo di Luca appena ascoltato (cfr Lc 1,39-56), ci mostra quest’arca vivente, che è Maria, in movimento: lasciata la sua casa di Nazaret, Maria si mette in viaggio verso la montagna per raggiungere in fretta una città di Giuda e recarsi nella casa di Zaccaria e di Elisabetta.
Mi sembra importante sottolineare l’espressione “in fretta”: le cose di Dio meritano fretta, anzi le uniche cose del mondo che meritano fretta sono proprio quelle di Dio, che hanno la vera urgenza per la nostra vita. Allora Maria entra in questa casa di Zaccaria e di Elisabetta, ma non entra sola. Vi entra portando in grembo il figlio, che è Dio stesso fatto uomo. Certamente c’era attesa di lei e del suo aiuto in quella casa, ma l’evangelista ci guida a comprendere che questa attesa rimanda ad un’altra, più profonda. Zaccaria, Elisabetta e il piccolo Giovanni Battista sono, infatti, il simbolo di tutti i giusti di Israele, il cui cuore, ricco di speranza, attende la venuta del Messia salvatore. Ed è lo Spirito Santo ad aprire gli occhi di Elisabetta e a farle riconoscere in Maria la vera arca dell’alleanza, la Madre di Dio, che viene a visitarla.
E così l’anziana parente l’accoglie dicendole “a gran voce”: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?” (Lc 1,42-43). Ed è lo stesso Spirito Santo che davanti a Colei che porta il Dio fattosi uomo, apre il cuore di Giovanni Battista nel grembo di Elisabetta. Elisabetta, esclama: “Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo” (v. 44). Qui l’evangelista Luca usa il termine “skirtan”, cioè “saltellare”, lo stesso termine che troviamo in una delle antiche traduzioni greche dell’Antico Testamento per descrivere la danza del Re Davide davanti all’arca santa che è tornata finalmente in patria (2Sam 6,16). Giovanni Battista nel grembo della madre danza davanti all’arca dell’Alleanza, come Davide; e riconosce così: Maria è la nuova arca dell’alleanza, davanti alla quale il cuore esulta di gioia, la Madre di Dio presente nel mondo, che non tiene per sé questa divina presenza, ma la offre condividendo la grazia di Dio. E così – come dice la preghiera – Maria realmente è “causa nostrae laetitiae”, l’”arca” nella quale realmente il Salvatore è presente tra di noi.
Cari fratelli! Stiamo parlando di Maria, ma, in un certo senso, stiamo parlando anche di noi, di ciascuno di noi: anche noi siamo destinatari di quell’amore immenso che Dio ha riservato - certo, in una maniera assolutamente unica e irripetibile - a Maria. In questa Solennità dell’Assunzione guardiamo a Maria: Ella ci apre alla speranza, ad un futuro pieno di gioia e ci insegna la via per raggiungerlo: accogliere nella fede, il suo Figlio; non perdere mai l’amicizia con Lui, ma lasciarci illuminare e guidare dalla sua parola; seguirlo ogni giorno, anche nei momenti in cui sentiamo che le nostre croci si fanno pesanti.
Maria, l’arca dell’alleanza che sta nel santuario del Cielo, ci indica con luminosa chiarezza che siamo in cammino verso la nostra vera Casa, la comunione di gioia e di pace con Dio. Amen!
© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana
Benedetto XVI attraversa la Piazza di Castel Gandolfo per andare a celebrare la Messa dell'Assunta, 15 agosto 2011 (YouTube)
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Buongiorno carissimi amici e buona Festa dell'Assunta :-)
Il 15 agosto 2011, come da tradizione interrotta solo recentemente, Benedetto XVI si recò a piedi presso la parrocchia di San Tommaso da Villanova a Castel Gandolfo attraversando la piazza della cittadina.
Emozionante e commovente l'incontro con i fedeli con Papa Benedetto che si sofferma ad abbracciare ed a stringere mani.
Vediamo anche l'ingresso nella chiesa dove celebrerà la Messa nella Solennità dell'Assunzione di Maria.
Grazie a Gemma per il suo lavoro :-)
R.
domenica 14 agosto 2016
Benedetto XVI, il polso rotto e l'Angelus a Romano Canavese (YouTube)
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Carissimi amici, buona domenica :-)
Grazie al lavoro della nostra Gemma rivediamo un bellissimo momento del Pontificato di Joseph Ratzinger.
Il 19 luglio 2009, convalescente per la rottura del polso destro, Benedetto XVI si recò comunque a Romano Canavese a recitare l'Angelus. Tutto da ascoltare l'intervento del Papa in gran parte "a braccio". Esso mostra tutta l'umanità e la simpatia del Santo Padre :-)
Raffaella
BENEDETTO XVI
ANGELUS
Romano Canavese (Piemonte)
Domenica, 19 luglio 2009
Cari fratelli e sorelle!
Sono venuto con grande gioia nella vostra bella città, nella vostra bella chiesa; è questa la città nativa del mio primo collaboratore, il Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, con il quale avevo già collaborato per anni nella Congregazione per la Dottrina della Fede. Come vedete, a causa del mio infortunio, sono un po’ limitato nella mia agilità, ma la presenza del cuore è piena, e sono con voi con grande gioia!
Vorrei in questo momento dire grazie con tutto il mio cuore a tutti: sono stati tanti che hanno mostrato, in questo frangente, la loro vicinanza, la loro simpatia, il loro affetto per me e hanno pregato per me, e così si è rafforzata la rete della preghiera che ci unisce in tutte le parti del mondo. Innanzitutto, vorrei dire grazie ai medici e al personale medico di Aosta che mi ha trattato con tanta diligenza, con tanta competenza ed amicizia e - vedete - con successo - speriamo! - finale. Vorrei dire grazie anche alle autorità di Stato, della Chiesa e a tutte le persone semplici che mi hanno scritto o mi hanno fatto vedere il loro affetto e la loro vicinanza.
Salutare vorrei poi soprattutto il vostro Vescovo e ugualmente il Vescovo emerito di questa Diocesi, Mons. Luigi Bettazzi. Saluto il Sindaco, che mi ha fatto un bellissimo dono, le Autorità civili e militari, saluto il Parroco e gli altri sacerdoti, i religiosi e le religiose, i responsabili delle associazioni e dei movimenti ecclesiali e l’intera cittadinanza, con un pensiero speciale per i bambini, i giovani, le famiglie, i malati, le persone bisognose. A tutti e ciascuno va il mio più vivo ringraziamento per l’accoglienza che mi avete riservato in questo breve soggiorno fra voi.
Questa mattina avete celebrato l’Eucaristia e il Cardinale Tarcisio Bertone vi ha già certamente illustrato la Parola di Dio, che la liturgia offre alla nostra meditazione in questa XVI domenica del Tempo Ordinario. Come il Signore invita i discepoli a ritirarsi in disparte per ascoltarlo nell’intimità, così anch’io vorrei intrattenermi con voi, ricordando che proprio l’ascolto e l’accoglienza del Vangelo hanno dato vita alla vostra comunità cittadina, il cui nome richiama i legami bimillenari del Canavese con Roma. La vostra La terra fu ben presto bagnata, come ha detto il vostro Vescovo, dal sangue dei martiri, tra i quali san Solutore - devo confessare che finora non conoscevo il suo nome, ma sono sempre grato di conoscere nuovi Santi intercessori! – conosco bene invece san Pietro, l’Apostolo che è il titolare della vostra chiesa. Testimonianza eloquente di una lunga storia di fede è la vostra imponente chiesa parrocchiale, che domina una larga parte della terra canavesana, la cui gente è ben nota per il suo amore e il suo attaccamento al lavoro. Attualmente, però, so che anche qui, nella zona di Ivrea, molte famiglie sperimentano una situazione di difficoltà economiche a causa della carenza di occupazioni lavorative. Su questo problema - come ha ricordato anche il Vescovo - sono intervenuto più volte ed ho voluto ora affrontarlo più approfonditamente nell’Enciclica Caritas in veritate. Spero che possa mobilitare le forze positive per rinnovare il mondo!
Cari amici, non scoraggiatevi! La Provvidenza aiuta sempre chi opera il bene e si impegna per la giustizia; aiuta quanti non pensano solo a sé, ma anche a chi sta peggio di loro. E voi lo sapete bene, perché i vostri nonni furono costretti ad emigrare per carenza di lavoro, ma poi lo sviluppo economico ha portato benessere e altri sono immigrati qui dall'Italia e dall’estero. I valori fondamentali della famiglia e del rispetto della vita umana, la sensibilità per la giustizia sociale, la capacità di affrontare la fatica e il sacrificio, il forte legame con la fede cristiana attraverso la vita parrocchiale e specialmente la partecipazione alla santa Messa, sono stati lungo i secoli la vostra vera forza. Saranno questi stessi valori a permettere alle generazioni di oggi di costruire con speranza il proprio futuro, dando vita a una società veramente solidale e fraterna, dove tutti i vari ambiti, le istituzioni e l’economia siano permeati di spirito evangelico. In modo speciale mi rivolgo ai giovani, ai quali occorre pensare in prospettiva educativa. Qui, come dappertutto, bisogna domandarsi, cari giovani, quale tipo di cultura vi viene proposta; quali esempi e modelli vi vengono raccomandati, e valutare se siano tali da incoraggiarvi a seguire le vie del Vangelo e della libertà autentica. La gioventù è piena di risorse, ma va aiutata a vincere la tentazione di vie facili e illusorie, per trovare la strada della vita vera e piena.
Cari fratelli e sorelle! In questa vostra terra, ricca di tradizioni cristiane e di valori umani, sono fiorite numerose vocazioni maschili e femminili, in particolare per la Famiglia Salesiana: come quella del Cardinale Bertone, che è nato proprio in questa vostra parrocchia, è stato battezzato in questa chiesa, ed è cresciuto in una famiglia dove ha assimilato una fede genuina. La vostra Diocesi deve molto ai figli e alle figlie di Don Bosco, per la loro presenza diffusa e feconda in tutta la zona fin dagli anni in cui era ancora in vita il Santo Fondatore. Sia questo un ulteriore incoraggiamento per la vostra comunità diocesana ad impegnarsi sempre più nel campo dell’educazione e dell’accompagnamento vocazionale. Invochiamo per questo la protezione di Maria, la Vergine Assunta Patrona della Diocesi, Aiuto dei cristiani, Madre amata e venerata in modo speciale nei numerosi santuari a Lei dedicati tra i monti del Gran Paradiso e la pianura del Po. La sua presenza materna indichi a tutti la via della speranza e ve li conduca come la stella che guidò i santi Magi. La Madonna della Stella vegli su voi tutti dal colle che domina Ivrea, il Monte Stella dedicato a Lei e ai Re Magi. Affidiamoci ora con fiducia filiale alla Madonna invocandola con la preghiera dell’Angelus.
© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana
giovedì 11 agosto 2016
Benedetto XVI: la testimonianza di Santa Chiara ci mostra quanto la Chiesa tutta sia debitrice a donne coraggiose e ricche di fede come lei, capaci di dare un decisivo impulso per il rinnovamento della Chiesa (YouTube)
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Cari amici, nel giorno che la Chiesa dedica a Santa Chiara, grazie a Gemma, rivediamo e riascoltiamo la catechesi che Benedetto XVI dedicò alla Santa di Assisi :-)
Il 15 settembre 2010 Benedetto XVI descrisse in maniera commossa e commovente la figura di Chiara con parole che lasciano il segno soprattutto nelle donne.
Rileggiamo il testo.
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 15 settembre 2010
Santa Chiara d'Assisi
Cari fratelli e sorelle,
una delle Sante più amate è senz’altro santa Chiara d’Assisi, vissuta nel XIII secolo, contemporanea di san Francesco. La sua testimonianza ci mostra quanto la Chiesa tutta sia debitrice a donne coraggiose e ricche di fede come lei, capaci di dare un decisivo impulso per il rinnovamento della Chiesa.
Chi era dunque Chiara d’Assisi? Per rispondere a questa domanda possediamo fonti sicure: non solo le antiche biografie, come quella di Tommaso da Celano, ma anche gli Atti del processo di canonizzazione promosso dal Papa solo pochi mesi dopo la morte di Chiara e che contiene le testimonianze di coloro che vissero accanto a lei per molto tempo.
Nata nel 1193, Chiara apparteneva ad una famiglia aristocratica e ricca. Rinunciò a nobiltà e a ricchezza per vivere umile e povera, adottando la forma di vita che Francesco d’Assisi proponeva. Anche se i suoi parenti, come accadeva allora, stavano progettando un matrimonio con qualche personaggio di rilievo, Chiara, a 18 anni, con un gesto audace ispirato dal profondo desiderio di seguire Cristo e dall’ammirazione per Francesco, lasciò la casa paterna e, in compagnia di una sua amica, Bona di Guelfuccio, raggiunse segretamente i frati minori presso la piccola chiesa della Porziuncola. Era la sera della Domenica delle Palme del 1211. Nella commozione generale, fu compiuto un gesto altamente simbolico: mentre i suoi compagni tenevano in mano torce accese, Francesco le tagliò i capelli e Chiara indossò un rozzo abito penitenziale. Da quel momento era diventata la vergine sposa di Cristo, umile e povero, e a Lui totalmente si consacrava. Come Chiara e le sue compagne, innumerevoli donne nel corso della storia sono state affascinate dall’amore per Cristo che, nella bellezza della sua Divina Persona, riempie il loro cuore. E la Chiesa tutta, per mezzo della mistica vocazione nuziale delle vergini consacrate, appare ciò che sarà per sempre: la Sposa bella e pura di Cristo.
In una delle quattro lettere che Chiara inviò a sant’Agnese di Praga, la figlia del re di Boemia, che volle seguirne le orme, parla di Cristo, suo diletto Sposo, con espressioni nunziali, che possono stupire, ma che commuovono: “Amandolo, siete casta, toccandolo, sarete più pura, lasciandovi possedere da lui siete vergine. La sua potenza è più forte, la sua generosità più elevata, il suo aspetto più bello, l’amore più soave e ogni grazia più fine. Ormai siete stretta nell’abbraccio di lui, che ha ornato il vostro petto di pietre preziose… e vi ha incoronata con una corona d’oro incisa con il segno della santità” (Lettera prima: FF, 2862).
Soprattutto al principio della sua esperienza religiosa, Chiara ebbe in Francesco d’Assisi non solo un maestro di cui seguire gli insegnamenti, ma anche un amico fraterno.
L’amicizia tra questi due santi costituisce un aspetto molto bello e importante. Infatti, quando due anime pure ed infiammate dallo stesso amore per Dio si incontrano, esse traggono dalla reciproca amicizia uno stimolo fortissimo per percorrere la via della perfezione. L’amicizia è uno dei sentimenti umani più nobili ed elevati che la Grazia divina purifica e trasfigura.
Come san Francesco e santa Chiara, anche altri santi hanno vissuto una profonda amicizia nel cammino verso la perfezione cristiana, come san Francesco di Sales e santa Giovanna Francesca di Chantal. Ed è proprio san Francesco di Sales che scrive: “È bello poter amare sulla terra come si ama in cielo, e imparare a volersi bene in questo mondo come faremo eternamente nell'altro. Non parlo qui del semplice amore di carità, perché quello dobbiamo averlo per tutti gli uomini; parlo dell'amicizia spirituale, nell'ambito della quale, due, tre o più persone si scambiano la devozione, gli affetti spirituali e diventano realmente un solo spirito” (Introduzione alla vita devota III, 19).
Dopo aver trascorso un periodo di qualche mese presso altre comunità monastiche, resistendo alle pressioni dei suoi familiari che inizialmente non approvarono la sua scelta, Chiara si stabilì con le prime compagne nella chiesa di san Damiano dove i frati minori avevano sistemato un piccolo convento per loro. In quel monastero visse per oltre quarant’anni fino alla morte, avvenuta nel 1253. Ci è pervenuta una descrizione di prima mano di come vivevano queste donne in quegli anni, agli inizi del movimento francescano. Si tratta della relazione ammirata di un vescovo fiammingo in visita in Italia, Giacomo di Vitry, il quale afferma di aver trovato un grande numero di uomini e donne, di qualunque ceto sociale che “lasciata ogni cosa per Cristo, fuggivano il mondo. Si chiamavano frati minori e sorelle minori e sono tenuti in grande considerazione dal signor papa e dai cardinali… Le donne … dimorano insieme in diversi ospizi non lontani dalle città. Nulla ricevono, ma vivono del lavoro delle proprie mani. E sono grandemente addolorate e turbate, perché vengono onorate più che non vorrebbero, da chierici e laici” (Lettera dell’ottobre 1216: FF, 2205.2207).
Giacomo di Vitry aveva colto con perspicacia un tratto caratteristico della spiritualità francescana cui Chiara fu molto sensibile: la radicalità della povertà associata alla fiducia totale nella Provvidenza divina. Per questo motivo, ella agì con grande determinazione, ottenendo dal Papa Gregorio IX o, probabilmente, già dal papa Innocenzo III, il cosiddetto Privilegium Paupertatis (cfr FF, 3279). In base ad esso, Chiara e le sue compagne di san Damiano non potevano possedere nessuna proprietà materiale. Si trattava di un’eccezione veramente straordinaria rispetto al diritto canonico vigente e le autorità ecclesiastiche di quel tempo lo concessero apprezzando i frutti di santità evangelica che riconoscevano nel modo di vivere di Chiara e delle sue sorelle. Ciò mostra come anche nei secoli del Medioevo, il ruolo delle donne non era secondario, ma considerevole. A questo proposito, giova ricordare che Chiara è stata la prima donna nella storia della Chiesa che abbia composto una Regola scritta, sottoposta all’approvazione del Papa, perché il carisma di Francesco d’Assisi fosse conservato in tutte le comunità femminili che si andavano stabilendo numerose già ai suoi tempi e che desideravano ispirarsi all’esempio di Francesco e di Chiara.
Nel convento di san Damiano Chiara praticò in modo eroico le virtù che dovrebbero contraddistinguere ogni cristiano: l’umiltà, lo spirito di pietà e di penitenza, la carità. Pur essendo la superiora, ella voleva servire in prima persona le suore malate, assoggettandosi anche a compiti umilissimi: la carità, infatti, supera ogni resistenza e chi ama compie ogni sacrificio con letizia. La sua fede nella presenza reale dell’Eucaristia era talmente grande che, per due volte, si verificò un fatto prodigioso.
Solo con l’ostensione del Santissimo Sacramento, allontanò i soldati mercenari saraceni, che erano sul punto di aggredire il convento di san Damiano e di devastare la città di Assisi.
Anche questi episodi, come altri miracoli, di cui si conservava la memoria, spinsero il Papa Alessandro IV a canonizzarla solo due anni dopo la morte, nel 1255, tracciandone un elogio nella Bolla di canonizzazione in cui leggiamo: “Quanto è vivida la potenza di questa luce e quanto forte è il chiarore di questa fonte luminosa. Invero, questa luce si teneva chiusa nel nascondimento della vita claustrale e fuori irradiava bagliori luminosi; si raccoglieva in un angusto monastero, e fuori si spandeva quanto è vasto il mondo. Si custodiva dentro e si diffondeva fuori. Chiara infatti si nascondeva; ma la sua vita era rivelata a tutti. Chiara taceva, ma la sua fama gridava” (FF, 3284). Ed è proprio così, cari amici: sono i santi coloro che cambiano il mondo in meglio, lo trasformano in modo duraturo, immettendo le energie che solo l’amore ispirato dal Vangelo può suscitare. I santi sono i grandi benefattori dell’umanità!
La spiritualità di santa Chiara, la sintesi della sua proposta di santità è raccolta nella quarta lettera a Sant’Agnese da Praga. Santa Chiara adopera un’immagine molto diffusa nel Medioevo, di ascendenze patristiche, lo specchio. Ed invita la sua amica di Praga a riflettersi in quello specchio di perfezione di ogni virtù che è il Signore stesso. Ella scrive: “Felice certamente colei a cui è dato godere di questo sacro connubio, per aderire con il profondo del cuore [a Cristo], a colui la cui bellezza ammirano incessantemente tutte le beate schiere dei cieli, il cui affetto appassiona, la cui contemplazione ristora, la cui benignità sazia, la cui soavità ricolma, il cui ricordo risplende soavemente, al cui profumo i morti torneranno in vita e la cui visione gloriosa renderà beati tutti i cittadini della celeste Gerusalemme. E poiché egli è splendore della gloria, candore della luce eterna e specchio senza macchia, guarda ogni giorno questo specchio, o regina sposa di Gesù Cristo, e in esso scruta continuamente il tuo volto, perché tu possa così adornarti tutta all’interno e all’esterno… In questo specchio rifulgono la beata povertà, la santa umiltà e l’ineffabile carità” (Lettera quarta: FF, 2901-2903).
Grati a Dio che ci dona i Santi che parlano al nostro cuore e ci offrono un esempio di vita cristiana da imitare, vorrei concludere con le stesse parole di benedizione che santa Chiara compose per le sue consorelle e che ancora oggi le Clarisse, che svolgono un prezioso ruolo nella Chiesa con la loro preghiera e con la loro opera, custodiscono con grande devozione. Sono espressioni in cui emerge tutta la tenerezza della sua maternità spirituale: “Vi benedico nella mia vita e dopo la mia morte, come posso e più di quanto posso, con tutte le benedizioni con le quali il Padre delle misericordie benedisse e benedirà in cielo e in terra i figli e le figlie, e con le quali un padre e una madre spirituale benedisse e benedirà i suoi figli e le sue figlie spirituali. Amen” (FF, 2856).
© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana
lunedì 8 agosto 2016
Venezia, quattro islamiche sputano sul crocifisso poi fuggono via. E il clero cattolico tace...
Clicca qui per leggere la notizia che ieri non ha avuto alcuna eco nei telegiornali e possiamo intuirne la ragione soprattutto leggendo l'ultima frase...
Che cosa ha intenzione di fare la chiesa?
Tace perchè anche i cattolici sono violenti?
Tace perchè il silenzio garantisce la prosecuzione all'infinito della pax mediatica iniziata nel marzo 2013?
Tace perché certi atteggiamenti derivano dalla povertà e dall'emarginazione (sì...vabbè!)?
Tace perché non sa che cosa dire? Per quieto vivere?
Sono tante le possibili ragioni per cui la chiesa tace ma una cosa è certa: tace!
Non è che di questi silenzi prima o poi occorrerà rendere conto?
R.
Che cosa ha intenzione di fare la chiesa?
Tace perchè anche i cattolici sono violenti?
Tace perchè il silenzio garantisce la prosecuzione all'infinito della pax mediatica iniziata nel marzo 2013?
Tace perché certi atteggiamenti derivano dalla povertà e dall'emarginazione (sì...vabbè!)?
Tace perché non sa che cosa dire? Per quieto vivere?
Sono tante le possibili ragioni per cui la chiesa tace ma una cosa è certa: tace!
Non è che di questi silenzi prima o poi occorrerà rendere conto?
R.
L'Occidente che demolisce le chiese e lo Spirito (Zambrano). Gli assordanti silenzi delle gerarchie (R.)
Clicca qui per leggere l'articolo.
A parte la brutalità del gesto c'è da sottolineare ancora una volta come le comunità religiose (e le parrocchie) più fiorenti siano quelle legate alla Tradizione. Sarà per questo che la chiesta sgomberata dava tanto fastidio? Sarà per questo che il clero cattolico (francese e vaticano) non ha pronunciato una sola parola a difesa del parroco e dei fedeli? Bravi! Avanti così! Distuggiamo le sole realtà in grado di attirare fedeli e vocazioni.
Parliamoci chiaro e fuori dai denti: i cattolici (quelli veri e non quelli aderenti ai "sindacati" ecclesiali) non sono in nulla e per nulla attratti da una religiosità tutta sociale e dedita esclusivamente a opere di carità (di solito a favore di immigrati e chissà perchè!), ma amano la liturgia fatta bene, le omelie che parlano di Cristo e della fede e non di questo o quel problema che garantisce il titolone sui giornali ma che non riempie il cuore e la mente. Per carità! Anche le tematiche sociali sono importanti ma non possono diventare il fulcro di ogni discorso, intervento o omelia perchè alla fine e con tutta la buona volontà hanno stufato!
Guardate che certi silenzi applauditi di oggi potrebbero diventare, fra qualche decennio, così assordanti da non potere essere sostenuti né scusati.
R.
A parte la brutalità del gesto c'è da sottolineare ancora una volta come le comunità religiose (e le parrocchie) più fiorenti siano quelle legate alla Tradizione. Sarà per questo che la chiesta sgomberata dava tanto fastidio? Sarà per questo che il clero cattolico (francese e vaticano) non ha pronunciato una sola parola a difesa del parroco e dei fedeli? Bravi! Avanti così! Distuggiamo le sole realtà in grado di attirare fedeli e vocazioni.
Parliamoci chiaro e fuori dai denti: i cattolici (quelli veri e non quelli aderenti ai "sindacati" ecclesiali) non sono in nulla e per nulla attratti da una religiosità tutta sociale e dedita esclusivamente a opere di carità (di solito a favore di immigrati e chissà perchè!), ma amano la liturgia fatta bene, le omelie che parlano di Cristo e della fede e non di questo o quel problema che garantisce il titolone sui giornali ma che non riempie il cuore e la mente. Per carità! Anche le tematiche sociali sono importanti ma non possono diventare il fulcro di ogni discorso, intervento o omelia perchè alla fine e con tutta la buona volontà hanno stufato!
Guardate che certi silenzi applauditi di oggi potrebbero diventare, fra qualche decennio, così assordanti da non potere essere sostenuti né scusati.
R.
Una fede su misura: ecco “il male più grande” (Pannuti)
Clicca qui per leggere la recensione di un libro che mi pare molto (ma molto!) interessante.
Ugo Borghello, "Il male più grande - In controluce al grande dono della misericordia divina", Fede & Cultura 2016
Ugo Borghello, "Il male più grande - In controluce al grande dono della misericordia divina", Fede & Cultura 2016
domenica 7 agosto 2016
Già prenotabile "Ultime conversazioni", il libro intervista di Benedetto XVI a Peter Seewald. Pessima scelta della copertina della versione italiana
Benedetto XVI, "Ultime conversazioni", a cura di Peter Seewald, Garzanti (9 settembre 2016)
DESCRIZIONE
Benedetto XVI si racconta in un libro confidenziale e con estrema sincerità risponde alle domande riguardanti la sua vita pubblica e privata. In uscita contemporanea mondiale.
«Non ho mai percepito il potere come una posizione di forza, ma sempre come responsabilità, come un compito pesante e gravoso. Un compito che costringe ogni giorno a chiedersi: ne sono stato all’altezza?»
Queste Ultime conversazioni rappresentano il testamento spirituale, il lascito intimo e personale del papa che più di ogni altro è riuscito ad attirare l’attenzione sia dei fedeli sia dei non credenti sul ruolo della Chiesa nel mondo contemporaneo. Indimenticabile resta la scelta di abbandonare il pontificato e di rinunciare al potere: un gesto senza precedenti e destinato a cambiare per sempre il corso della storia. In questa lunga intervista con Peter Seewald il papa affronta per la prima volta i tormenti, la commozione e i duri momenti che hanno preceduto le sue dimissioni; ma risponde anche, con sorprendente sincerità, alle tante domande sulla sua vita pubblica e privata: la carriera di teologo di successo e l’amicizia con Giovanni Paolo II, i giorni del Concilio Vaticano e l’elezione al papato, gli scandali degli abusi sessuali del clero e i complotti di Vatileaks. Benedetto XVI si racconta con estremo coraggio e candore, alternando ricordi personali a parole profonde e cariche di speranza sul futuro della fede e della cristianità. Leggere oggi le sue ultime riflessioni è un’occasione privilegiata per rivivere e riascoltare i pensieri e gli insegnamenti di un uomo straordinario capace di amare e di stupire il mondo.
COMMENTO
Ovviamente non vediamo l'ora che esca il libro. Anche io, come A., trovo infelice (per usare un eufemismo) la scelta della copertina della versione italiana. Molto più belle quella francese e tedesca ma...si sa...noi italiani dobbiamo sempre farci riconoscere!
R.
DESCRIZIONE
Benedetto XVI si racconta in un libro confidenziale e con estrema sincerità risponde alle domande riguardanti la sua vita pubblica e privata. In uscita contemporanea mondiale.
«Non ho mai percepito il potere come una posizione di forza, ma sempre come responsabilità, come un compito pesante e gravoso. Un compito che costringe ogni giorno a chiedersi: ne sono stato all’altezza?»
Queste Ultime conversazioni rappresentano il testamento spirituale, il lascito intimo e personale del papa che più di ogni altro è riuscito ad attirare l’attenzione sia dei fedeli sia dei non credenti sul ruolo della Chiesa nel mondo contemporaneo. Indimenticabile resta la scelta di abbandonare il pontificato e di rinunciare al potere: un gesto senza precedenti e destinato a cambiare per sempre il corso della storia. In questa lunga intervista con Peter Seewald il papa affronta per la prima volta i tormenti, la commozione e i duri momenti che hanno preceduto le sue dimissioni; ma risponde anche, con sorprendente sincerità, alle tante domande sulla sua vita pubblica e privata: la carriera di teologo di successo e l’amicizia con Giovanni Paolo II, i giorni del Concilio Vaticano e l’elezione al papato, gli scandali degli abusi sessuali del clero e i complotti di Vatileaks. Benedetto XVI si racconta con estremo coraggio e candore, alternando ricordi personali a parole profonde e cariche di speranza sul futuro della fede e della cristianità. Leggere oggi le sue ultime riflessioni è un’occasione privilegiata per rivivere e riascoltare i pensieri e gli insegnamenti di un uomo straordinario capace di amare e di stupire il mondo.
COMMENTO
Ovviamente non vediamo l'ora che esca il libro. Anche io, come A., trovo infelice (per usare un eufemismo) la scelta della copertina della versione italiana. Molto più belle quella francese e tedesca ma...si sa...noi italiani dobbiamo sempre farci riconoscere!
R.
Economia e finanza, rileggere la Caritas in veritate di Benedetto XVI (Silenzi)
Clicca qui per leggere l'articolo.
sabato 6 agosto 2016
Joseph Ratzinger: un Papa che oggi non subisse critiche fallirebbe il suo compito dinanzi a questo tempo. Paolo VI ha resistito alla telecrazia e alla demoscopia, le due potenze dittatoriali del presente. Ha potuto farlo perché non prendeva come parametro il successo e l'approvazione, bensì la coscienza, che si misura sulla verità, sulla fede
Buongiorno Amici!
Rileggiamo l'omelia (inedita fino al 2013) dell'allora cardinale Ratzinger dedicata alla Trasfigurazione e alla sofferenza di Paolo VI, del quale ricordiamo oggi il ritorno alla Casa del Padre.
Omelia inedita tenuta dal cardinale Joseph Ratzinger il 10 agosto 1978
La Trasfigurazione
Per quindici anni, nella preghiera eucaristica durante la santa messa, abbiamo pronunciato le parole: «Celebriamo in comunione con il tuo servo il nostro Papa Paolo».
Dal 7 agosto questa frase rimane vuota. L'unità della Chiesa in quest'ora non ha alcun nome; il suo nome è adesso nel ricordo di coloro che ci hanno preceduto nel segno della fede e riposano nella pace. Papa Paolo è stato chiamato alla casa del Padre nella sera della festa della Trasfigurazione del Signore, poco dopo avere ascoltato la santa messa e ricevuto i sacramenti.
«È bello per noi restare qui» aveva detto Pietro a Gesù sul monte della trasfigurazione. Voleva rimanere. Quello che a lui allora venne negato è stato invece concesso a Paolo VI in questa festa della Trasfigurazione del 1978: non è più dovuto scendere nella quotidianità della storia. È potuto rimanere lì, dove il Signore siede alla mensa per l'eternità con Mosè, Elia e i tanti che giungono da oriente e da occidente, dal settentrione e dal meridione. Il suo cammino terreno si è concluso. Nella Chiesa d'oriente, che Paolo VI ha tanto amato, la festa della Trasfigurazione occupa un posto molto speciale. Non è considerata un avvenimento fra i tanti, un dogma tra i dogmi, ma la sintesi di tutto: croce e risurrezione, presente e futuro del creato sono qui riuniti. La festa della Trasfigurazione è garanzia del fatto che il Signore non abbandona il creato. Che non si sfila di dosso il corpo come se fosse una veste e non lascia la storia come se fosse un ruolo teatrale. All'ombra della croce, sappiamo che proprio così il creato va verso la trasfigurazione.
Quella che noi indichiamo come trasfigurazione è chiamata nel greco del Nuovo Testamento metamorfosi (“trasformazione”), e questo fa emergere un fatto importante: la trasfigurazione non è qualcosa di molto lontano, che in prospettiva può accadere.
Nel Cristo trasfigurato si rivela molto di più ciò che è la fede: trasformazione, che nell'uomo avviene nel corso di tutta la vita. Dal punto di vista biologico la vita è una metamorfosi, una trasformazione perenne che si conclude con la morte. Vivere significa morire, significa metamorfosi verso la morte. Il racconto della trasfigurazione del Signore vi aggiunge qualcosa di nuovo: morire significa risorgere. La fede è una metamorfosi, nella quale l'uomo matura nel definitivo e diventa maturo per essere definitivo. Per questo l'evangelista Giovanni definisce la croce come glorificazione, fondendo la trasfigurazione e la croce: nell'ultima liberazione da se stessi la metamorfosi della vita giunge al suo traguardo.
La trasfigurazione promessa dalla fede come metamorfosi dell'uomo è anzitutto cammino di purificazione, cammino di sofferenza. Paolo VI ha accettato il suo servizio papale sempre più come metamorfosi della fede nella sofferenza. Le ultime parole del Signore risorto a Pietro, dopo averlo costituito pastore del suo gregge, sono state: «Quando sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi» (Giovanni, 21, 18).
Era un accenno alla croce che attendeva Pietro alla fine del suo cammino. Era, in generale, un accenno alla natura di questo servizio. Paolo VI si è lasciato portare sempre più dove umanamente, da solo, non voleva andare. Sempre più il pontificato ha significato per lui farsi cingere la veste da un altro ed essere inchiodato alla croce.
Sappiamo che prima del suo settantacinquesimo compleanno, e anche prima dell'ottantesimo, ha lottato intensamente con l'idea di ritirarsi. E possiamo immaginare quanto debba essere pesante il pensiero di non poter più appartenere a se stessi. Di non avere più un momento privato. Di essere incatenati fino all'ultimo, con il proprio corpo che cede, a un compito che esige, giorno dopo giorno, il pieno e vivo impiego di tutte le forze di un uomo.
«Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore» (Romani, 14, 7-8). Queste parole della lettura di oggi hanno letteralmente segnato la sua vita. Egli ha dato nuovo valore all'autorità come servizio, portandola come una sofferenza. Non provava alcun piacere nel potere, nella posizione, nella carriera riuscita; e proprio per questo, essendo l'autorità un incarico sopportato -- «ti porterà dove tu non vuoi» -- essa è diventata grande e credibile.
Paolo VI ha svolto il suo servizio per fede. Da questo derivavano sia la sua fermezza sia la sua disponibilità al compromesso. Per entrambe ha dovuto accettare critiche, e anche in alcuni commenti dopo la sua morte non è mancato il cattivo gusto.
Ma un Papa che oggi non subisse critiche fallirebbe il suo compito dinanzi a questo tempo. Paolo VI ha resistito alla telecrazia e alla demoscopia, le due potenze dittatoriali del presente. Ha potuto farlo perché non prendeva come parametro il successo e l'approvazione, bensì la coscienza, che si misura sulla verità, sulla fede.
È per questo che in molte occasioni ha cercato il compromesso: la fede lascia molto di aperto, offre un ampio spettro di decisioni, impone come parametro l'amore, che si sente in obbligo verso il tutto e quindi impone molto rispetto. Per questo ha potuto essere inflessibile e deciso quando la posta in gioco era la tradizione essenziale della Chiesa. In lui questa durezza non derivava dall'insensibilità di colui il cui cammino viene dettato dal piacere del potere e dal disprezzo delle persone, ma dalla profondità della fede, che lo ha reso capace di sopportare le opposizioni.
Paolo VI era, nel profondo, un Papa spirituale, un uomo di fede. Non a torto un giornale lo ha definito il diplomatico che si è lasciato alle spalle la diplomazia. Nel corso della sua carriera curiale aveva imparato a dominare in modo virtuoso gli strumenti della diplomazia. Ma questi sono passati sempre più in secondo piano nella metamorfosi della fede alla quale si è sottoposto.
Nell'intimo ha trovato sempre più il proprio cammino semplicemente nella chiamata della fede, nella preghiera, nell'incontro con Gesù Cristo. In tal modo è diventato sempre più un uomo di bontà profonda, pura e matura. Chi lo ha incontrato negli ultimi anni ha potuto sperimentare in modo diretto la straordinaria metamorfosi della fede, la sua forza trasfigurante.
Si poteva vedere quanto l'uomo, che per sua natura era un intellettuale, si consegnava giorno dopo giorno a Cristo, come si lasciava cambiare, trasformare, purificare da lui, e come ciò lo rendeva sempre più libero, sempre più profondo, sempre più buono, perspicace e semplice.
La fede è una morte, ma è anche una metamorfosi per entrare nella vita autentica, verso la trasfigurazione. In Papa Paolo si poteva osservare tutto ciò. La fede gli ha dato coraggio. La fede gli ha dato bontà. E in lui era anche chiaro che la fede convinta non chiude, ma apre. Alla fine, la nostra memoria conserva l'immagine di un uomo che tende le mani. È stato il primo Papa a essersi recato in tutti i continenti, fissando così un itinerario dello Spirito, che ha avuto inizio a Gerusalemme, fulcro dell'incontro e della separazione delle tre grandi religioni monoteistiche; poi il viaggio alle Nazioni Unite, il cammino fino a Ginevra, l'incontro con la più grande cultura religiosa non monoteista dell'umanità, l'India, e il pellegrinaggio presso i popoli che soffrono dell'America Latina, dell'Africa, dell'Asia. La fede tende le mani. Il suo segno non è il pugno, ma la mano aperta.
Nella Lettera ai Romani di sant'Ignazio di Antiochia è scritta la meravigliosa frase: «È bello tramontare al mondo per il Signore e risorgere in lui» (ii, 2). Il vescovo martire la scrisse durante il viaggio da oriente verso la terra in cui tramonta il sole, l'occidente. Lì, nel tramonto del martirio, sperava di ricevere il sorgere dell'eternità. Il cammino di Paolo VI è diventato, anno dopo anno, un viaggio sempre più consapevole di testimonianza sopportata, un viaggio nel tramonto della morte, che lo ha chiamato a sé nel giorno della Trasfigurazione del Signore. Affidiamo la sua anima con fiducia nelle mani dell'eterna misericordia di Dio affinché egli diventi per lui aurora di vita eterna. Lasciamo che il suo esempio sia un appello e porti frutto nella nostra anima. E preghiamo affinché il Signore ci mandi ancora un Papa che adempia di nuovo il mandato originario del Signore a Pietro: «Conferma i tuoi fratelli» (Luca, 22, 32).
(©L'Osservatore Romano 21 giugno 2013)
Rileggiamo l'omelia (inedita fino al 2013) dell'allora cardinale Ratzinger dedicata alla Trasfigurazione e alla sofferenza di Paolo VI, del quale ricordiamo oggi il ritorno alla Casa del Padre.
Omelia inedita tenuta dal cardinale Joseph Ratzinger il 10 agosto 1978
La Trasfigurazione
Per quindici anni, nella preghiera eucaristica durante la santa messa, abbiamo pronunciato le parole: «Celebriamo in comunione con il tuo servo il nostro Papa Paolo».
Dal 7 agosto questa frase rimane vuota. L'unità della Chiesa in quest'ora non ha alcun nome; il suo nome è adesso nel ricordo di coloro che ci hanno preceduto nel segno della fede e riposano nella pace. Papa Paolo è stato chiamato alla casa del Padre nella sera della festa della Trasfigurazione del Signore, poco dopo avere ascoltato la santa messa e ricevuto i sacramenti.
«È bello per noi restare qui» aveva detto Pietro a Gesù sul monte della trasfigurazione. Voleva rimanere. Quello che a lui allora venne negato è stato invece concesso a Paolo VI in questa festa della Trasfigurazione del 1978: non è più dovuto scendere nella quotidianità della storia. È potuto rimanere lì, dove il Signore siede alla mensa per l'eternità con Mosè, Elia e i tanti che giungono da oriente e da occidente, dal settentrione e dal meridione. Il suo cammino terreno si è concluso. Nella Chiesa d'oriente, che Paolo VI ha tanto amato, la festa della Trasfigurazione occupa un posto molto speciale. Non è considerata un avvenimento fra i tanti, un dogma tra i dogmi, ma la sintesi di tutto: croce e risurrezione, presente e futuro del creato sono qui riuniti. La festa della Trasfigurazione è garanzia del fatto che il Signore non abbandona il creato. Che non si sfila di dosso il corpo come se fosse una veste e non lascia la storia come se fosse un ruolo teatrale. All'ombra della croce, sappiamo che proprio così il creato va verso la trasfigurazione.
Quella che noi indichiamo come trasfigurazione è chiamata nel greco del Nuovo Testamento metamorfosi (“trasformazione”), e questo fa emergere un fatto importante: la trasfigurazione non è qualcosa di molto lontano, che in prospettiva può accadere.
Nel Cristo trasfigurato si rivela molto di più ciò che è la fede: trasformazione, che nell'uomo avviene nel corso di tutta la vita. Dal punto di vista biologico la vita è una metamorfosi, una trasformazione perenne che si conclude con la morte. Vivere significa morire, significa metamorfosi verso la morte. Il racconto della trasfigurazione del Signore vi aggiunge qualcosa di nuovo: morire significa risorgere. La fede è una metamorfosi, nella quale l'uomo matura nel definitivo e diventa maturo per essere definitivo. Per questo l'evangelista Giovanni definisce la croce come glorificazione, fondendo la trasfigurazione e la croce: nell'ultima liberazione da se stessi la metamorfosi della vita giunge al suo traguardo.
La trasfigurazione promessa dalla fede come metamorfosi dell'uomo è anzitutto cammino di purificazione, cammino di sofferenza. Paolo VI ha accettato il suo servizio papale sempre più come metamorfosi della fede nella sofferenza. Le ultime parole del Signore risorto a Pietro, dopo averlo costituito pastore del suo gregge, sono state: «Quando sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi» (Giovanni, 21, 18).
Era un accenno alla croce che attendeva Pietro alla fine del suo cammino. Era, in generale, un accenno alla natura di questo servizio. Paolo VI si è lasciato portare sempre più dove umanamente, da solo, non voleva andare. Sempre più il pontificato ha significato per lui farsi cingere la veste da un altro ed essere inchiodato alla croce.
Sappiamo che prima del suo settantacinquesimo compleanno, e anche prima dell'ottantesimo, ha lottato intensamente con l'idea di ritirarsi. E possiamo immaginare quanto debba essere pesante il pensiero di non poter più appartenere a se stessi. Di non avere più un momento privato. Di essere incatenati fino all'ultimo, con il proprio corpo che cede, a un compito che esige, giorno dopo giorno, il pieno e vivo impiego di tutte le forze di un uomo.
«Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore» (Romani, 14, 7-8). Queste parole della lettura di oggi hanno letteralmente segnato la sua vita. Egli ha dato nuovo valore all'autorità come servizio, portandola come una sofferenza. Non provava alcun piacere nel potere, nella posizione, nella carriera riuscita; e proprio per questo, essendo l'autorità un incarico sopportato -- «ti porterà dove tu non vuoi» -- essa è diventata grande e credibile.
Paolo VI ha svolto il suo servizio per fede. Da questo derivavano sia la sua fermezza sia la sua disponibilità al compromesso. Per entrambe ha dovuto accettare critiche, e anche in alcuni commenti dopo la sua morte non è mancato il cattivo gusto.
Ma un Papa che oggi non subisse critiche fallirebbe il suo compito dinanzi a questo tempo. Paolo VI ha resistito alla telecrazia e alla demoscopia, le due potenze dittatoriali del presente. Ha potuto farlo perché non prendeva come parametro il successo e l'approvazione, bensì la coscienza, che si misura sulla verità, sulla fede.
È per questo che in molte occasioni ha cercato il compromesso: la fede lascia molto di aperto, offre un ampio spettro di decisioni, impone come parametro l'amore, che si sente in obbligo verso il tutto e quindi impone molto rispetto. Per questo ha potuto essere inflessibile e deciso quando la posta in gioco era la tradizione essenziale della Chiesa. In lui questa durezza non derivava dall'insensibilità di colui il cui cammino viene dettato dal piacere del potere e dal disprezzo delle persone, ma dalla profondità della fede, che lo ha reso capace di sopportare le opposizioni.
Paolo VI era, nel profondo, un Papa spirituale, un uomo di fede. Non a torto un giornale lo ha definito il diplomatico che si è lasciato alle spalle la diplomazia. Nel corso della sua carriera curiale aveva imparato a dominare in modo virtuoso gli strumenti della diplomazia. Ma questi sono passati sempre più in secondo piano nella metamorfosi della fede alla quale si è sottoposto.
Nell'intimo ha trovato sempre più il proprio cammino semplicemente nella chiamata della fede, nella preghiera, nell'incontro con Gesù Cristo. In tal modo è diventato sempre più un uomo di bontà profonda, pura e matura. Chi lo ha incontrato negli ultimi anni ha potuto sperimentare in modo diretto la straordinaria metamorfosi della fede, la sua forza trasfigurante.
Si poteva vedere quanto l'uomo, che per sua natura era un intellettuale, si consegnava giorno dopo giorno a Cristo, come si lasciava cambiare, trasformare, purificare da lui, e come ciò lo rendeva sempre più libero, sempre più profondo, sempre più buono, perspicace e semplice.
La fede è una morte, ma è anche una metamorfosi per entrare nella vita autentica, verso la trasfigurazione. In Papa Paolo si poteva osservare tutto ciò. La fede gli ha dato coraggio. La fede gli ha dato bontà. E in lui era anche chiaro che la fede convinta non chiude, ma apre. Alla fine, la nostra memoria conserva l'immagine di un uomo che tende le mani. È stato il primo Papa a essersi recato in tutti i continenti, fissando così un itinerario dello Spirito, che ha avuto inizio a Gerusalemme, fulcro dell'incontro e della separazione delle tre grandi religioni monoteistiche; poi il viaggio alle Nazioni Unite, il cammino fino a Ginevra, l'incontro con la più grande cultura religiosa non monoteista dell'umanità, l'India, e il pellegrinaggio presso i popoli che soffrono dell'America Latina, dell'Africa, dell'Asia. La fede tende le mani. Il suo segno non è il pugno, ma la mano aperta.
Nella Lettera ai Romani di sant'Ignazio di Antiochia è scritta la meravigliosa frase: «È bello tramontare al mondo per il Signore e risorgere in lui» (ii, 2). Il vescovo martire la scrisse durante il viaggio da oriente verso la terra in cui tramonta il sole, l'occidente. Lì, nel tramonto del martirio, sperava di ricevere il sorgere dell'eternità. Il cammino di Paolo VI è diventato, anno dopo anno, un viaggio sempre più consapevole di testimonianza sopportata, un viaggio nel tramonto della morte, che lo ha chiamato a sé nel giorno della Trasfigurazione del Signore. Affidiamo la sua anima con fiducia nelle mani dell'eterna misericordia di Dio affinché egli diventi per lui aurora di vita eterna. Lasciamo che il suo esempio sia un appello e porti frutto nella nostra anima. E preghiamo affinché il Signore ci mandi ancora un Papa che adempia di nuovo il mandato originario del Signore a Pietro: «Conferma i tuoi fratelli» (Luca, 22, 32).
(©L'Osservatore Romano 21 giugno 2013)