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martedì 13 agosto 2013

Tomba e morte non l'hanno trattenuta. Giovanni Damasceno per la Dormizione della Madre di Dio (Nin)

Giovanni Damasceno per la Dormizione della Madre di Dio 

Tomba e morte non l'hanno trattenuta

di Manuel Nin

Nella tradizione bizantina la festa della Dormizione della Madre di Dio è il sigillo che chiude l'anno liturgico, così come quella della sua Natività è l'inizio. La nascita e la glorificazione della Madre di Dio sono infatti anche l'inizio e il destino di tutta la Chiesa, di cui Maria è figura (týpos). Nell'ufficiatura mattutina vi è un canone di san Giovanni Damasceno (VII-VIII secolo) dove, a partire dalle odi bibliche che sono alla base del mattutino bizantino, sono sviluppati aspetti del mistero celebrato grazie a una lettura cristologica dei testi veterotestamentari.
L'autore sottolinea come la festa diventi una liturgia: "Adorna di divina gloria, o Vergine, la tua sacra e illustre memoria ha convocato alla festa tutti i fedeli che, preceduti da Maria con danze e timpani, cantano al tuo unigenito: Si è reso grandemente glorioso". Il Damasceno collega la prima ode (Esodo, 15, 1-19) con il transito, vero esodo, di Maria in cielo: "Vergini giovinette, insieme alla profetessa Maria, cantate ora il canto dell'esodo: perché la Vergine, la sola Madre di Dio, è trasferita all'eredità celeste. Accogli da noi il canto per il tuo esodo, o madre del Dio vivente". Qui Giovanni enumera i titoli dati a Maria nella festa e nelle tradizioni cristiane: "Degnamente, come cielo vivente ti hanno accolta, o tutta pura, le divine tende celesti: e tu, nella tua radiosa bellezza, hai preso posto come sposa tutta immacolata presso colui che è re e Dio".
Il transito della Madre di Dio diventa quasi una liturgia che raduna il cielo e la terra, manifestata dall'icona della festa: "Quale sorgente viva e copiosa, o Madre di Dio, rafforza i tuoi cantori, che allestiscono per te una festa spirituale, e nel giorno della tua divina gloria di corone di gloria rendili degni. La folla dei teologi dai confini della terra, la moltitudine degli angeli dall'alto, tutti si affrettavano verso il monte Sion al cenno della divina potenza, per prestare ben doverosamente, o sovrana, il loro servizio alla tua sepoltura. Da tutte le generazioni ti diciamo beata, o Madre di Dio vergine, perché in te si è compiaciuto dimorare il Cristo Dio nostro, che nessuna dimora può ospitare. Beati siamo anche noi, che abbiamo te quale protezione: giorno e notte, infatti, tu intercedi per noi".
Giovanni presenta chiaramente il tema della morte della Madre di Dio. Il suo transito alla vita avviene, come per Cristo stesso, attraverso l'esperienza della morte: "Da te è sorta la vita, senza sciogliere i vincoli della tua verginità. Come ha dunque potuto l'immacolata dimora del tuo corpo, origine di vita, aver parte all'esperienza della morte? Tu che sei stata sacrario della vita hai raggiunto l'eterna vita: attraverso la morte, infatti, sei passata alla vita, tu che hai partorito colui che è la vita. Tomba e morte non hanno trattenuto la Madre di Dio, sempre desta con la sua intercessione. Quale madre della vita, alla vita l'ha trasferita colui che nel suo grembo sempre vergine aveva preso dimora".
Nell'ottava ode Giovanni prende spunto dal cantico dei tre fanciulli (Daniele, 3, 57-88) e ne fa un commento cristologico e mariologico: "Il parto della Madre di Dio, allora prefigurato, ha salvato nella fornace i fanciulli intemerati; ma ora che si è attuato convoca tutta la terra che salmeggia: Celebrate, opere, il Signore, e sovresaltatelo per tutti i secoli". Quasi come il giardino della tomba vuota di Cristo, anche la tomba di Maria diventa un nuovo paradiso: "Oh, le meraviglie della sempre vergine e Madre di Dio! Ha reso paradiso la tomba che ha abitata, e noi oggi attorniandola cantiamo gioiosi". La stessa fornace di Babilonia è figura del grembo di Maria: "Il potentissimo angelo di Dio mostrò ai fanciulli come la fiamma irrorasse di rugiada i santi e bruciasse invece gli empi; e così ha reso la Madre di Dio fonte vivificante dalla quale insieme zampillano la distruzione della morte e la vita per quanti cantano: Noi redenti celebriamo l'unico creatore, e lo sovresaltiamo per tutti i secoli".

(©L'Osservatore Romano 14 agosto 2013)

venerdì 28 giugno 2013

Pietro e Paolo nella poesia di Romano il Melodo (Nin)

Pietro e Paolo nella poesia di Romano il Melodo

Io vinco per mezzo dei deboli

di Manuel Nin

Nell'ufficiatura bizantina per la festa dei santi apostoli Pietro e Paolo VI sono due tropari al mattutino tratti da un kontàkion (poema liturgico) in ventiquattro strofe di Romano il Melodo (vi secolo) che presenta con belle immagini la figura dell'apostolo cristiano. Uno dei due poi si canta anche ogni giovedì, giorno in cui si commemorano in modo speciale gli apostoli: «Gli araldi sicuri, che fanno risuonare voci divine, i corifei tra i tuoi discepoli, Signore, tu li hai accolti a godere dei tuoi beni, nel riposo: perché le loro fatiche e la loro morte più di ogni olocausto ti sono state accette, tu che solo conosci i segreti del cuore».
Già all'inizio Romano presenta i Dodici come coloro che sono fedeli all'insegnamento di Cristo e adempiono nelle loro vite quello che insegnano. Diverse sono le immagini adoperate dall'innografo per dipingere quasi un'icona dell'apostolo di Cristo: «Il gruppo di tutti gli apostoli riempì del suo profumo tutta la terra. Essi sono i tralci della vite che è Cristo, la piantagione del giardiniere celeste, pescatori prima di Cristo e dopo di lui. Essi che avevano consuetudine con l'acqua salata [del mare] ora proferiscono dolci parole» (cfr. Salmi, 44, 2).
È il Cristo risorto colui che dà forza e coraggio ai Dodici, parlando a ognuno di essi, a cominciare da Pietro. In primo luogo il Signore stesso deve essere il modello nel suo insegnamento e soprattutto nella sua compassione: «Andate dunque da tutti i popoli, gettate nella terra il seme del ravvedimento e irroratelo con l'ammaestramento. Nel modo di insegnare, o Pietro, guarda me. Pensando alla tua colpa, abbi compassione per tutti». La debolezza di Pietro di fronte alla donna nella casa del gran sacerdote (cfr. Matteo, 26, 69), deve diventare anche per lui fonte di compassione: «E a motivo di quella donna che ti fece vacillare non essere severo. Se l'orgoglio ti assale, ricorda il canto del gallo, ripensa ai torrenti di lacrime con cui ti lavai, io che solo conosco i segreti del cuore».
Appare qui il tema delle lacrime di pentimento come lavacro di purificazione. Questo tema, sempre collegato alla figura di Pietro, è sviluppato da Romano il Melodo anche in un altro suo kontàkion sulle negazioni di Pietro: «È vinto il misericordioso dalle lacrime di Pietro e a lui manda il perdono. Mentre parla al ladrone, è a Pietro che allude, là sulla croce: Ladrone, amico mio, sta con me oggi, poiché Pietro mi ha abbandonato! Eppure a lui e a te io dischiudo la mia misericordia. Piangendo, o ladrone, mi dici: Ricordati di me! E Pietro grida gemendo: Non abbandonarmi!».
Romano contempla poi la triplice professione dell'amore di Pietro verso il Signore (cfr. Giovanni, 21, 15-17), che diventa amore anche verso coloro che il Signore ama: «Pietro, mi ami? Fa quel che dico: pascola il mio gregge e ama quelli che io amo». Come nella strofa precedente Pietro è spronato da Cristo stesso a essere misericordioso: «Abbi compassione dei peccatori, memore della mia misericordia verso di te, poiché io ti ho accolto dopo che per tre volte tu mi avevi rinnegato». E Romano poi riprende la figura del buon ladrone, presentato come custode del paradiso e modello anche per Pietro di peccatore perdonato dal Signore: «Tu hai il ladrone a rincuorarti, il custode del paradiso». Pietro e il ladrone infine diventano mediatori, «portinai» del ritorno di Adamo al paradiso da cui era stato espulso: «Attraverso voi Adamo ritorna a me dicendo: Il Creatore ha posto per me il ladrone a guardia della porta e a guardia delle chiavi Cefa».
Il Signore parla poi personalmente a diversi apostoli: Andrea, Giovanni, Giacomo, Filippo, Tommaso, Matteo; e fermandosi a costui, quasi in un momento di stanchezza, prosegue: «Una parola sola io pronuncio per tutti, per non affaticarmi a istruirvi uno per uno. Ai miei santi una volta per tutte io dico: Non tormentatevi ora nel vostro cuore. Non ragionate come bambini, siate prudenti come i serpenti; nell'immagine del serpente io sono stato innalzato per voi. Non tralasciate la predicazione per le vostre stesse paure! Non voglio vincere con la forza: io vinco per mezzo dei deboli». L'immagine del serpente innalzato nel deserto (cfr. Numeri, 21, 8) porta Romano all'immagine del Cristo innalzato sulla croce (cfr. Giovanni, 3, 14).
Soltanto verso la fine del testo, in un'unica strofa, Romano introduce la figura di Paolo, presentato come apostolo in sostituzione di Giuda, come se Paolo riequilibrasse il tradimento di Giuda: «Aborrite la tristezza e la paura, che conducono molti alla morte, come Giuda. La disperazione intrecciò la corda per il traditore; eppure il demonio fra poco dovrà ripagare Giuda con Paolo di Cilicia, l'ingannatore con l'uomo eccellente».

(©L'Osservatore Romano 29 giugno 2013)

domenica 19 maggio 2013

Il dono dello Spirito Santo nella tradizione iconografica e liturgica bizantina (Nin)

Il dono dello Spirito Santo nella tradizione iconografica e liturgica bizantina

Grazie a lui tutto il mondo è illuminato

di Manuel Nin

Molto spesso nelle liturgie orientali i testi diventano un commento ai cicli iconografici delle chiese e viceversa le icone ne sono l'espressione visiva. Negli anni Settanta del Novecento l'iconografo padre Michel Berger, allora officiale della Sacra Congregazione per le Chiese orientali, dipinse l'abside della cappella di San Benedetto nel Pontificio Collegio Greco di Roma, su richiesta del rettore, padre Olivier Raquez, ispirandosi all'affresco absidale della chiesa greca di Santo Stefano di Soleto in Terra d'Otranto, risalente alla fine del XIV secolo. Nella parte superiore è raffigurata in forma antropomorfica la Santa Trinità nella missione dello Spirito Santo, rappresentazione che riprende la pneumatologia dei Padri cappadoci, specialmente san Basilio. Due angeli incensano con due ceri in mano e sotto la Madre di Dio prega con gli apostoli il giorno di Pentecoste. Nel mattutino dell'ufficiatura bizantina della festa, due testi sembrano commentare l'icona: «O Spirito Santissimo che procedi dal Padre e tramite il Figlio ti sei fatto presente nei discepoli illetterati, salva quanti ti riconoscono come Dio e santifica tutti» dice il primo. Il secondo esprime la lode: «Luce è il Padre, luce il Verbo, luce il santo Spirito, che è stato mandato sugli apostoli in lingue di fuoco: grazie a lui tutto il mondo è illuminato per render culto alla Trinità santa». Il dono dello Spirito Santo è visto come colui che porta la Chiesa e ogni fedele a lodare e confessare la Trinità.
Diversi tropari dell'ufficiatura contemplano la Madre di Dio nel mistero dell'incarnazione del Verbo di Dio, il quale dopo la sua ascensione in cielo, seduto alla destra del Padre, manderà sulla Chiesa il dono dello Spirito Santo: «Senza sperimentare corruzione hai concepito e hai prestato la carne al Verbo, artefice dell'universo, o madre ignara d'uomo, o vergine Madre di Dio, ricettacolo di colui che non può essere contenuto, dimora del tuo immenso creatore: noi ti magnifichiamo. È giusto cantare la Vergine che genera; essa sola infatti ha portato, celato nelle proprie viscere, il Verbo che guarisce la natura inferma dei mortali, e che ora, assiso alla destra paterna, ha mandato la grazia dello Spirito». Come si vede, il testo si serve di un linguaggio cristologico audace -- «hai prestato la carne» -- per parlare dell'incarnazione.
Gesù promette lo Spirito Santo ai discepoli, e per questo parecchi testi sottolineano il legame stretto tra Ascensione e Pentecoste: «Disse l'augusta e venerabile bocca: Non soffrirete per la mia assenza, voi, miei amici; assiso infatti insieme al Padre sull'eccelso trono, effonderò la generosa grazia dello Spirito, perché risplenda su quanti la desiderano. Legge immutabile, il Verbo veracissimo dona tranquillità ai cuori: portata infatti a compimento la sua opera, rallegra gli amici il Cristo, elargendo lo Spirito come aveva promesso, con vento impetuoso e lingue di fuoco».
La Pentecoste è cantata come momento salvifico contrapposto alla dispersione di Babele: «La potenza del divino Spirito, col suo avvento ha divinamente composto in un'unica armonia il linguaggio che un tempo era divenuto molteplice in coloro che si erano uniti per uno scopo malvagio; essa ha ammaestrato i credenti nella scienza della Trinità, dalla quale siamo stati rafforzati».
Infine, la festa è celebrata come momento battesimale. Il dono dello Spirito è infatti illuminazione per gli apostoli e tutti i cristiani: «Ha reso eloquenti gli illetterati, che con una sola loro parola fanno tacere gli oracoli dell'errore e con la folgore dello Spirito sottraggono popoli innumerevoli alla notte profonda. È l'eterno splendore dall'immane potere illuminante procedente dalla luce ingenita quello che ora, mediante il Figlio, dall'essenza del Padre, manifesta con fragore di fuoco il proprio connaturale fulgore alle genti raccolte in Sion». E il costato trafitto di Cristo diventa un battesimo e un dono dello Spirito Santo: «Mescolando alla parola il divino lavacro di rigenerazione per la mia natura composita, tu lo riversi su di me come fiume inondante dal tuo immacolato fianco trafitto, o Verbo di Dio, confermandolo con l'ardore dello Spirito».

(©L'Osservatore Romano 19 maggio 2013)

giovedì 9 maggio 2013

Oggi colmi di gioia colei che ti ha partorito (Manuel Nin)


Oggi colmi di gioia colei che ti ha partorito

di Manuel Nin

I tropari bizantini chiamati theotòkia sono testi che rendono presente la figura della Madre di Dio (theotòkos) nella liturgia del giorno o della festa che si celebra. Sono tropari in cui la figura di Cristo viene messa in luce dalla figura di sua madre. Nella festa dell'Ascensione del Signore il quarantesimo giorno dopo Pasqua, cioè il giovedì della sesta settimana del periodo pasquale, i theotòkia sono soprattutto nell'ufficiatura del mattutino, benché anche nel vespro troviamo la figura della Madre di Dio. In lei il mistero dell'Incarnazione del Verbo di Dio, il suo abbassarsi e il suo discendere, si unisce al mistero della sua Ascensione, il suo salire al Padre con la glorificazione della natura umana assunta appunto da Maria.
La liturgia bizantina nella festa dell'Ascensione mette in rilievo il collegamento tra l'Incarnazione del Signore e la sua Ascensione celebrate come ricreazione della natura umana -- la liturgia bizantina privilegia l'espressione “carne” -- assunta da lui stesso: «Tu che, senza separarti dal seno paterno, o dolcissimo Gesù, hai vissuto sulla terra come uomo, oggi dal Monte degli Ulivi sei asceso nella gloria: e risollevando, compassionevole, la nostra natura caduta, l'hai fatta sedere con te accanto al Padre. Per questo con le celesti schiere degli incorporei, anche noi quaggiù sulla terra, glorificando la tua discesa fra noi e la tua dipartita da noi con l'ascensione, supplici diciamo: O tu che con la tua ascensione hai colmato di gioia infinita i discepoli e la Madre di Dio che ti ha partorito, per le loro preghiere concedi anche a noi la gioia dei tuoi eletti, nella tua grande misericordia». Come se la liturgia di questa festa volesse essere un contrappunto alla liturgia dell'Annunciazione celebrata il 25 marzo.
Molti testi sottolineano la gioia di Maria e degli apostoli, cioè di tutta la Chiesa, per l'Ascensione del Signore. In diversi tropari del mattutino si riprende questo rapporto inscindibile tra Incarnazione e Ascensione: «Il Dio che è prima dei secoli e senza principio, dopo aver misticamente divinizzata la natura umana da lui assunta, è oggi asceso al cielo. Disceso dal cielo alle regioni terrestri, hai risuscitato con te, poiché sei Dio, la natura umana che giaceva in basso, nel carcere dell'Ade, e con la tua ascensione, o Cristo, l'hai fatta salire ai cieli, rendendola con te partecipe del trono del Padre tuo».
L'Incarnazione è anche contemplata come un rivestirsi da parte del Verbo di Dio della natura umana -- la liturgia adopera la formula «rivestirsi di Adamo» -- per portarla nell'Ascensione alla sua piena glorificazione presso il Padre: «Dopo aver cercato Adamo che si era smarrito per l'inganno del serpente, o Cristo, di lui rivestito sei asceso al cielo e ti sei assiso alla destra del Padre, partecipe del suo trono. O Cristo, quale propiziazione e salvezza, dalla Vergine, o sovrano, su noi sei rifulso, per liberare dalla corruzione l'intera persona di Adamo, caduto con tutta la sua stirpe, così come liberasti il profeta Giona dal ventre del mostro marino». A rappresentare tutta la stirpe umana è Adamo presentato come pecora smarrita, Adamo ricercato, trovato e riportato nel paradiso.
La figura della Madre di Dio nella festa dell'Ascensione, come nei giorni della Settimana santa, viene presentata sempre con espressioni sia di sofferenza sia di gioia: «Signore, compiuto nella tua bontà il mistero nascosto da secoli e da generazioni, sei andato con i tuoi discepoli al Monte degli Ulivi, insieme a colei che ha partorito te, creatore e artefice dell'universo: bisognava infatti che godesse di immensa gioia per la glorificazione della tua carne, colei che come madre più di tutti aveva sofferto nella tua passione».
Maria quindi è presente nel mistero dell'Incarnazione e in quello dell'Ascensione del Signore: «Immacolata Madre di Dio, incessantemente intercedi presso il Dio che, senza lasciare il seno del Padre, da te si è incarnato, affinché voglia liberare da ogni sventura coloro che ha plasmato. Hai generato il sovrano di tutti, o sovrana tutta immacolata, colui che ha accettato la volontaria passione ed è quindi salito al Padre suo, che mai aveva abbandonato, pur avendo assunto la carne».
E uno dei tropari fa un bel paragone tra il grembo di Maria, riempito nell'Incarnazione dal Signore stesso, e il grembo dell'Ade svuotato dallo stesso Signore nella sua risurrezione: «Beato il tuo ventre, o tutta immacolata, perché inesplicabilmente è stato degno di contenere colui che prodigiosamente ha svuotato il ventre dell'Ade: supplicalo di salvare noi che a te inneggiamo». La presenza di Maria sia nell'icona sia nei testi dell'Ascensione del Signore conferma la professione di fede nel Verbo di Dio incarnato, vero Dio e vero uomo: «Cristo, che ti ha custodita vergine dopo il parto, ascende, o Madre di Dio, al Padre che mai ha lasciato, anche se ha da te assunto una carne dotata di anima e intelletto, per ineffabile misericordia».

(©L'Osservatore Romano 9 maggio 2013)