Dante e l'imperatore
di Saverio Bellomo
C'era una volta l'imperatore Costantino. Non comincia così una pagina di storia, ma così potrebbe cominciare la vita dell'imperatore come la conosceva Dante. Infatti tutte le nozioni su di lui che egli possedeva erano inestricabilmente legate alla leggenda. Nonostante tali fragili basi documentarie, questo personaggio ha un ruolo fondamentale nella concezione politica del poeta -- e quando diciamo “politica” nel medioevo, prima di Machiavelli, intendiamo anche etica e teologica -- dicevo ha un ruolo fondamentale, ma anche apparentemente contraddittorio, perché è un santo che ha combinato un guaio enorme per l'umanità.
Ecco come compare nel cielo di Giove, tra le anime che fecero della giustizia lo scopo della loro vita: queste si presentano al poeta come punti luminosi disposti in forma di aquila parlante, in cui è simboleggiata la giustizia e, allo stesso tempo, l'impero che della giustizia è la realizzazione.
Costantino è posto in posizione preminente a formare l'occhio del sacro uccello, il quale così lo presenta: «L'altro che segue, con le leggi e meco, / sotto buona intenzion che fé mal frutto, / per cedere al pastor si fece greco: / ora conosce come il mal dedutto / dal suo bene operar non li è nocivo, / avvegna che sia 'l mondo indi distrutto». (Paradiso, XX, 55-60)
La santità dell'imperatore è un dato tradizionale, benché come vedremo non sempre incontestato, dalla Vita Constantini di Eusebio di Cesarea in poi: stesa in greco all'indomani dell'Editto, è a metà tra un panegirico e un'agiografia. Non mancano di quest'ultima neppure gli eventi miracolosi, come la visione, alla vigilia della battaglia presso il Ponte Milvio contro Massenzio, del monogramma di Cristo, sotto l'insegna del quale avrebbe vinto. In Occidente contribuì alla santificazione di Costantino il De mortibus persecutorum di Lattanzio, precettore del figlio dell'imperatore. Quest'opera passava l'idea, che poi sarà sposata in toto da Agostino, che la fortuna di Costantino fosse dipesa dall'approvazione divina, così come le morti talvolta terribili -- descritte con dovizia di particolari ributtanti -- dei persecutori dei cristiani ne erano la punizione. Parallelamente, in modo da fare apparire più notevole la svolta, pur decisiva oggettivamente, della politica costantiniana, veniva un po' esagerata l'efferatezza delle persecuzioni stesse, in vero presentate come le mitiche piaghe d'Egitto anche da uno storico tendenzialmente distaccato e oggettivo come Paolo Orosio. Su questa base storica panegiristica si innestò poi quella agiografica collegata alla leggenda di Papa Silvestro i.
Dante avrebbe potuto senza difficoltà, data la sua spregiudicatezza e indipendenza di giudizio, distanziarsi da tale considerazione di Costantino, imputandogli la responsabilità di avere abbandonato l'impero di Occidente «al pastor», cioè al Papa, ritirandosi a Bisanzio, cosa che fu sancita, come è noto, dalla famosa Donatio, di cui nel medioevo pressoché nessuno sospettava la falsità. Eppure il poeta riconosce la «buona intenzion» dell'imperatore, e il suo «bene operare» secondo le leggi e la giustizia («meco», dice l'Aquila), proprio grazie al quale ha meritato il paradiso.
Però altrove il poeta sbotta con questa esclamazione: «numquam infirmator ille Imperii ... natus fuisset»(Monarchia, ii, xi 8), che ricorda quella evangelica contro Giuda, il traditore per eccellenza: bonum erat si natus non fuisset homo ille (Matteo, XXVI 24). Il sorprendente riscontro ci dice due cose: la prima, che l'intertestualità è un fenomeno complesso, per cui il testo ripreso nel nuovo contesto può subire anche forti modificazioni semantiche; la seconda, che effettivamente per Dante il ruolo di Costantino nella storia è fortemente problematico. Il riecheggiamento del luogo biblico determina un tono profetico consono al ruolo che il poeta vuole qui assumere, vale a dire una posizione al di sopra delle parti e severamente critica nei confronti dell'umanità.
La Donatio, secondo la visione di Dante, comportò gravissime conseguenze storiche e soprattutto istituzionali. La teoria etico-politica che sta alla base della Commedia e della Monarchia è messa in crisi soprattutto da questo documento. Di qui l'importanza che assume Costantino nell'opera dantesca.
Tale teoria nasce dalla considerazione della storia, ma non dalla visione di uno storico. Al poeta non interessano infatti i rapporti di causa ed effetto tra gli avvenimenti, né di individuare delle regole, o almeno delle costanti, nell'agire umano, ma solo di vedere i segni della volontà di Dio. Scrive infatti nella Monarchia: «Voluntas quidem Dei per se invisibilis est; et invisibile Dei “per ea que facta sunt intellecta conspiciuntur”; nam, occulto existente sigillo, cera impressa de illo quamvis occulto tradit notitiam manifestam. Nec mirum si divina voluntas per signa querenda est, cum etiam humana extra volentem non aliter quam per signa cernatur» (ii, ii 8).
Ecco allora che la storia dell'impero rivela in filigrana il disegno celeste. Per raccontarla viene chiamato Giustiniano, il quale oltre ad averne titolo particolare per essere stato imperatore, è colui che ha saputo riconoscere i segni divini, capacità che invece, nonostante tutto, mancò al suo predecessore Costantino. Così dunque solennemente si presenta: «Poscia che Costantin l'aquila volse / contr' al corso del ciel, ch'ella seguio / dietro a l'antico che Lavina tolse, /cento e cent' anni e più l'uccel di Dio / ne lo stremo d'Europa si ritenne, / vicino a' monti de' quai prima uscìo; / e sotto l'ombra de le sacre penne / governò 'l mondo lì di mano in mano, / e, sì cangiando, in su la mia pervenne. / Cesare fui e son Iustinïano, / che, per voler del primo amor ch'i' sento, / d'entro le leggi trassi il troppo e 'l vano. / E prima ch'io a l'ovra fossi attento, / una natura in Cristo esser, non piùe, credea, e di tal fede era contento; / ma 'l benedetto Agapito, che fue / sommo pastore, a la fede sincera / mi dirizzò con le parole sue. / Io li credetti; e ciò che 'n sua fede era, / vegg' io or chiaro sì, come tu vedi / ogni contradizione e falsa e vera. / Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, / a Dio per grazia piacque di spirarmi / l'alto lavoro, e tutto 'n lui mi diedi; / e al mio Belisar commendai l'armi, / cui la destra del ciel fu sì congiunta, / che segno fu ch'i' dovessi posarmi». (Paradiso, vi, 1-27).
Si noti come le azioni di Giustiniano si conformino perfettamente alla volontà di Dio, giacché comincia il lavoro legislativo «per voler del primo amor» e solo dopo essersi convertito, nonché decide di farlo abbandonando gli impegni militari, funzione peraltro fondamentale per un imperator, perché i successi di Belisario (definito affettuosamente «suo» a dispetto di noti dissapori) furono un «segno» divino che dovesse affidare a lui questa mansione.
Diversamente Costantino mosse il vessillo imperiale «contr' al corso del ciel», cioè verso oriente, in direzione contraria cioè a quella seguita da Enea, che «fu de l'alma Roma e di suo impero / ne l'empireo ciel per padre eletto». Il “ciel” di cui si parla è sì quello fisico, ma porta con sé anche l'allusione a quello di cui è ricordata “la destra”, sicché il trasferimento della sede imperiale pare una forzatura, una incapacità di vedere il disegno provvidenziale, tuttavia facendone pur sempre parte.
Sapegno parla addirittura di «violazione dell'ordine naturale, che fa tutt'uno (...) con l'ordine provvidenziale delle vicende storiche: il “corso del ciel” significa nello stesso tempo il movimento delle sfere e l'occulto disegno di Dio», per cui Ovidio Capitani a rigor di logica può obiettare che «se occulto, il disegno di Dio non poteva essere violato, se non con il permesso di Dio stesso. E allora non c'era nessuna violazione, Dante vuol semplicemente indicare, poeticamente, l'assoluta libertà dell'Aquila, che, essendo “uccel di Dio” sceglie persone e luoghi per opere che non possono dipendere da volontà umana».
Ma se è vero che non si muove foglia che Dio non voglia, come recita il proverbio, è anche vero che esiste il libero arbitrio, quello che ha permesso ad Adamo ed Eva di cogliere il frutto proibito, e quello che ancora consente all'uomo di meritare o demeritare nell'aldilà, come ricorda l'Epistola a Cangrande, e anche quello che consente all'uomo, sia pure un imperatore, di fare qualche scelta sbagliata, o poco opportuna in relazione alle sue conseguenze, che invero non erano umanamente prevedibili. Le aveva previste bensì, ovviamente, il Padreterno, nel cui occulto disegno escatologico con ogni evidenza era inserita anche una nuova prova alla quale sottoporre l'umanità, ponendola di fronte a una occasione di per sé buona se sfruttata adeguatamente. La donazione di Costantino fu, per Dante, appunto questo: una responsabilizzazione dell'umanità di fronte, come vedremo, a un nuovo frutto proibito.
(©L'Osservatore Romano 13-14 maggio 2013)
1 commento:
Che strano che l'autore, per parlare della lettura problematica di Costantino da parte di Dante (santo lui, non la sua donazione), citi solo "Monarchia" dimenticando la chiara invettiva nel XIX Canto dell'"Inferno".
"Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre!"
Non mi è strano invece che questo articolo sia pubblicato sull'O.R. mentre si parla del titolo o non titolo di Sovrano dello Stato Vaticano....
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