mercoledì 17 aprile 2013

Il Cristo della fede è il Gesù della storia. Il trittico cristologico di Joseph Ratzinger (O.R.)

Il Cristo della fede è il Gesù della storia

Nel 2012 Benedetto XVI ha finalmente concluso e pubblicato la terza e ultima parte della sua opera su Gesù: complessivamente circa un migliaio di pagine, scritte dal 2003 nel corso di un decennio. Un fatto eccezionale e senza paragoni nella storia del papato, come del resto specularmente singolare nella successione dei Pontefici è il profilo di Joseph Ratzinger, che ha dedicato gran parte dei primi cinquant'anni di vita allo studio e all'insegnamento universitari. 
E il profilo è quello di un teologo che conosce bene la tradizione cristiana ed è molto attento alla storia, un intellettuale che anche nei decenni successivi mai ha in realtà abbandonato la lettura e la ricerca, nonostante gli impegni crescenti e gravosissimi come vescovo, quindi come responsabile per quasi un quarto di secolo dell'organismo dottrinale della Santa Sede, infine come Papa. 
L'impatto mondiale dei tre libri, dal punto di vista mediatico e nel successo riscontrato tra i lettori, è stato di conseguenza notevole, anche se un po' in ombra sono rimaste l'intenzione e la portata dell'opera.
A dichiararle esplicitamente, oltre ovviamente le tre premesse (in particolare la prima, che è quella di maggior peso e respiro), è il primo capitolo dell'ultimo libro, dedicato ai vangeli canonici dell'infanzia e che l'autore presenta come una sorta di breve prologo all'intera opera. Si tratta infatti di un piccolo libro scritto alla fine di una lunga ricerca e dove, oltre alla spiegazione dei testi evangelici, si ritrovano le riflessioni conclusive dell'autore. Un autore che ha il dono, unanimemente riconosciuto, dell'essenzialità e della chiarezza messe al servizio della volontà di parlare a tutti. 
Ebbene, il terzo volume si apre con il richiamo -- quasi un flashback nella narrazione complessiva che era iniziata dal battesimo, e dunque dall'inizio della vita pubblica del maestro di Nazaret -- a una scena del racconto giovanneo delle ultime ore di Gesù, condotto di fronte a Pilato: «Di dove sei tu?» (19, 9) gli chiede il rappresentante del potere di Roma. L'interrogativo viene subito dopo accostato a quello di alcuni abitanti di Nazaret, secondo la narrazione di Marco: «Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?» (6, 3). Al cuore di tutta l'opera è dunque la domanda sulla persona di Gesù posta nei due brani evangelici da chi vede in lui soltanto un uomo ma al tempo stesso sembra intuire oscuramente altro.
A questa domanda, ricorrente nei secoli, l'autore ha voluto rispondere con il trittico su Gesù di Nazaret, per oltre tre quarti elaborato e scritto durante (e nonostante) l'immane carico del pontificato. Con la precisazione rivelatrice -- nella fondamentale premessa al primo volume (2007), quello che segue appunto le narrazioni evangeliche dal battesimo nel Giordano sino alla trasfigurazione -- di essere «giunto dopo un lungo cammino interiore» a scrivere quest'opera. 
E nella premessa al secondo volume (2011), che segue i racconti evangelici dall'ingresso in Gerusalemme sino alla Risurrezione, aggiunge di sperare «che mi sia stato dato di avvicinarmi alla figura del nostro Signore in un modo che possa essere utile a tutti i lettori che vogliono incontrare Gesù e credergli», fino ad augurarsi, nella terza premessa, di potere in questo modo «aiutare molte persone nel loro cammino verso e con Gesù». Un'opera dunque di riflessione spirituale? 
Certo questa dimensione è esplicitata e presente nelle mille pagine, firmate «Joseph Ratzinger Benedetto XVI» per sottolinearne il carattere di ricerca personale, che di per sé non impegna l'autorità del Pontefice (anche se la distinzione, chiarissima, è sottile e obiettivamente non facile).
Ma non solo di questo si tratta, come appare con evidenza nella prima premessa. Questa infatti evoca la tensione tra i due classici poli della ricerca scientifica sulla vita di Gesù, in corso ormai da oltre due secoli. In altre parole, della figura storica del predicatore giudeo vissuto al tempo degli imperatori romani Augusto e Tiberio quanto è conservato nell'immagine che si ricava dai primi scritti dei suoi seguaci, soprattutto dai vangeli canonici? La questione riguarda dunque, secondo uno schema ormai classico, il rapporto che intercorre tra “il Gesù della storia” e “il Cristo della fede”: due dimensioni che sempre più sono state allontanate tra loro da alcune tendenze diffuse nella ricerca durante il Novecento dopo Rudolf Bultmann, sino ad arrivare a una divaricazione che finisce per mettere in dubbio e svalutare storicamente le fonti evangeliche. Un nodo decisivo, come si vede, che Ratzinger affronta sin dall'inizio direttamente.
L'opera si propone in definitiva di esaminare la questione, semplice e radicale, dell'immagine del predicatore di Nazaret presente nel complesso degli scritti neotestamentari. Cos'è successo nel ventennio tra la sua crocifissione e la cristologia attestata nelle lettere di Paolo? A questo interrogativo l'autore replica: «Non è più logico, anche dal punto di vista storico, che la grandezza si collochi all'inizio e che la figura di Gesù abbia fatto nella pratica saltare tutte le categorie disponibili e abbia potuto così essere compresa solo a partire dal mistero di Dio?». L'autore risponde di sì a questa domanda, rovesciando la tesi secondo la quale la cristologia alta (come quella, per intendersi, espressa dal vangelo di Giovanni) sia frutto di un'elaborazione teologica successiva delle comunità cristiane, e si dichiara del tutto persuaso che il Gesù dei vangeli -- quello che la ricerca novecentesca ha denominato appunto “il Cristo della fede” -- coincida con il Gesù storico: «Io sono convinto, e spero che se ne possa rendere conto anche il lettore, che questa figura è molto più logica e dal punto di vista storico anche più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni. Io ritengo che proprio questo Gesù -- quello dei Vangeli -- sia una figura storicamente sensata e convincente».
L'insistenza sulla storia porta Ratzinger nella seconda premessa a specificare di non avere «tentato di scrivere una cristologia», aggiungendo di avere avuto l'intenzione di «trovare il Gesù reale, a partire dal quale, soltanto, diventa possibile qualcosa come una “cristologia dal basso”. Il “Gesù storico”, come appare nella corrente principale dell'esegesi critica sulla base dei suoi presupposti ermeneutici, è troppo insignificante nel suo contenuto per aver potuto esercitare una grande efficacia storica: è troppo ambientato nel passato per rendere possibile un rapporto personale con Lui». Fino all'affermazione, nella terza premessa, che «non basta lasciare il testo nel passato» perché davanti «a un testo come quello biblico, il cui ultimo e più profondo autore, secondo la nostra fede, è Dio stesso, la domanda circa il rapporto del passato con il presente fa immancabilmente parte della stessa interpretazione. Con ciò la serietà della ricerca storica non viene diminuita, ma aumentata».
Al cuore delle preoccupazioni di Benedetto XVI -- che anche in quest'opera si dimostra nello stesso tempo teologo rigorosamente attento alla storia e pastore sapiente -- vi sono ancora una volta la credibilità della fede e la sua compatibilità con la ragione. Che tuttavia non coincidono, anche se la ragione non è nemica di quel cuore da cui è nata l'opera. Continua infatti Ratzinger, con lucida consapevolezza metodologica, nella prima premessa: «Naturalmente, credere che proprio come uomo egli era Dio e che abbia fatto conoscere questo velatamente nelle parabole e tuttavia in un modo sempre più chiaro, va al di là delle possibilità del metodo storico. Al contrario, se alla luce di questa convinzione di fede si leggono i testi con il metodo storico e con la sua apertura a ciò che è più grande, essi si schiudono, per mostrare una via e una figura che sono degne di fede». Per il Papa, dunque, se la prospettiva della fede è ben distinta da quella della storia, al tempo stesso la prima non è in contrasto con la seconda, e anzi i due punti di vista si arricchiscono l'uno con l'altro.
Nella seconda premessa Benedetto XVI torna sull'esegesi storico-critica. Il Papa accenna con soddisfazione alle prime reazioni di fronte al suo primo volume e al «fatto che la discussione sul metodo e sull'ermeneutica dell'esegesi come pure sull'esegesi quale disciplina storica e al contempo teologica sta diventando più vivace, nonostante non poche resistenze nei confronti di nuovi passi». Dopo la pubblicazione del primo volume si è scritto che Ratzinger dimostrerebbe sufficienza, o addirittura avrebbe un atteggiamento liquidatorio, nei confronti dell'esegesi storico-critica, ma nella prima premessa il Papa manifesta «grande riconoscenza» nei suoi confronti, definendola «una dimensione irrinunciabile del lavoro esegetico» e come un metodo «indispensabile a partire dalla struttura della fede cristiana».
Anche se il Papa ne sottolinea i limiti perché «i singoli testi biblici rimandano in qualche modo al processo vitale dell'unica Scrittura, che si attua in essi». In altre parole, questi testi «vengono ripresi, compresi e letti in modo nuovo. Nella rilettura, nella lettura progrediente, mediante correzioni, approfondimenti e ampliamenti taciti, la formazione della Scrittura si configura come un processo della parola». In questa prospettiva la Bibbia viene meglio compresa dalla “esegesi canonica”, che si è sviluppata in America soprattutto negli anni Ottanta del Novecento con la caratteristica di leggere e interpretare i testi scritturistici tenendo conto del loro insieme come si articola nei canoni all'interno dell'ebraismo e del cristianesimo. Ratzinger la definisce «lettura dei singoli testi della Bibbia nel quadro della sua interezza», e sottolinea che si tratta di «una dimensione essenziale dell'esegesi che non è in contraddizione con il metodo storico-critico, ma lo sviluppa in maniera organica e lo fa divenire vera e propria teologia».
Insomma, fede e storia s'intrecciano nell'opera del Papa su Gesù, tenendo insieme cuore e ragione e interpellando chi legge, come sintetizza efficacemente la terza premessa: «È vero ciò che è stato detto? Riguarda me? E se mi riguarda, in che modo?». Dense e al tempo stesso scorrevoli (anche per la scelta di rinunciare del tutto alle note), le mille pagine traboccano di temi e sono suscettibili di letture a diversi livelli. Con molte accentuazioni e affermazioni importanti che avranno certo seguito. Tra queste, la costante attenzione al giudaismo del tempo di Gesù, l'evidente interesse per un rapporto sempre più profondo con l'ebraismo contemporaneo, l'apertura ecumenica, la visione d'insieme dei vangeli con la valorizzazione evidente e significativa di quello giovanneo, il dialogo con l'esegesi contemporanea cattolica e protestante. Anche se nell'opera cattura e affascina con evidente immediatezza il coinvolgimento personale dell'autore. Che già Johann Albrecht Bengel -- il pietista luterano svevo che nella prima metà del Settecento fu tra i fondatori della critica testuale neotestamentaria -- raccomandava in un trasparente latino: Te totum applica ad textum, rem totam applica ad te.


(©L'Osservatore Romano 17 aprile 2013)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Il rimpianto di Benedetto è ogni giorno più struggente...bei tempi quando avevamo un papa grandissimo e colto che parlava di teologia vera pronunciava i discorsi in varie lingue e ci sembrava di essere universali ora siamo solo una provincia... argentina.Niente lingue moderne solo italiano e spagnolo e
niente latino...che fine misera abbiam fatto...quando penso alla bellezza del culto anglicano c'è da vergognarsi.
Padre Amorth nell'ultimo libro parla della Massoneria che governa il Vaticano e la chiesa cattolica!

Anonimo ha detto...

Bravo anonimo!

Hai capito : la Massoneria ci elogia per le nostre spoliazioni, ma poi loro i ricamati grembiulini alle grandi occasioni se li mettono volentieri, e guai a prendersela con i ricchi, raffinati e tradizionali (e attraenti...) rituali delle established churches protestanti o autocefale ortodosse... No, il "carnevale" deve finire solo alla Città Eterna, per gli altri liberi tutti, e ogni scherzo vale...