Ragione e concretezza
di Raimondo Manzini
La pace, in verità, non può essere che un risultato; lo sbocco di un cammino. E dicendo pace, naturalmente il Papa parla della vera pace; della pace «nella verità, nella giustizia, nella carità, nella libertà» come precisa l'odierna Enciclica; non della pace effimera, propagandistica, verbale, unilaterale cui possono riferirsi certe contingenze polemiche, e che non è pace.
Il Papa non illude: i principi del suo insegnamento sono ben fermi. «Pax, pax: et non erat pax»: la parola di Geremia suona più che mai attuale.
Possono verificarsi e si verificano purtroppo ancora le situazioni della pace formale, della pace apparente, che non può appagare la sete e l'attesa degli uomini. Vediamo sussistere per tanta parte la pace della forza, del timore, dell'equilibrio calcolato, del terrore, della soggezione. Sono fantasmi di pace, questi, non la pace! Lo spartiacque fra pace e non pace è segnato dal rispetto per i diritti dell'uomo. Questi diritti di ogni essere umano sono infatti dichiarati «universali, inviolabili, inalienabili». Quando poi la dignità della persona è considerata «alla luce della rivelazione divina» allora appare incomprensibilmente più grande!
E se l'Enciclica parla in termini di ragione e di concretezza essa è tutta volta a indirizzare, portare gli uomini e la società al vertice della verità divina in un anelito potente di carità che tenta le vie del convincimento anche verso lontani. La verità nella carità, nessun irenismo! Le leggi che regolano i rapporti fra gli uomini, soggetto di diritti e di doveri, sono le stesse che debbono regolare le relazioni tra le comunità politiche. La pace si fonda su una reciprocità di riconoscimenti imposta dalla giustizia e suggerita dalla carità.
Lo stesso diritto positivo non può tutto risolvere: occorre il soffio della solidarietà universale. Le comunità politiche debbono regolare i loro rapporti «nella verità, nella giustizia, nella solidarietà operante, nella libertà»; rispettare anche il decoro, l'onore, la dignità di ogni popolo. È un compendio completo che arriva fino al diritto alla «informazione obiettiva »!
La concretezza della Enciclica si manifesta sui numerosi temi della problematica internazionale e sociale più moderna e impellente. Così il tema dell'autorità politica «che non è una forza. incontrollata» ma «la facoltà di comandare secondo ragione» e può «obbligare moralmente solo se è in rapporto intrinseco con l'autorità di Dio». Le controversie tra i popoli si regolino con l'istituto normale e permanente del «negoziato» e con l'incremento di tutti gli strumenti ed organi del diritto internazionale per i quali, come fra Stato e individuo vale il principio della «sussidiarietà» che non sopprime ma integra la libertà di ogni comunità politica.
Nell'ultima parte dell'Enciclica, coi «richiami pastorali» che iniziano con l'appello «al dovere di partecipare attivamente alla vita pubblica» per «coperare all'attuazione del bene comune», si ritorna, come nella Mater et magistra, al tema delle possibili collaborazioni «fra cattolici e non cattolici sul piano economico sociale-politico».
La dottrina dell'Enciclica è quella nota della teologia morale e dell'insegnamento gerarchico; ispirata alla prudenza e alla carità; né potrebbe mutare; ma si fa esplicativa in rapporto alle situazioni incombenti in un mondo per tanta parte ignaro o avverso al Cattolicesimo, nel quale fissare punti di convivenza sembra imprescindibile, su fini precisi e onesti, per il bene comune e nella speranza di irradiare luce anche sugli erranti e vincere errori e chiarire pregiudizi anticristiani, mantenendo integra e inviolabile la propria fedeltà al Credo e alla Morale.
Si distingue dunque l'errore -- da respingere -- dall'errante che è persona umana, e «va considerato e trattato come si conviene a tanta dignità»; si ricorda che in lui «non si spegne mai l'esigenza, congiunta alla sua natura, di spezzare gli schemi dell'errore». La nostra presenza esemplare valga anzi a facilitare il cammino degli erranti verso la verità. Ciò esige fermezza e fervore. Quanto ai «movimenti storici a finalità economiche sociali, culturali e politiche» nati da false dottrine filosofiche, mentre tali dottrine una volta elaborate e definite «rimangono sempre le stesse» le situazioni storiche incessantemente evolventesi fanno sì che questi movimenti «non possono non subirne gli influssi e non andare soggetti a mutamenti anche profondi». I problemi di questa evoluzione possono essere giudicati «soltanto con la virtù della prudenza» da coloro anzitutto «che vivono e operano nei settori specifici della convivenza», ma sempre in accordo con i principi del diritto naturale, con la dottrina sociale della Chiesa «e con le direttive dell'autorità ecclesiastica».
È lo stesso principio della Mater et magistra, giova ricordarlo. Ma vogliamo e dobbiamo concludere questo scritto, riferendoci ancora al lamento di uno di questi paragrafi sulla «povertà di fermenti e di accenti cristiani» che «non di rado» sembra caratterizzare «istituzioni dell'ordine temporale» «nelle comunità di tradizione cristiana». Tale povertà è imputata alla frattura «fra la credenza religiosa e l'operare a contenuto temporale» in uomini responsabili «che si ritenevano e si ritengono cristiani»; frattura dovuta anche alla carenza di educazione religiosa nella società laicizzata, depauperata e secolarizzata.
(©L'Osservatore Romano 11 aprile 2013)
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