Grazie al lavoro della nostra Gemma vediamo questo secondo video (il primo è disponibile qui) dedicato al Viaggio Apostolico di Benedetto XVI in Libano.
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sabato 31 agosto 2013
Libano, le immagini più significative del viaggio di Benedetto XVI (video 1)
Grazie al lavoro della nostra Gemma rivediamo queste immagini quanto mai significative. Il secondo video e' disponibile qui.
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venerdì 30 agosto 2013
I bambini cantano per Papa Benedetto XVI ad Arezzo la Laude alla Madonna di Petrarca (Cantuale Antonianum)
Clicca qui per visionare il video e reggere il commento segnalatici da Alessia.
Il fanatismo al potere (Ferrara)
Clicca qui per leggere l'articolo segnalatoci da Fabiola, Alessia e Eufemia.
Condivisibile anche se io ricordo bene certi articoli e certe trasmissioni sulle eventuali (poi avvenute) dimissioni di Benedetto XVI.
Condivisibile anche se io ricordo bene certi articoli e certe trasmissioni sulle eventuali (poi avvenute) dimissioni di Benedetto XVI.
L’abracadabra del politicamente corretto (Meotti)
Clicca qui per leggere l'articolo.
giovedì 29 agosto 2013
Legge sull'omofobia: il dibattito introduttivo alla Camera (Rusconi)
Clicca qui per leggere il commento.
mercoledì 28 agosto 2013
Benedetto XVI: l'Enciclica Deus caritas est, soprattutto la sua prima parte, è largamente debitrice al pensiero di sant'Agostino, che è stato un innamorato dell'Amore di Dio, e lo ha cantato, meditato, predicato in tutti i suoi scritti, e soprattutto testimoniato nel suo ministero pastorale
Clicca qui per leggere il bellissimo testo dell'omelia tenuta da Benedetto XVI a Pavia.
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Nei nuovi sermoni di Erfurt sant'Agostino parla dell'attenzione verso chi ha bisogno
Nei nuovi sermoni di Erfurt sant'Agostino parla dell'attenzione verso chi ha bisogno
Il vero frutto della fede
Ma la prima forma di misericordia è quella verso se stessi
Il frutto della fede è fare del bene a chi ha bisogno, perché è una fede infruttuosa credere in Dio in modo tale da trascurare le opere di misericordia. Infatti, come è inutile coltivare con cura una pianta sterile, innaffiare una pietra dura e arare la secchezza della sabbia, così, per un uomo che non vuole prestare ciò che è buono, non giova a nulla non negare ciò che è vero. Giustamente sta scritto che la fede senza le opere è morta in se stessa, per cui quelli che hanno una fede del genere sono anche paragonati ai demoni; infatti, a certuni che si vantano della fede e si tengono lontani dalle buone opere, così dice l'apostolo Giacomo: «Tu credi che c'è un solo Dio? Fai bene. Anche i demoni lo credono e tremano!». Appare così che non c'è nessuna differenza tra il timore di un demonio sofferente e la grazia di un uomo credente, se non il fatto che le azioni del primo sono cattive, quelle del secondo buone, benché entrambe le cose procedano dallo stesso credere, come dalla stessa acqua pullulano sia spine appuntite sia grappoli d'uva.
La prima forma di misericordia dell'uomo credente, inoltre, è quella rivolta a se stesso; è questa che la Scrittura comanda dicendo: «Abbi misericordia della tua anima, piacendo a Dio». Di qui la misericordia, crescendo, si estende al prossimo, in modo tale che sia adempiuto il precetto: «Amerai il prossimo tuo come te stesso». Dunque la vera misericordia che si spende per il prossimo va spesa a questo fine, che anche il prossimo piaccia a Dio: è a questo fine che il prossimo va chiamato, esortato, educato e istruito. Difatti anche le stesse elemosine che si offrono per le necessità corporali e per la vita temporale vanno fatte con il proposito e l'intenzione di far sì che coloro a cui sono fatte amino quel Dio per dono del quale sono fatte.
Questo ce lo ricorda anche il Signore dicendo: «Risplendano le vostre opere buone davanti agli uomini, perché vedano le vostre buone azioni e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli». L'uomo di Dio, dunque, «vaso santificato in onore, utile al Signore, pronto per ogni opera buona», tutto ciò che fa nella sua vita non è se non un'opera di misericordia, o verso se stesso o verso il prossimo. Ed è misericordioso verso se stesso, come abbiamo ricordato sopra, quando piace a Dio; e piace a Dio quando, nel bene che fa, Dio gli piace e, nel male che subisce, Dio non gli dispiace.
Difatti anche l'Apostolo, dopo aver detto, parlando delle sue buone opere: «Ho faticato più di tutti loro, subito ha aggiunto: non io però, ma la grazia di Dio che è con me». E Giobbe, durante la sua tentazione e tribolazione, disse: «Come è piaciuto al Signore, così è avvenuto. Sia benedetto il nome del Signore».
Verso il prossimo, invece, l'uomo di Dio è misericordioso quando fa tutto il possibile affinché anche il prossimo, come lui, possa gustare fino in fondo la dolcezza di piacere a Dio.
Mi ero proposto di parlare delle opere di misericordia, e per questo può già sembrare a qualcuno che io mi sia scostato da questo argomento e mi sia diretto verso un altro, dato che non dico: «Spezza il tuo pane con l'affamato; introduci in casa tua il misero e senza tetto; se vedi uno nudo, vestilo», e così via. Queste opere sono reputate e chiamate elemosine quasi in senso proprio, come se esse sole appartenessero alle opere di misericordia; esse vi appartengono certamente, ma non esse sole, al punto tale che sono anzi le più piccole, a meno che gli uomini non siano così insensati da ritenere che coloro che offrivano agli apostoli beni materiali da raccogliere siano stati più misericordiosi degli apostoli stessi, che seminavano beni spirituali. Sia ben lungi dal credere una cosa del genere chi ascolta con intelligenza le parole dell'Apostolo che dice: «Se noi abbiamo seminato per voi beni spirituali, è forse gran cosa se raccoglieremo i vostri beni materiali?».
Nel seminare poi i beni spirituali, guarda quale dispensatore egli si mostri lì dove dice: «Così, affezionati a voi, ci sembra bene farvi partecipi non solo del vangelo di Dio, ma anche delle anime nostre», e in un altro luogo: «Per conto mio ben volentieri mi prodigherò», dice, «anzi spenderò me stesso per le vostre anime».
Metti adesso a confronto chi spezza il suo pane con l'affamato e chi rende partecipe della sua anima il credente, metti a confronto chi per la vita temporale del bisognoso spende oro e chi per la vita eterna del fratello spende se stesso. Se giustamente è misericordioso, ed è detto e considerato tale, chi introduce nella sua casa lo straniero che ha bisogno di un tetto, e gli mette a disposizione una tavola per rifocillarlo e un letto per farlo riposare, quanto più misericordioso si scopre essere chi, richiamando colui che va errando per le vie dell'iniquità e prendendolo con sé, lo fa entrare nella casa di Dio e lo incorpora alle membra di Cristo, dove lo ristori la refezione della giustizia e lo rilassi la remissione dei peccati!
Queste opere di misericordia, le quali fanno sì che si piaccia a Dio, sono così tanto anteposte, dalla verace legge della sapienza, a quelle opere con le quali si fornisce il sostentamento necessario al bisogno materiale, che sovente, quanto più prudentemente si compiono le prime, tanto più misericordiosamente si tolgono le seconde. Difatti l'uomo che è misericordioso prima di tutto verso se stesso, memore del precetto divino che dice: «Abbi misericordia della tua anima, piacendo a Dio», per piacere a Dio spesso digiuna e, quando gli si ordina di amare il prossimo come se stesso, dà il pane al prossimo che ha fame e lo nega a se stesso, trattando duramente, s'intende, il proprio corpo e riducendolo in schiavitù, per non essere trovato falso proprio lui, che predica agli altri. (...) Quella misericordia, dunque, in virtù della quale spendiamo le nostre fatiche per piacere a Dio, proprio essa è in qualche modo cardinale. Tutte le altre azioni che si compiono misericordiosamente sono fatte rettamente, se non si allontanano mai dalla contemplazione di questa.
(©L'Osservatore Romano 28 agosto 2013)
Fai del bene a chi ti odia
C'è chi pensa che le elemosine si debbano fare soltanto ai giusti, e che invece ai peccatori non sia opportuno dare nulla del genere. In questo errore il primo posto per empietà lo occupano i manichei, i quali credono che in qualunque alimento siano trattenute delle membra di Dio, mescolate e legate insieme al cibo; essi sono del parere che di tali membra si debba avere riguardo, perché non siano contaminate dai peccatori e non vengano inviluppate con nodi più infelici. Questa follia forse non merita neppure di essere respinta, tanto essa offende l'intelligenza di tutte le persone sane di mente al solo venir esposta. Alcuni, invece, che non hanno affatto una tale opinione, pensano che non si debba dar da mangiare ai peccatori perché non accada che tentiamo di metterci contro Dio, il cui sdegno sopra di loro si mostra chiaramente, come se Egli potesse adirarsi anche con noi per il fatto che vogliamo soccorrere coloro che Lui vuole punire. Citano anche la testimonianza delle Sante Scritture, dove leggiamo: «Usa misericordia e non accogliere il peccatore, e verso empi e peccatori compi vendetta»; «Fa' del bene all'umile e non donare all'empio, perché anche l'Altissimo ha in odio i peccatori e verso gli empi compie vendetta». Non capendo come queste parole debbano essere intese, si rivestono di una detestabile crudeltà.
Perciò è opportuno che su questo argomento, fratelli, ci rivolgiamo con poche parole alla vostra carità, perché non succeda che voi, quando a causa di un aberrante modo di pensare non capite la volontà divina espressa nei Libri divini, acconsentiate alla malvagità umana. L'apostolo Paolo, infatti, insegnando con la massima chiarezza che a tutti va concessa misericordia, dice: «Quando ne abbiamo l'occasione, pertanto, operiamo il bene verso tutti infaticabilmente, soprattutto verso i fratelli nella fede». A dir il vero, da ciò risulta chiaro che nelle opere di questo genere bisogna preferire i giusti. Quali altre persone dovremmo infatti intendere per «fratelli nella fede», essendo stato affermato chiaramente in un altro luogo che «Il giusto vive per fede?». Le viscere di misericordia non vanno però chiuse agli altri uomini, anche se peccatori, neppure nel caso in cui essi abbiano verso di noi un animo ostile, come ci dice e ci ammonisce il nostro Salvatore stesso: «Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano».
E ciò non è stato passato sotto silenzio nei libri dell'Antico Testamento; lì infatti si legge: «Se il tuo nemico avrà fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere», e di questa testimonianza anche l'Apostolo ha fatto uso. Non per questo, però, sono false le parole che abbiamo citato sopra, perché anch'esse sono precetti divini: «Usa misericordia e non accogliere il peccatore». Quelle parole, infatti, sono state dette perché a nessun peccatore tu faccia del bene proprio in quanto è un peccatore, ma tu faccia del bene a chi ti odia, non in quanto è un peccatore, ma in quanto è un uomo. Così osserverai entrambi i precetti, senza essere lassista rispetto al vendicare né disumano rispetto al soccorrere. Chiunque infatti accusa giustamente un peccatore, che cos'altro vuole, se non che quello non sia un peccatore? Egli dunque odia in quello ciò che anche Dio odia, perché sia distrutto ciò che ha fatto l'uomo e sia liberato ciò che ha fatto Dio. Il peccato, infatti, l'ha fatto l'uomo, mentre l'uomo stesso l'ha fatto Dio. E quando diciamo questi due termini, “uomo” “peccatore”, essi non vengono affatto detti inutilmente. In quanto infatti è un peccatore, ammoniscilo, e in quanto è un uomo, abbine misericordia. E non libererai assolutamente l'uomo, se non l'avrai perseguito in quanto peccatore.
A questo dovere attende ogni disciplina, così com'è adatta e appropriata ad ognuno che sia dotato di responsabilità di governo: non solo al vescovo che governa il suo popolo, ma anche al povero che governa la sua casa, al ricco che governa la sua servitù, al marito che governa sua moglie, al padre che governa i suoi figli, al giudice che governa la sua provincia, al re che governa la sua nazione. Tutti costoro, quando sono buoni, vogliono senz'altro bene a quelli che essi governano e, secondo il potere loro «concesso dal Signore di tutti quanti, il quale governa anche i governanti», fanno in modo che i loro stessi governati si conservino come uomini e periscano come peccatori. Così essi adempiono ciò che sta scritto: «Usa misericordia e non accogliere il peccatore», per non volere che in lui resti salvo il fatto che è un peccatore, «e verso empi e peccatori compi vendetta», perché il fatto stesso che sono peccatori ed empi sia cancellato in loro; «fa' del bene all'umile», per la ragione che è umile, «e non donare all'empio», per la ragione che è empio, «perché anche l'Altissimo ha in odio i peccatori e verso gli empi compie vendetta»; l'Altissimo, tuttavia, poiché quelli non sono solo peccatori ed empi, ma anche uomini, «fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». Così, a nessun uomo va chiusa la propria misericordia, a nessun peccato va aperta l'impunità.
Bisogna capire come non sia da disprezzare l'elemosina che si fa a qualsiasi povero per ragioni di umanità, dal momento che il Signore alleviava l'indigenza dei poveri attingendo a quella cassa che riempiva con le ricchezze altrui. E se per caso uno dicesse che non erano peccatori né quegli invalidi e quei mendicanti che il Signore ordinò di invitare, né quelli ai quali egli era solito elargire denaro prelevandolo dalla cassa, e che pertanto dalle testimonianze evangeliche non segue che venga ordinato ai misericordiosi di accogliere o nutrire anche i peccatori, ebbene, costui faccia attenzione a quanto ho già menzionato più sopra, perché sono senz'altro peccatori e massimamente scellerati coloro che odiano e perseguitano la Chiesa, e tuttavia in riferimento ad essi si dice: «Fate del bene a quelli che vi odiano», e lo si conferma con l'esempio di Dio Padre «che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». Non accogliamo dunque i peccatori per il motivo che sono peccatori, ma trattiamo tuttavia anch'essi umanamente, perché essi sono anche uomini.
(©L'Osservatore Romano 28 agosto 2013)
Il vero frutto della fede
Ma la prima forma di misericordia è quella verso se stessi
Il frutto della fede è fare del bene a chi ha bisogno, perché è una fede infruttuosa credere in Dio in modo tale da trascurare le opere di misericordia. Infatti, come è inutile coltivare con cura una pianta sterile, innaffiare una pietra dura e arare la secchezza della sabbia, così, per un uomo che non vuole prestare ciò che è buono, non giova a nulla non negare ciò che è vero. Giustamente sta scritto che la fede senza le opere è morta in se stessa, per cui quelli che hanno una fede del genere sono anche paragonati ai demoni; infatti, a certuni che si vantano della fede e si tengono lontani dalle buone opere, così dice l'apostolo Giacomo: «Tu credi che c'è un solo Dio? Fai bene. Anche i demoni lo credono e tremano!». Appare così che non c'è nessuna differenza tra il timore di un demonio sofferente e la grazia di un uomo credente, se non il fatto che le azioni del primo sono cattive, quelle del secondo buone, benché entrambe le cose procedano dallo stesso credere, come dalla stessa acqua pullulano sia spine appuntite sia grappoli d'uva.
La prima forma di misericordia dell'uomo credente, inoltre, è quella rivolta a se stesso; è questa che la Scrittura comanda dicendo: «Abbi misericordia della tua anima, piacendo a Dio». Di qui la misericordia, crescendo, si estende al prossimo, in modo tale che sia adempiuto il precetto: «Amerai il prossimo tuo come te stesso». Dunque la vera misericordia che si spende per il prossimo va spesa a questo fine, che anche il prossimo piaccia a Dio: è a questo fine che il prossimo va chiamato, esortato, educato e istruito. Difatti anche le stesse elemosine che si offrono per le necessità corporali e per la vita temporale vanno fatte con il proposito e l'intenzione di far sì che coloro a cui sono fatte amino quel Dio per dono del quale sono fatte.
Questo ce lo ricorda anche il Signore dicendo: «Risplendano le vostre opere buone davanti agli uomini, perché vedano le vostre buone azioni e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli». L'uomo di Dio, dunque, «vaso santificato in onore, utile al Signore, pronto per ogni opera buona», tutto ciò che fa nella sua vita non è se non un'opera di misericordia, o verso se stesso o verso il prossimo. Ed è misericordioso verso se stesso, come abbiamo ricordato sopra, quando piace a Dio; e piace a Dio quando, nel bene che fa, Dio gli piace e, nel male che subisce, Dio non gli dispiace.
Difatti anche l'Apostolo, dopo aver detto, parlando delle sue buone opere: «Ho faticato più di tutti loro, subito ha aggiunto: non io però, ma la grazia di Dio che è con me». E Giobbe, durante la sua tentazione e tribolazione, disse: «Come è piaciuto al Signore, così è avvenuto. Sia benedetto il nome del Signore».
Verso il prossimo, invece, l'uomo di Dio è misericordioso quando fa tutto il possibile affinché anche il prossimo, come lui, possa gustare fino in fondo la dolcezza di piacere a Dio.
Mi ero proposto di parlare delle opere di misericordia, e per questo può già sembrare a qualcuno che io mi sia scostato da questo argomento e mi sia diretto verso un altro, dato che non dico: «Spezza il tuo pane con l'affamato; introduci in casa tua il misero e senza tetto; se vedi uno nudo, vestilo», e così via. Queste opere sono reputate e chiamate elemosine quasi in senso proprio, come se esse sole appartenessero alle opere di misericordia; esse vi appartengono certamente, ma non esse sole, al punto tale che sono anzi le più piccole, a meno che gli uomini non siano così insensati da ritenere che coloro che offrivano agli apostoli beni materiali da raccogliere siano stati più misericordiosi degli apostoli stessi, che seminavano beni spirituali. Sia ben lungi dal credere una cosa del genere chi ascolta con intelligenza le parole dell'Apostolo che dice: «Se noi abbiamo seminato per voi beni spirituali, è forse gran cosa se raccoglieremo i vostri beni materiali?».
Nel seminare poi i beni spirituali, guarda quale dispensatore egli si mostri lì dove dice: «Così, affezionati a voi, ci sembra bene farvi partecipi non solo del vangelo di Dio, ma anche delle anime nostre», e in un altro luogo: «Per conto mio ben volentieri mi prodigherò», dice, «anzi spenderò me stesso per le vostre anime».
Metti adesso a confronto chi spezza il suo pane con l'affamato e chi rende partecipe della sua anima il credente, metti a confronto chi per la vita temporale del bisognoso spende oro e chi per la vita eterna del fratello spende se stesso. Se giustamente è misericordioso, ed è detto e considerato tale, chi introduce nella sua casa lo straniero che ha bisogno di un tetto, e gli mette a disposizione una tavola per rifocillarlo e un letto per farlo riposare, quanto più misericordioso si scopre essere chi, richiamando colui che va errando per le vie dell'iniquità e prendendolo con sé, lo fa entrare nella casa di Dio e lo incorpora alle membra di Cristo, dove lo ristori la refezione della giustizia e lo rilassi la remissione dei peccati!
Queste opere di misericordia, le quali fanno sì che si piaccia a Dio, sono così tanto anteposte, dalla verace legge della sapienza, a quelle opere con le quali si fornisce il sostentamento necessario al bisogno materiale, che sovente, quanto più prudentemente si compiono le prime, tanto più misericordiosamente si tolgono le seconde. Difatti l'uomo che è misericordioso prima di tutto verso se stesso, memore del precetto divino che dice: «Abbi misericordia della tua anima, piacendo a Dio», per piacere a Dio spesso digiuna e, quando gli si ordina di amare il prossimo come se stesso, dà il pane al prossimo che ha fame e lo nega a se stesso, trattando duramente, s'intende, il proprio corpo e riducendolo in schiavitù, per non essere trovato falso proprio lui, che predica agli altri. (...) Quella misericordia, dunque, in virtù della quale spendiamo le nostre fatiche per piacere a Dio, proprio essa è in qualche modo cardinale. Tutte le altre azioni che si compiono misericordiosamente sono fatte rettamente, se non si allontanano mai dalla contemplazione di questa.
(©L'Osservatore Romano 28 agosto 2013)
Fai del bene a chi ti odia
C'è chi pensa che le elemosine si debbano fare soltanto ai giusti, e che invece ai peccatori non sia opportuno dare nulla del genere. In questo errore il primo posto per empietà lo occupano i manichei, i quali credono che in qualunque alimento siano trattenute delle membra di Dio, mescolate e legate insieme al cibo; essi sono del parere che di tali membra si debba avere riguardo, perché non siano contaminate dai peccatori e non vengano inviluppate con nodi più infelici. Questa follia forse non merita neppure di essere respinta, tanto essa offende l'intelligenza di tutte le persone sane di mente al solo venir esposta. Alcuni, invece, che non hanno affatto una tale opinione, pensano che non si debba dar da mangiare ai peccatori perché non accada che tentiamo di metterci contro Dio, il cui sdegno sopra di loro si mostra chiaramente, come se Egli potesse adirarsi anche con noi per il fatto che vogliamo soccorrere coloro che Lui vuole punire. Citano anche la testimonianza delle Sante Scritture, dove leggiamo: «Usa misericordia e non accogliere il peccatore, e verso empi e peccatori compi vendetta»; «Fa' del bene all'umile e non donare all'empio, perché anche l'Altissimo ha in odio i peccatori e verso gli empi compie vendetta». Non capendo come queste parole debbano essere intese, si rivestono di una detestabile crudeltà.
Perciò è opportuno che su questo argomento, fratelli, ci rivolgiamo con poche parole alla vostra carità, perché non succeda che voi, quando a causa di un aberrante modo di pensare non capite la volontà divina espressa nei Libri divini, acconsentiate alla malvagità umana. L'apostolo Paolo, infatti, insegnando con la massima chiarezza che a tutti va concessa misericordia, dice: «Quando ne abbiamo l'occasione, pertanto, operiamo il bene verso tutti infaticabilmente, soprattutto verso i fratelli nella fede». A dir il vero, da ciò risulta chiaro che nelle opere di questo genere bisogna preferire i giusti. Quali altre persone dovremmo infatti intendere per «fratelli nella fede», essendo stato affermato chiaramente in un altro luogo che «Il giusto vive per fede?». Le viscere di misericordia non vanno però chiuse agli altri uomini, anche se peccatori, neppure nel caso in cui essi abbiano verso di noi un animo ostile, come ci dice e ci ammonisce il nostro Salvatore stesso: «Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano».
E ciò non è stato passato sotto silenzio nei libri dell'Antico Testamento; lì infatti si legge: «Se il tuo nemico avrà fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere», e di questa testimonianza anche l'Apostolo ha fatto uso. Non per questo, però, sono false le parole che abbiamo citato sopra, perché anch'esse sono precetti divini: «Usa misericordia e non accogliere il peccatore». Quelle parole, infatti, sono state dette perché a nessun peccatore tu faccia del bene proprio in quanto è un peccatore, ma tu faccia del bene a chi ti odia, non in quanto è un peccatore, ma in quanto è un uomo. Così osserverai entrambi i precetti, senza essere lassista rispetto al vendicare né disumano rispetto al soccorrere. Chiunque infatti accusa giustamente un peccatore, che cos'altro vuole, se non che quello non sia un peccatore? Egli dunque odia in quello ciò che anche Dio odia, perché sia distrutto ciò che ha fatto l'uomo e sia liberato ciò che ha fatto Dio. Il peccato, infatti, l'ha fatto l'uomo, mentre l'uomo stesso l'ha fatto Dio. E quando diciamo questi due termini, “uomo” “peccatore”, essi non vengono affatto detti inutilmente. In quanto infatti è un peccatore, ammoniscilo, e in quanto è un uomo, abbine misericordia. E non libererai assolutamente l'uomo, se non l'avrai perseguito in quanto peccatore.
A questo dovere attende ogni disciplina, così com'è adatta e appropriata ad ognuno che sia dotato di responsabilità di governo: non solo al vescovo che governa il suo popolo, ma anche al povero che governa la sua casa, al ricco che governa la sua servitù, al marito che governa sua moglie, al padre che governa i suoi figli, al giudice che governa la sua provincia, al re che governa la sua nazione. Tutti costoro, quando sono buoni, vogliono senz'altro bene a quelli che essi governano e, secondo il potere loro «concesso dal Signore di tutti quanti, il quale governa anche i governanti», fanno in modo che i loro stessi governati si conservino come uomini e periscano come peccatori. Così essi adempiono ciò che sta scritto: «Usa misericordia e non accogliere il peccatore», per non volere che in lui resti salvo il fatto che è un peccatore, «e verso empi e peccatori compi vendetta», perché il fatto stesso che sono peccatori ed empi sia cancellato in loro; «fa' del bene all'umile», per la ragione che è umile, «e non donare all'empio», per la ragione che è empio, «perché anche l'Altissimo ha in odio i peccatori e verso gli empi compie vendetta»; l'Altissimo, tuttavia, poiché quelli non sono solo peccatori ed empi, ma anche uomini, «fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». Così, a nessun uomo va chiusa la propria misericordia, a nessun peccato va aperta l'impunità.
Bisogna capire come non sia da disprezzare l'elemosina che si fa a qualsiasi povero per ragioni di umanità, dal momento che il Signore alleviava l'indigenza dei poveri attingendo a quella cassa che riempiva con le ricchezze altrui. E se per caso uno dicesse che non erano peccatori né quegli invalidi e quei mendicanti che il Signore ordinò di invitare, né quelli ai quali egli era solito elargire denaro prelevandolo dalla cassa, e che pertanto dalle testimonianze evangeliche non segue che venga ordinato ai misericordiosi di accogliere o nutrire anche i peccatori, ebbene, costui faccia attenzione a quanto ho già menzionato più sopra, perché sono senz'altro peccatori e massimamente scellerati coloro che odiano e perseguitano la Chiesa, e tuttavia in riferimento ad essi si dice: «Fate del bene a quelli che vi odiano», e lo si conferma con l'esempio di Dio Padre «che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». Non accogliamo dunque i peccatori per il motivo che sono peccatori, ma trattiamo tuttavia anch'essi umanamente, perché essi sono anche uomini.
(©L'Osservatore Romano 28 agosto 2013)
martedì 27 agosto 2013
Benedetto XVI: Il fondamentalismo religioso affligge tutte le comunità religiose, e rifiuta il vivere insieme secolare. Esso vuole prendere il potere, a volte con violenza, sulla coscienza di ciascuno e sulla religione per ragioni politiche. Lancio un accorato appello a tutti i responsabili religiosi ebrei, cristiani e musulmani della regione...
Clicca qui per rileggere un brano quanto mai attuale.
Famiglia e vita. Filo conduttore del Pontificato di Benedetto XVI
Filo conduttore di un pontificato
Dall'aprile 2005 al febbraio 2013 ben 363 sono stati gli interventi di Benedetto XVI dedicati al tema della famiglia e della vita. Lo ricorda padre Gianfranco Grieco, capo ufficio del Pontificio Consiglio per la Famiglia, presentando l'ultimo numero della rivista quadrimestrale del dicastero «Familia et vita» (anno XVII, numero 1-2) dedicato a «La famiglia e la vita nel magistero di Benedetto XVI». L'intento è quello di riproporre e valorizzare il messaggio che su queste tematiche Ratzinger ha voluto offrire durante il suo pontificato: a cominciare dai discorsi pronunciati durante il quinto incontro mondiale delle famiglie, svoltosi a Valencia nel 2006, passando per i videomessaggi inviati ai partecipanti al successivo raduno di Città del Messico, nel 2009, fino ai dodici interventi tenuti durante le giornate milanesi dedicate alla famiglia nel giugno 2012. La rivista offre ai lettori una serie di articoli affidati a specialisti ed esperti del settore, che approfondiscono le indicazioni e gli spunti suggeriti da Benedetto XVI. Tra gli articoli, quelli del cardinale Elio Sgreccia e di monsignor Carlos Simon Vasquez, sottosegretario del Pontificio Consiglio, che si soffermano sui temi della cultura e della pastorale della vita, mentre monsignor Livio Melina si occupa dei fondamenti della teologia morale nelle famiglie e monsignor Charles Joseph Chaput, arcivescovo di Philadelphia -- diocesi nella quale si svolgerà l'ottavo incontro mondiale delle famiglie nel settembre 2015 -- affronta il tema della pastorale familiare. Il vescovo Jean Laffitte, segretario del dicastero, sviluppa poi il tema della sacramentalità dell'amore coniugale, sul quale si registra la significativa testimonianza dei coniugi Maria Carla e Carlo Volpini che parlano della spiritualità degli sposi, e Lucetta Scaraffia riflette invece sul rapporto tra famiglia e mezzi di comunicazione.
(©L'Osservatore Romano 25 agosto 2013)
Dall'aprile 2005 al febbraio 2013 ben 363 sono stati gli interventi di Benedetto XVI dedicati al tema della famiglia e della vita. Lo ricorda padre Gianfranco Grieco, capo ufficio del Pontificio Consiglio per la Famiglia, presentando l'ultimo numero della rivista quadrimestrale del dicastero «Familia et vita» (anno XVII, numero 1-2) dedicato a «La famiglia e la vita nel magistero di Benedetto XVI». L'intento è quello di riproporre e valorizzare il messaggio che su queste tematiche Ratzinger ha voluto offrire durante il suo pontificato: a cominciare dai discorsi pronunciati durante il quinto incontro mondiale delle famiglie, svoltosi a Valencia nel 2006, passando per i videomessaggi inviati ai partecipanti al successivo raduno di Città del Messico, nel 2009, fino ai dodici interventi tenuti durante le giornate milanesi dedicate alla famiglia nel giugno 2012. La rivista offre ai lettori una serie di articoli affidati a specialisti ed esperti del settore, che approfondiscono le indicazioni e gli spunti suggeriti da Benedetto XVI. Tra gli articoli, quelli del cardinale Elio Sgreccia e di monsignor Carlos Simon Vasquez, sottosegretario del Pontificio Consiglio, che si soffermano sui temi della cultura e della pastorale della vita, mentre monsignor Livio Melina si occupa dei fondamenti della teologia morale nelle famiglie e monsignor Charles Joseph Chaput, arcivescovo di Philadelphia -- diocesi nella quale si svolgerà l'ottavo incontro mondiale delle famiglie nel settembre 2015 -- affronta il tema della pastorale familiare. Il vescovo Jean Laffitte, segretario del dicastero, sviluppa poi il tema della sacramentalità dell'amore coniugale, sul quale si registra la significativa testimonianza dei coniugi Maria Carla e Carlo Volpini che parlano della spiritualità degli sposi, e Lucetta Scaraffia riflette invece sul rapporto tra famiglia e mezzi di comunicazione.
(©L'Osservatore Romano 25 agosto 2013)
Il vero medico. I padri della Chiesa e l'azione salvifica di Gesù (Lucio Coco)
I padri della Chiesa e l'azione salvifica di Gesù
Il vero medico
di Lucio Coco
La letteratura patristica ha sempre considerato con grande attenzione il particolare attributo di Gesù di essere medico. La medicina si presta infatti molto bene a giocare sullo scarto semantico tra una cura dei corpi (ìasis) e la salvezza (soterìa) delle anime. Emblematico in tal senso resta l'episodio dei dieci lebbrosi che implorano l'intervento di Gesù (cfr. Luca, 17, 11-19) e che furono tutti purificati e guariti dalla lebbra che li affliggeva, ma uno solo, quello che tornò a ringraziare, fu salvato.
I Padri della Chiesa affrontano con una certa gradazione il discorso dell'azione salvifica di Cristo medico. Innanzitutto, tiene a precisare Cirillo di Gerusalemme, prima di essere colui che salva (sotèr), Gesù è «colui che guarisce (iòmenos); infatti è medico delle anime e dei corpi e il guaritore degli spiriti» (Catechesi, 10, 13). Eusebio di Cesarea, citando un brano dell'Apologia di Kodratos, sottolinea la realtà della pratica medica di Cristo: «Le opere del nostro Salvatore sono sempre presenti perché erano vere. Quelli che ha guarito, quelli che ha risuscitato dai morti, costoro -- i guariti e i risuscitati -- non solo sono stati visti, ma sono anche ancora presenti» (Storia ecclesiastica, iv, 3, 2). E anche Origene ricorda quei medici la cui cura era risultata inefficace che, «vedendo che per mano del maestro la cancrena si fermava, non sono invidiosi e non sono tormentati dalla gelosia, [ma] prorompono in lodi all'indirizzo di questo archiatra e celebrano Dio, che ha inviato a loro e ai malati, un uomo di una così grande scienza» (Omelie su Luca, 13).
In primo luogo quindi la fattualità della medicina di Gesù, vero medico dei corpi, contro la tendenza gnostica al deprezzamento del corpo (cfr. Gervais Dumeige, Le Christ médecin dans la littérature chrétienne des premiers siècles, «Rivista di archeologia cristiana» 48, 1972, pp. 127-128). Accanto a questa azione curativa c'è l'attività terapeutica di Cristo che va a incidere sulle coscienze. Lo stesso Signore ha dimostrato che tale tipo di cura è addirittura più difficile di quella del fisico: «Che cosa è più facile: dire “Ti sono perdonati i tuoi peccati”, oppure dire “Àlzati e cammina”?», domanda Gesù nella circostanza della guarigione di un paralitico (Luca, 5, 23). Proprio per quest'azione sugli spiriti Origene chiama Gesù «medico dell'anima (iatròs psychès)» (Sull'Esodo, PG, 12, 269) e Clemente Alessandrino lo definisce «il terapeuta delle passioni dell'anima» (Il pedagogo, 1, 6, 1), mentre per Agostino «il divino Maestro è anche medico delle coscienze (medicus mentium)» (De civitate Dei, 5, 14).
Altre indicazioni che possano avere delle ricadute benefiche sulla odierna pratica medica si possono ricavare dall'insistenza che i Padri dimostrano nello spiegare che Gesù guarisce entrando nell'umanità, facendosi prossimo dell'uomo. Il modello è sempre quello dell'incarnazione: «[Cristo] si è fatto uomo per noi perché, prendendo parte alle nostre passioni, ne diventasse la medicina (ìasin)», scrive Giustino (Apologia, 2, 12) e sullo stesso registro sono allineati tanti altri autori (cfr. Cipriano, Liber de opere et eleemosynis, 1; Gregorio di Nazianzo, Poesie morali, 1, 2, 38 vv. 140-148; Giovanni Crisostomo, Homiliae in Genesim, 27, 1).
San Pietro Crisologo definisce chiaramente questo parallelismo del medico con Cristo: «Cristo è venuto a prendersi le nostre infermità e a conferirci le sue virtù, a farsi carico dell'umano e a donarci il divino, ad accogliere le ingiurie e a rendere merito, a sopportare il fastidio e a restituire la salute. Il medico infatti che non si fa carico delle malattie non le sa curare e colui che non è malato con il malato non gli può dare la salute» (Sermones, 50). L'azione di Cristo è ancorata alla sym-pàtheia, alla capacità del patire insieme, alla qualità del con-patire. Con la sua venuta Gesù introduce un nuovo contratto terapeutico. Egli invita a incontrarsi sul campo delle affinità: un sano può curare chi non lo è solo se è anch'egli malato con il malato. È l'antica cura che offriva il centauro Chirone alla gente ferita che andava a visitarlo, di essere un curante perché a sua volta ferito. Al di là della metafora, questa sovrapposizione, questa identificazione tra chi cura e chi è curato tende fatalmente ad annullare la distanza tra medico e paziente. Il rapporto si impasta, si fa materia viva della terapia e non è più il freddo appuntamento della “visita”, in cui non c'è affatto compenetrazione di ruoli ma solo clinica osservazione del caso.
La figura del Christus medicus, come si profila nelle parole dei Padri della Chiesa, ci dice dunque che essa è già di per sé cura ed è già guarigione -- che si potrebbe definire spirituale -- anche se il male procede e continua a lavorare e a scavare. Si tratta della guarigione di chi rimane malato, della sanità di colui al quale il male non trova una risoluzione, eppure rimane sanato e guarito lo stesso, perché alle sue ferite si sovrappongono quelle di Cristo e in esse egli trova la sua consolazione perché avverte con più valore quel discrimine di salvezza e di salute che il Salvatore rappresenta per chi ha fede.
(©L'Osservatore Romano 26-27 agosto 2013)
Il vero medico
di Lucio Coco
La letteratura patristica ha sempre considerato con grande attenzione il particolare attributo di Gesù di essere medico. La medicina si presta infatti molto bene a giocare sullo scarto semantico tra una cura dei corpi (ìasis) e la salvezza (soterìa) delle anime. Emblematico in tal senso resta l'episodio dei dieci lebbrosi che implorano l'intervento di Gesù (cfr. Luca, 17, 11-19) e che furono tutti purificati e guariti dalla lebbra che li affliggeva, ma uno solo, quello che tornò a ringraziare, fu salvato.
I Padri della Chiesa affrontano con una certa gradazione il discorso dell'azione salvifica di Cristo medico. Innanzitutto, tiene a precisare Cirillo di Gerusalemme, prima di essere colui che salva (sotèr), Gesù è «colui che guarisce (iòmenos); infatti è medico delle anime e dei corpi e il guaritore degli spiriti» (Catechesi, 10, 13). Eusebio di Cesarea, citando un brano dell'Apologia di Kodratos, sottolinea la realtà della pratica medica di Cristo: «Le opere del nostro Salvatore sono sempre presenti perché erano vere. Quelli che ha guarito, quelli che ha risuscitato dai morti, costoro -- i guariti e i risuscitati -- non solo sono stati visti, ma sono anche ancora presenti» (Storia ecclesiastica, iv, 3, 2). E anche Origene ricorda quei medici la cui cura era risultata inefficace che, «vedendo che per mano del maestro la cancrena si fermava, non sono invidiosi e non sono tormentati dalla gelosia, [ma] prorompono in lodi all'indirizzo di questo archiatra e celebrano Dio, che ha inviato a loro e ai malati, un uomo di una così grande scienza» (Omelie su Luca, 13).
In primo luogo quindi la fattualità della medicina di Gesù, vero medico dei corpi, contro la tendenza gnostica al deprezzamento del corpo (cfr. Gervais Dumeige, Le Christ médecin dans la littérature chrétienne des premiers siècles, «Rivista di archeologia cristiana» 48, 1972, pp. 127-128). Accanto a questa azione curativa c'è l'attività terapeutica di Cristo che va a incidere sulle coscienze. Lo stesso Signore ha dimostrato che tale tipo di cura è addirittura più difficile di quella del fisico: «Che cosa è più facile: dire “Ti sono perdonati i tuoi peccati”, oppure dire “Àlzati e cammina”?», domanda Gesù nella circostanza della guarigione di un paralitico (Luca, 5, 23). Proprio per quest'azione sugli spiriti Origene chiama Gesù «medico dell'anima (iatròs psychès)» (Sull'Esodo, PG, 12, 269) e Clemente Alessandrino lo definisce «il terapeuta delle passioni dell'anima» (Il pedagogo, 1, 6, 1), mentre per Agostino «il divino Maestro è anche medico delle coscienze (medicus mentium)» (De civitate Dei, 5, 14).
Altre indicazioni che possano avere delle ricadute benefiche sulla odierna pratica medica si possono ricavare dall'insistenza che i Padri dimostrano nello spiegare che Gesù guarisce entrando nell'umanità, facendosi prossimo dell'uomo. Il modello è sempre quello dell'incarnazione: «[Cristo] si è fatto uomo per noi perché, prendendo parte alle nostre passioni, ne diventasse la medicina (ìasin)», scrive Giustino (Apologia, 2, 12) e sullo stesso registro sono allineati tanti altri autori (cfr. Cipriano, Liber de opere et eleemosynis, 1; Gregorio di Nazianzo, Poesie morali, 1, 2, 38 vv. 140-148; Giovanni Crisostomo, Homiliae in Genesim, 27, 1).
San Pietro Crisologo definisce chiaramente questo parallelismo del medico con Cristo: «Cristo è venuto a prendersi le nostre infermità e a conferirci le sue virtù, a farsi carico dell'umano e a donarci il divino, ad accogliere le ingiurie e a rendere merito, a sopportare il fastidio e a restituire la salute. Il medico infatti che non si fa carico delle malattie non le sa curare e colui che non è malato con il malato non gli può dare la salute» (Sermones, 50). L'azione di Cristo è ancorata alla sym-pàtheia, alla capacità del patire insieme, alla qualità del con-patire. Con la sua venuta Gesù introduce un nuovo contratto terapeutico. Egli invita a incontrarsi sul campo delle affinità: un sano può curare chi non lo è solo se è anch'egli malato con il malato. È l'antica cura che offriva il centauro Chirone alla gente ferita che andava a visitarlo, di essere un curante perché a sua volta ferito. Al di là della metafora, questa sovrapposizione, questa identificazione tra chi cura e chi è curato tende fatalmente ad annullare la distanza tra medico e paziente. Il rapporto si impasta, si fa materia viva della terapia e non è più il freddo appuntamento della “visita”, in cui non c'è affatto compenetrazione di ruoli ma solo clinica osservazione del caso.
La figura del Christus medicus, come si profila nelle parole dei Padri della Chiesa, ci dice dunque che essa è già di per sé cura ed è già guarigione -- che si potrebbe definire spirituale -- anche se il male procede e continua a lavorare e a scavare. Si tratta della guarigione di chi rimane malato, della sanità di colui al quale il male non trova una risoluzione, eppure rimane sanato e guarito lo stesso, perché alle sue ferite si sovrappongono quelle di Cristo e in esse egli trova la sua consolazione perché avverte con più valore quel discrimine di salvezza e di salute che il Salvatore rappresenta per chi ha fede.
(©L'Osservatore Romano 26-27 agosto 2013)
Legge sull'omofobia: lettera di 26 deputati e due episodi inquietanti (Rusconi)
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lunedì 26 agosto 2013
Tutto falso. Dall'alfa all'omega (Il Foglio)
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La fede come luce. Nell'enciclica «Lumen fidei» un tema caro a Tommaso d'Aquino (Biffi)
Nell'enciclica «Lumen fidei» un tema caro a Tommaso d'Aquino
La fede come luce
di Inos Biffi
Sulle prime può sorprendere che si parli di «luce» della fede, come fa l'enciclica che proprio dall'espressione Lumen fidei prende nome. I contenuti del Credo trascendono, infatti, le facoltà intellettive dell'uomo e per la loro stessa natura sono sottratti alla loro visione. Sembrerebbe perciò più coerente parlare di «oscurità» della fede. Effettivamente, le verità enunciate dai simboli risultano inevidenti alla ragione; il credente le professa unicamente fondandosi sulla Parola che le attesta. Solo che Dio infonde nel credente un'altra luce, oltre quella della ragione: una luce imparagonabile con quella razionale, grazie alla quale il credente diviene partecipe dell'eccesso di luminosità che definisce Dio, inabitante in «una luce inaccessibile», per cui «nessuno degli uomini lo ha mai visto né può vederlo» (1 Timòteo, 6, 16), e insieme rifulgente nei cuori dei credenti, come scrive lo stesso Paolo: «Dio, che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulge nei nostri cuori» (2 Corinzi, 4, 6).
Con tocco penetrante e felice l'enciclica (n. 4) cita la descrizione che Pietro fa della fede nella Commedia di Dante: «Quest'è 'l principio, quest'è la favilla/ che si dilata in fiamma poi vivace,/ e come stella in cielo in me scintilla (Paradiso XXIV, 145-147). «Chi crede, vede», afferma l'enciclica (n. 1).
E, infatti, nella tradizione della Chiesa e nel linguaggio della teologia si parla di «occhi della fede (oculi fidei)», o di «fede dotata di occhi (oculata fides)» che sanno vedere di là da quanto appare alla chiarezza dell'intelligenza naturale.
Sul tema torna spesso Tommaso d'Aquino: «La fede è la luce delle anime» [fides lumen est animarum (Summa Theologiae, III, 36, 3, 3m)]; «Con l'abito della fede la mente dell'uomo è inclinata ad assentire a ciò che conviene alla retta fede» (ibidem, ii-ii, 1, 4, 3m). «La fede è prodotta in noi dall'influsso della luce divina» [fides autem causatur in nobis ex influentia divini luminis (In III Sententiarum, dist. 21, q. 2, a. 3, c)].
In chi crede è infuso «un lume soprannaturale», che produce una «mondezza del cuore», munditia cordis (Summa Theologiae, ii-ii, 7, c), per cui riesce a conoscere con acuta penetrazione alcune cose che il lume naturale non è in grado di conoscere» (ibidem, ii-ii, 8, 1, c). Per quella luce egli diviene capace di cogliere «i primi principi della fede (ea quae primo et principaliter cadunt sub fide)» «e tutto ciò che è ordinato alla fede» (ibidem, ii-ii, 8, 3, c).
Si tratta, quindi, di una luminosità nuova, radicata non in una facoltà creata, qual è l'intelletto -- a cui Dio per altro elargisce una reale capacità di vedere --, una luminosità che irraggia -- senza mediazione creaturale -- dalla sorgente di Dio, ed è destinata a “disvelare” i misteri.
Con quel «lume intellettuale della grazia», intellectuale lumen gratiae (ibidem, ii-ii, 8, a. 5, c), l'intelletto naturale viene disposto o reso propenso alle verità rivelate e perciò portato ad avvertire o “vedere” che è giusto accoglierle e consentirvi; senza tale luce, si possono sentir risonare le parole, si può riuscire a connetterle logicamente e anche a capirne il significato, e tuttavia questo non è ancora un'accoglierle nella mente e nell'esistenza.
Senza dubbio, con la visione della fede i contenuti dei misteri non diventano oggetto di immediata contemplazione; questo avverrà soltanto nella visione beatifica, quando avremo il «dono dell'intelletto consumato», donum intellectus consummatum (ibidem, ii-ii, 7, c). Si genera però una lucida persuasione sulla loro verità, una certa qual loro percezione, che induce la volontà ad aderirvi liberamente e fermamente e ad assumerle nell'esistenza.
Di più: secondo Tommaso la piena conoscenza di Dio la visione beatifica «ha già un certo inizio in noi, in virtù della fede che aderisce, grazie al lume infuso, a quelle cose che eccedono la conoscenza naturale» [huius cognitionis supernaturalis aliquam inchoationem in nobis fieri; et hoc est per fidem, quae ea tenet ex infuso lumine, quae naturalem cognitionem excedunt (De Veritate, 14, 2, c)].
Ciononostante per l'Angelico, come già per Aristotele ma con motivazione ben maggiore, si prova una «grande gioia a poter gettare un semplice sguardo (aliquid posse inspicere) su delle realtà così elevate, per quanto in modo debole e povero» [etiam parva et debili consideratione (Summa contra Gentiles, i, 8)].
«La fede -- asserisce l'enciclica -- conosce in quanto è legata all'amore, in quanto l'amore stesso porta una luce. La comprensione della fede è quella che nasce quando riceviamo il grande amore di Dio che ci trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per vedere la realtà» (n. 26). La conoscenza che deriva dall'amore si avvera, secondo san Tommaso, quando uno «non si limita a ricevere nell'intelletto la scienza delle cose divine, ma, anche, amandole, vi è unito con l'affetto»; e spiega: l'unione per pura conoscenza intellettiva è più estrinseca e conosce la riduzione e il limite o la misura determinata dal soggetto che conosce; nella conoscenza affettiva invece la relazione con l'oggetto è più immediata: è l'oggetto a determinare la misura e a imprimersi nel soggetto e a “toccarlo” [sic ad ipsas res quodammodo afficitur (In Dionysii De divinis nominibus, cap. 2 , lectio: 4)]. E dice sempre l'Aquinate: «Quando la volontà è ben disposta in rapporto alla fede, essa ama la verità creduta, vi ritorna senza posa nel suo pensiero (excogitat), e abbraccia (amplectitur) tutte le ragioni che possa trovare a suo favore» (Summa Theologiae, ii-ii, 2, 10, c).
Occorre però procedere ulteriormente e risalire alla fonte concreta di tale luce, cioè a Gesù Cristo, «lo Splendore della gloria del Padre» (Splendor paternae gloriae, come lo definisce Ambrogio all'inizio dell'inno In aurora).
La fede, infatti, non è la presenza nell'intelletto di formule o di enunciazioni, ma è l'inabitazione di Cristo nei cuori: «Il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori», auspicava Paolo per gli Efesini (Efesini, 3, 17). Ora, l'evangelista Giovanni chiama il Verbo «Luce vera», che «splende nelle tenebre» (Giovanni, 1, 9 - 1, 5), mentre Gesù diceva di se stesso: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Giovanni, 8, 12).
Il credente è colui che accoglie questa luce che è Cristo, nel quale tutti i misteri cristiani si risolvono. A chiarirsi allora non sono tanto i contenuti dei misteri, a cui consentire, ma è Gesù Cristo stesso, che brilla così che la mente e il cuore lo ricevono e vi aderiscono. Chi riceve Cristo, crede; e, insieme, chi crede vuol dire che ha ricevuto Cristo: la fede, quindi, come sequela di Cristo, o comunione di pensiero, di visione, di sensibilità e di vita con lui e con la sua luce: infatti, «tutti coloro che vengono a Cristo, vengono a lui a partire da lui e per mezzo di lui» [omnes qui ad Christum veniunt, ab ipso et per ipsum veniunt (Summa Theologiae, III, 36, 3, 3m)].
Importa assolutamente sottolineare questo carattere personale e cristico della fede. «L'atto di fede non ha come suo termine ultimo delle proposizioni, ma la realtà» (Summa Theologiae, ii-ii, 1, 2, 2m): ebbene, questa «realtà» è Gesù Cristo, che è il mistero divino rivelato. Solo bisogna aggiungere che Gesù Cristo non è unicamente il compimento della fede, ma anche il suo principio.
Gli «occhi della fede», a cui accennavamo, sono gli «occhi di Cristo». Nella visione beatifica contempleremo il Padre con gli occhi medesimi con cui Cristo vede e contempla il Padre celeste.
A questo punto può essere pertinente osservare ancora con san Tommaso che «la fede non distrugge la ragione, ma la oltrepassa e la porta alla perfezione» [fides non destruit rationem, sed excedit eam et perficit (De Veritate, 14, 1, 9)]. Ossia, nel credente, a motivo della fede, non è spento né attenuato o sospeso il «lume dell'intelletto»; al contrario, egli è stimolato a ragionare di più. Una volta poi riconosciuta la differenza in sé tra la luce naturale dell'intelletto e la luce soprannaturale della fede, esse non vanno intese come l'una giustapposta all'altra, o indipendenti e scisse; chi ha fede possiede un intelletto trasfigurato, reso luminoso dalla luce di Cristo.
Abbiamo citato ripetutamente san Tommaso, col suo splendido, e non abbastanza valorizzato, trattato sulla fede. Vorrei, prima di terminare, ricordare due testi di sant'Ambrogio. Il primo: «Dove c'è la vera fede, là c'è la grazia della vera luce» [ubi vera est fides, ibi veri luminis gratia (Expositio Ps, 118, 8, 51)]; e il secondo: «Nei giorni del Signore Gesù è sorta la fede, che ha diffuso in tutto il mondo lo splendore del suo chiarore e della sua luce» [in diebus domini Iesu exorta est fides, quae splendorem suae claritatis et luminis toto orbe diffudit (Explanatio Palmi, 43, 6, 3)].
Possiamo, finendo, chiederci: «Questa grazia di luce, che è la fede, a chi è data?». Non esitiamo a rispondere: «È data a ogni uomo, dal momento che Cristo è stato predestinato dall'eternità ad essere Luce per tutti, nessuno escluso». La ragione umana da sempre è creata perché sia trasfigurata dallo splendore del Verbo incarnato e dalla sua gloria.
(©L'Osservatore Romano 21 agosto 2013)
La fede come luce
di Inos Biffi
Sulle prime può sorprendere che si parli di «luce» della fede, come fa l'enciclica che proprio dall'espressione Lumen fidei prende nome. I contenuti del Credo trascendono, infatti, le facoltà intellettive dell'uomo e per la loro stessa natura sono sottratti alla loro visione. Sembrerebbe perciò più coerente parlare di «oscurità» della fede. Effettivamente, le verità enunciate dai simboli risultano inevidenti alla ragione; il credente le professa unicamente fondandosi sulla Parola che le attesta. Solo che Dio infonde nel credente un'altra luce, oltre quella della ragione: una luce imparagonabile con quella razionale, grazie alla quale il credente diviene partecipe dell'eccesso di luminosità che definisce Dio, inabitante in «una luce inaccessibile», per cui «nessuno degli uomini lo ha mai visto né può vederlo» (1 Timòteo, 6, 16), e insieme rifulgente nei cuori dei credenti, come scrive lo stesso Paolo: «Dio, che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulge nei nostri cuori» (2 Corinzi, 4, 6).
Con tocco penetrante e felice l'enciclica (n. 4) cita la descrizione che Pietro fa della fede nella Commedia di Dante: «Quest'è 'l principio, quest'è la favilla/ che si dilata in fiamma poi vivace,/ e come stella in cielo in me scintilla (Paradiso XXIV, 145-147). «Chi crede, vede», afferma l'enciclica (n. 1).
E, infatti, nella tradizione della Chiesa e nel linguaggio della teologia si parla di «occhi della fede (oculi fidei)», o di «fede dotata di occhi (oculata fides)» che sanno vedere di là da quanto appare alla chiarezza dell'intelligenza naturale.
Sul tema torna spesso Tommaso d'Aquino: «La fede è la luce delle anime» [fides lumen est animarum (Summa Theologiae, III, 36, 3, 3m)]; «Con l'abito della fede la mente dell'uomo è inclinata ad assentire a ciò che conviene alla retta fede» (ibidem, ii-ii, 1, 4, 3m). «La fede è prodotta in noi dall'influsso della luce divina» [fides autem causatur in nobis ex influentia divini luminis (In III Sententiarum, dist. 21, q. 2, a. 3, c)].
In chi crede è infuso «un lume soprannaturale», che produce una «mondezza del cuore», munditia cordis (Summa Theologiae, ii-ii, 7, c), per cui riesce a conoscere con acuta penetrazione alcune cose che il lume naturale non è in grado di conoscere» (ibidem, ii-ii, 8, 1, c). Per quella luce egli diviene capace di cogliere «i primi principi della fede (ea quae primo et principaliter cadunt sub fide)» «e tutto ciò che è ordinato alla fede» (ibidem, ii-ii, 8, 3, c).
Si tratta, quindi, di una luminosità nuova, radicata non in una facoltà creata, qual è l'intelletto -- a cui Dio per altro elargisce una reale capacità di vedere --, una luminosità che irraggia -- senza mediazione creaturale -- dalla sorgente di Dio, ed è destinata a “disvelare” i misteri.
Con quel «lume intellettuale della grazia», intellectuale lumen gratiae (ibidem, ii-ii, 8, a. 5, c), l'intelletto naturale viene disposto o reso propenso alle verità rivelate e perciò portato ad avvertire o “vedere” che è giusto accoglierle e consentirvi; senza tale luce, si possono sentir risonare le parole, si può riuscire a connetterle logicamente e anche a capirne il significato, e tuttavia questo non è ancora un'accoglierle nella mente e nell'esistenza.
Senza dubbio, con la visione della fede i contenuti dei misteri non diventano oggetto di immediata contemplazione; questo avverrà soltanto nella visione beatifica, quando avremo il «dono dell'intelletto consumato», donum intellectus consummatum (ibidem, ii-ii, 7, c). Si genera però una lucida persuasione sulla loro verità, una certa qual loro percezione, che induce la volontà ad aderirvi liberamente e fermamente e ad assumerle nell'esistenza.
Di più: secondo Tommaso la piena conoscenza di Dio la visione beatifica «ha già un certo inizio in noi, in virtù della fede che aderisce, grazie al lume infuso, a quelle cose che eccedono la conoscenza naturale» [huius cognitionis supernaturalis aliquam inchoationem in nobis fieri; et hoc est per fidem, quae ea tenet ex infuso lumine, quae naturalem cognitionem excedunt (De Veritate, 14, 2, c)].
Ciononostante per l'Angelico, come già per Aristotele ma con motivazione ben maggiore, si prova una «grande gioia a poter gettare un semplice sguardo (aliquid posse inspicere) su delle realtà così elevate, per quanto in modo debole e povero» [etiam parva et debili consideratione (Summa contra Gentiles, i, 8)].
«La fede -- asserisce l'enciclica -- conosce in quanto è legata all'amore, in quanto l'amore stesso porta una luce. La comprensione della fede è quella che nasce quando riceviamo il grande amore di Dio che ci trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per vedere la realtà» (n. 26). La conoscenza che deriva dall'amore si avvera, secondo san Tommaso, quando uno «non si limita a ricevere nell'intelletto la scienza delle cose divine, ma, anche, amandole, vi è unito con l'affetto»; e spiega: l'unione per pura conoscenza intellettiva è più estrinseca e conosce la riduzione e il limite o la misura determinata dal soggetto che conosce; nella conoscenza affettiva invece la relazione con l'oggetto è più immediata: è l'oggetto a determinare la misura e a imprimersi nel soggetto e a “toccarlo” [sic ad ipsas res quodammodo afficitur (In Dionysii De divinis nominibus, cap. 2 , lectio: 4)]. E dice sempre l'Aquinate: «Quando la volontà è ben disposta in rapporto alla fede, essa ama la verità creduta, vi ritorna senza posa nel suo pensiero (excogitat), e abbraccia (amplectitur) tutte le ragioni che possa trovare a suo favore» (Summa Theologiae, ii-ii, 2, 10, c).
Occorre però procedere ulteriormente e risalire alla fonte concreta di tale luce, cioè a Gesù Cristo, «lo Splendore della gloria del Padre» (Splendor paternae gloriae, come lo definisce Ambrogio all'inizio dell'inno In aurora).
La fede, infatti, non è la presenza nell'intelletto di formule o di enunciazioni, ma è l'inabitazione di Cristo nei cuori: «Il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori», auspicava Paolo per gli Efesini (Efesini, 3, 17). Ora, l'evangelista Giovanni chiama il Verbo «Luce vera», che «splende nelle tenebre» (Giovanni, 1, 9 - 1, 5), mentre Gesù diceva di se stesso: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Giovanni, 8, 12).
Il credente è colui che accoglie questa luce che è Cristo, nel quale tutti i misteri cristiani si risolvono. A chiarirsi allora non sono tanto i contenuti dei misteri, a cui consentire, ma è Gesù Cristo stesso, che brilla così che la mente e il cuore lo ricevono e vi aderiscono. Chi riceve Cristo, crede; e, insieme, chi crede vuol dire che ha ricevuto Cristo: la fede, quindi, come sequela di Cristo, o comunione di pensiero, di visione, di sensibilità e di vita con lui e con la sua luce: infatti, «tutti coloro che vengono a Cristo, vengono a lui a partire da lui e per mezzo di lui» [omnes qui ad Christum veniunt, ab ipso et per ipsum veniunt (Summa Theologiae, III, 36, 3, 3m)].
Importa assolutamente sottolineare questo carattere personale e cristico della fede. «L'atto di fede non ha come suo termine ultimo delle proposizioni, ma la realtà» (Summa Theologiae, ii-ii, 1, 2, 2m): ebbene, questa «realtà» è Gesù Cristo, che è il mistero divino rivelato. Solo bisogna aggiungere che Gesù Cristo non è unicamente il compimento della fede, ma anche il suo principio.
Gli «occhi della fede», a cui accennavamo, sono gli «occhi di Cristo». Nella visione beatifica contempleremo il Padre con gli occhi medesimi con cui Cristo vede e contempla il Padre celeste.
A questo punto può essere pertinente osservare ancora con san Tommaso che «la fede non distrugge la ragione, ma la oltrepassa e la porta alla perfezione» [fides non destruit rationem, sed excedit eam et perficit (De Veritate, 14, 1, 9)]. Ossia, nel credente, a motivo della fede, non è spento né attenuato o sospeso il «lume dell'intelletto»; al contrario, egli è stimolato a ragionare di più. Una volta poi riconosciuta la differenza in sé tra la luce naturale dell'intelletto e la luce soprannaturale della fede, esse non vanno intese come l'una giustapposta all'altra, o indipendenti e scisse; chi ha fede possiede un intelletto trasfigurato, reso luminoso dalla luce di Cristo.
Abbiamo citato ripetutamente san Tommaso, col suo splendido, e non abbastanza valorizzato, trattato sulla fede. Vorrei, prima di terminare, ricordare due testi di sant'Ambrogio. Il primo: «Dove c'è la vera fede, là c'è la grazia della vera luce» [ubi vera est fides, ibi veri luminis gratia (Expositio Ps, 118, 8, 51)]; e il secondo: «Nei giorni del Signore Gesù è sorta la fede, che ha diffuso in tutto il mondo lo splendore del suo chiarore e della sua luce» [in diebus domini Iesu exorta est fides, quae splendorem suae claritatis et luminis toto orbe diffudit (Explanatio Palmi, 43, 6, 3)].
Possiamo, finendo, chiederci: «Questa grazia di luce, che è la fede, a chi è data?». Non esitiamo a rispondere: «È data a ogni uomo, dal momento che Cristo è stato predestinato dall'eternità ad essere Luce per tutti, nessuno escluso». La ragione umana da sempre è creata perché sia trasfigurata dallo splendore del Verbo incarnato e dalla sua gloria.
(©L'Osservatore Romano 21 agosto 2013)
domenica 25 agosto 2013
La Festa della Madonna del Lago a Castelgandolfo celebrata dal Prefetto della Casa Pontificia (Artymiak)
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Mons. Gänswein e "l'esperienza mistica" di Benedetto XVI (Schwibach)
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Mons. Georg: le dimissioni dopo un’esperienza mistica? Falsità
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Il video dell'intervista di Alessandra Buzzetti (Tg5) a Mons. Georg Gänswein
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Mons. Georg Gänswein smentisce al Tg5 "dall'alfa all'omega" l'articolo sulla "esperienza mistica" di Benedetto XVI
Davvero ottima e direi perfetta l'intervista di Mons. Gänswein al Tg5 nella quale il Prefetto della Casa Pontificia smentisce in modo categorico l'articolo sulla presunta esperienza mistica che avrebbe suggerito a Benedetto XVI la rinuncia al Pontificato.
Mi ha fatto molto piacere sentire questa intervista perche' si nota il rapporto di fedelta', affetto e di stima che lega Mons. Gänswein al Papa Emerito.
Se negli otto anni di Pontificato chi di dovere in Vaticano, negli uffici curiali come nel settore della comunicazione, avesse manifestato un briciolo della dedizione e della sincerita' che abbiamo visto oggi, forse, le cose sarebbero andate diversamente...
Del resto, nei giorni scorsi, non una voce ufficiale si e' levata per smentire l'articolo in questione e per me tanto basta per confermare cio' che penso da anni.
Un grazie sincero, quindi, a Mons. Georg.
Un'annotazione sull'atteggiamento dei media: grandi titoloni per rilanciare l'articolo di Zenit e nemmeno un trafiletto per riportare la voce di chi manifestava dubbi sulla veridicita' di certe affermazioni.
Chi conosce almeno un po' Benedetto XVI non poteva non avanzare quelle riserve...
Bene ha fatto Mons. Gänswein ad intervenire in prima persona recidendo alla radice il giochetto di chi ha pensato di usare ancora (ancora...ancora!) Joseph Ratzinger per i propri scopi nemmeno troppo difficili da interpretare...
Sappiano lorsignori che ci sara' sempre chi non e' disposto a farsi incollare il prosciutto sugli occhi ed il salame sulle orecchie.
R.
Mi ha fatto molto piacere sentire questa intervista perche' si nota il rapporto di fedelta', affetto e di stima che lega Mons. Gänswein al Papa Emerito.
Se negli otto anni di Pontificato chi di dovere in Vaticano, negli uffici curiali come nel settore della comunicazione, avesse manifestato un briciolo della dedizione e della sincerita' che abbiamo visto oggi, forse, le cose sarebbero andate diversamente...
Del resto, nei giorni scorsi, non una voce ufficiale si e' levata per smentire l'articolo in questione e per me tanto basta per confermare cio' che penso da anni.
Un grazie sincero, quindi, a Mons. Georg.
Un'annotazione sull'atteggiamento dei media: grandi titoloni per rilanciare l'articolo di Zenit e nemmeno un trafiletto per riportare la voce di chi manifestava dubbi sulla veridicita' di certe affermazioni.
Chi conosce almeno un po' Benedetto XVI non poteva non avanzare quelle riserve...
Bene ha fatto Mons. Gänswein ad intervenire in prima persona recidendo alla radice il giochetto di chi ha pensato di usare ancora (ancora...ancora!) Joseph Ratzinger per i propri scopi nemmeno troppo difficili da interpretare...
Sappiano lorsignori che ci sara' sempre chi non e' disposto a farsi incollare il prosciutto sugli occhi ed il salame sulle orecchie.
R.
La donna che non abbandona. Festa della Madonna del Lago a Castel Gandolfo (Georg Gänswein)
La donna che non abbandona
di Georg Gänswein
La festa della Madonna del Lago è un'ottima occasione per ricordare il ruolo di Maria come accompagnatrice del Signore e il suo esempio per noi cristiani. I teologi insegnano che una sana cristologia è sempre accompagnata da una sana mariologia. Per conoscere il Signore dobbiamo conoscere anche sua Madre.
L'incarnazione di Dio in Gesù Cristo si manifesta nella maternità divina di Maria. Perciò chi vuole essere cristiano, e chi vuole rimanere cristiano, deve guardare alla Madre del Signore, Maria Santissima. Tutte le sue azioni, dal momento dell'annunciazione attraverso l'angelo, erano orientate verso Cristo. Maria non solo ha dato la vita terrena a Gesù, lo ha anche seguito e lo ha accompagnato nel suo cammino.
Maria è il prototipo di ogni vocazione cristiana, di ogni chiamata a partecipare all'opera che Dio si aspetta dagli uomini. Maria è imparentata con noi perché intercede per noi presso il suo Figlio. Tutto ciò che fa, lo fa in vista di Cristo. Maria introduce Gesù nella vita terrena. Ma non si limita a questo. Lei stessa è la sua prima accompagnatrice. Nascosta, senza nessun rumore, senza cercare applausi e meriti, lo accompagna nella vita. Quanto più silenziosamente lo fa, tanto più forte e percettibile diventa la sua parola.
Maria, da prima, ha imparato che il Verbo eterno del Padre abita nel silenzio, non nel rumore. Perciò Maria conserva e medita silenziosamente nel suo cuore tutto ciò che ha percepito da questo Verbo. Lei sa: all'inizio era il Verbo / la Parola e non le chiacchiere; e alla fine non ci saranno le parole vane, ma di nuovo il Verbo. Grazie alla sua contemplazione, la sua attività non diventa una attività vuota ma un'azione poderosa e efficace. Perciò non soltanto la sua parola, ma anche il suo agire ha una importanza esemplare per tutti coloro che vogliono seguire suo Figlio.
Maria ci fa vedere e comprendere una importante regola cristiana: «La parola che ti aiuta, tu non la puoi dire a te stesso».
Maria chiede all'angelo, dopo che ha ascoltato il suo messaggio incredibile: «Come potrà avvenire questo, se io non conosco uomo?» (Luca 1, 34).
La risposta è: «Lo Spirito Santo scenderà su di te» (Luca 1, 35).
La parola che aiuta Maria, la dice l'angelo. Memore di questa esperienza dirà anni dopo ai servitori alle nozze di Cana: «Fate tutto quello che egli vi dirà» (Giovanni 2, 5). Anche loro non possono dire a se stessi la parola che li aiuta. È detta a loro da Maria.
Maria è come Giovanni il Battista, precursore di Cristo sulla sua via nel mondo. Maria questo lo sa bene. Nelle grandi icone di Cristo, nelle chiese orientali, il Signore rappresentato viene accompagnato sempre da Maria e da Giovanni il Battista. Ma Maria e Giovanni sono solo il suono, non la parola. Tutti e due lasciano risuonare a modo loro la “Parola”. Affinché la parola di Cristo non diventi muta, andiamo da Maria. Non dimentichiamo: «La parola che ti aiuta, tu non la puoi dire a te stesso». E la parola che aiuta la nostra società e la nostra Chiesa, non la possiamo dire a noi stessi. Ma d'altra parte, come Maria, tutti noi siamo chiamati a non rimanere muti, là dove sia necessario dire la parola che aiuta, cioè confessare coraggiosamente la nostra fede.
Maria accompagna Gesù nella sua vita terrena. In tutta la sua vita lei è con lui, per lui e accanto a lui. Maria è la prima con-pellegrina sulle strade del mondo. Ciò non è una passeggiata priva di significato per il “paese della cuccagna”, ma un coraggioso camminare con il Signore per accompagnarlo fino alla croce. Perché il suo Figlio è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto. Maria accompagna Gesù nella povertà della grotta di Betlemme, lo accompagna quando è ancora un bambino nel tempio di Gerusalemme, e poi nella fuga in Egitto. Poi lo accompagna alle nozze di Cana e lì si comporta come serva, attenta a che non manchi il necessario per la festa di nozze.
Il camminare di Maria accanto al Signore fa scuola. Dopo poco tempo anche altre donne e altri uomini accompagnano Gesù per servirlo sulle vie della Galilea e della Giudea. Il Signore si lascia aiutare nel cercare e salvare ciò che era perduto. Gesù ha dato anche a tutti noi una responsabilità grande per la salvezza di tanti uomini. Come i primi discepoli, accanto a Maria, anche noi vogliamo accompagnare il Signore per le vie del mondo.
Ma, come al tempo di Gesù, anche oggi ci sono uomini che abbandonano la compagnia del Signore. Dopo il discorso sul pane della vita, si dice: «Da allora molti dei suoi discepoli si ritrassero e non andavano più con lui» (Giovanni 6, 66). Oggi come allora ci sono uomini e donne che abbandonano la compagnia di Gesù. Di Giuda è scritto: «Egli, preso il boccone, uscì subito» (Giovanni 13, 30). Giuda era uno dei dodici, ma è andato via da Gesù -- verso la rovina! Abbandonare, lasciare, andare via sono purtroppo parole chiave del nostro tempo presente, nella Chiesa di oggi.
Gesù abbandonato non è frutto di una immaginazione surriscaldata, o di una pietà esagerata, ma è una realtà seria. Maria è andata fino al Calvario per accompagnare Gesù. Come Maria, fedelmente, la Chiesa accompagna il suo maestro per tutti i secoli e lo porta a tutti i popoli. La storia ci insegna che il Signore ha dovuto “emigrare” dove i discepoli lo hanno abbandonato.
Tanti Paesi e tante regioni fiorenti sono andate perdute nella Chiesa, in Europa, in Asia, in Africa, nel Medio Oriente, nell'ottavo e nel nono secolo.
Chi accompagna Gesù fino alla fine, viene assunto da lui sul Golgota, ma così partecipa anche alla sua vittoria pasquale. Maria, la con-pellegrina sulle vie del Signore, diventa, nello stesso tempo, Madre dolorosa e vittoriosa. La Madonna ha preso con sé sempre altri uomini e li ha portati a Cristo: Giuseppe, Elisabetta, Zaccaria, Simeone, Anna, gli Apostoli, i suoi parenti e i suoi amici. Maria non vuole ammiratori, ma con-pellegrini, accompagnatori di Gesù.
Maria segue il suo Figlio. Il seguire diventa un passaggio dal credere al vedere, ma anche dal vedere al credere. Elisabetta le dice: «Beata sei tu perché hai creduto». In seguito il Verbo diventa carne. Maria la vede, la tocca, la porta, sente la Parola diventata carne. Maria fa il passo dal credere al vedere. Ciò si manifesta in occasione del pellegrinaggio al tempio di Giuseppe e Maria con Gesù dodicenne. Maria e Giuseppe fanno un pellegrinaggio a Gerusalemme accompagnati da Gesù. Sono pellegrini tutti e tre insieme. Al loro ritorno Gesù rimane indietro. Maria e Giuseppe vanno incontro a Gesù, cercandolo per tre giorni. Adesso il Figlio non è più accanto a loro, ma davanti a loro. È diventato la meta comune della loro via. Il Verbo si nasconde a Maria. Non i vincoli del sangue sono decisivi ma i vincoli dello Spirito Santo: «Non sapevate che io mi devo occupare di quanto riguarda mio Padre?». Non la parentela biologica con Gesù garantisce la salvezza, ma la fede in Lui: «Beata sei tu perché hai creduto». Seguire Cristo per Maria è la via dal vedere al credere, dal suo Figlio verso il Figlio del Dio vivente, dalla casa di Nazareth verso la Chiesa di Cristo. Perciò, sulla croce, il Signore volge lo sguardo di Maria via da sé, e lo rivolge verso il discepolo, e volge lo sguardo del discepolo che ama, via da sé, e lo rivolge verso Maria: «Ecco tua Madre!».
Il Signore crea un nuovo legame, una nuova alleanza: la Chiesa. A Pentecoste dona alla Chiesa lo Spirito Santo, e lo Spirito Santo copre la Chiesa con la sua ombra, come a Nazareth ha coperto Maria. Così Maria è diventata, prima, la Madre di Gesù e, poi, la Madre della Chiesa.
Dopo la santa messa accompagneremo in processione fino alla riva l'immagine della Madonna del Lago. Poi la accompagneremo con lo sguardo e di nuovo la accoglieremo sulla spiaggia. Ma, in realtà, è lei che ci accompagna nel nostro cammino.
Come noi percorriamo la nostra via nella fede, così Maria ci ha preceduto in questa via nella fede. Maria da accompagnatrice, maestra e guida ci invita tutti a metterci insieme in cammino verso Cristo, la luce del mondo.
(©L'Osservatore Romano 25 agosto 2013)
Nel ricordo di Papa Montini
Si celebra sabato 24 agosto, nella chiesa della Madonna del Lago, a Castel Gandolfo, la tradizionale festa in onore della Vergine. Nel pomeriggio la messa viene presieduta dall'arcivescovo prefetto della Casa Pontificia (del quale pubblichiamo in questa pagina l'omelia). Al termine la statua della Madonna raggiunge il porticciolo e da lì, posta su un battello, viene portata in processione sul lago, seguita da barche e canoe. La giornata celebrativa è promossa dalla parrocchia pontificia di San Tommaso da Villanova, affidata alla comunità salesiana, che proprio trentacinque anni fa ricevette da Paolo VI la missione del servizio pastorale anche nella chiesa della Madonna del Lago. L'origine della festa risale agli anni Cinquanta, quando il parroco don Dino Sella, ancor prima della costruzione della chiesa -- che fu edificata a partire dal 1966 e inaugurata il 15 agosto 1977 da Papa Montini -- volle dedicare una giornata di preghiera e di ringraziamento alla Madonna. Nacque così la tradizione della processione sulle rive del lago.
(©L'Osservatore Romano 25 agosto 2013)
“Esperienza mistica”? Padre Hagenkord: Non sembrano parole pronunciate da Benedetto XVI
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L'ossessione del paragone fra Papi (Benoît et moi)
Su Radio Vaticana (francese) "reprimenda" contro i "nostalgici" di Benedetto XVI
Clicca qui per leggere la nota segnalataci da Mariateresa.
Beh, e' vero che Guzmàn Carriquiry se la prende anche con chi usa il nuovo Pontefice per denigrare Benedetto XVI ma parliamoci chiaro: quale peso hanno oggi coloro che chiedono un po' di giustizia per Joseph Ratzinger? I nostalgici dell'uno e gli esaltatori dell'altro possono essere messi sullo stesso piano?
Non mi pare visto che i primi non hanno alcun accesso ai media.
Un dato pero' e' significativo: il fatto stesso che si senta l'esigenza di riportare una simile nota sta a significare che la realta' e' molto piu' complessa di quella che si vorrebbe darci ad intendere.
Ed e' paradossale che si stigmatizzi chi fa confronti ma poi si cade nella stessa trappola. La nota infatti non e' altro che l'esaltazione di Papa Francesco ai danni di Benedetto. Perche'?
Buffo contrapporre la "via crucis" di Benedetto alla gioia di Francesco. Tutto cambiato in una manciata di minuti (dalla fumata bianca al primo discorso)? Ma davvero qualcuno ci crede sul serio? Suvvia...
Una domanda finale: come mai queste osservazioni non sono state fatte nel 2005 a proposito dei "nostalgici" di Giovanni Paolo II?
Eh...chissa' :-))
Del resto ci sono figli e figliastri, madri e matrigne, nostalgici e nostalgici...
Forse dovremmo iniziare a prendere atto della verita': a tutti e' consentito di parlare ma non a chi vorrebbe ricordare il Pontificato di Benedetto XVI.
Chi osa fare questa operazione (che da' tanto fastidio) si attira gli insulti e le risatine di tanti cattolici. Questa e' la Chiesa? Mah...
R.
Beh, e' vero che Guzmàn Carriquiry se la prende anche con chi usa il nuovo Pontefice per denigrare Benedetto XVI ma parliamoci chiaro: quale peso hanno oggi coloro che chiedono un po' di giustizia per Joseph Ratzinger? I nostalgici dell'uno e gli esaltatori dell'altro possono essere messi sullo stesso piano?
Non mi pare visto che i primi non hanno alcun accesso ai media.
Un dato pero' e' significativo: il fatto stesso che si senta l'esigenza di riportare una simile nota sta a significare che la realta' e' molto piu' complessa di quella che si vorrebbe darci ad intendere.
Ed e' paradossale che si stigmatizzi chi fa confronti ma poi si cade nella stessa trappola. La nota infatti non e' altro che l'esaltazione di Papa Francesco ai danni di Benedetto. Perche'?
Buffo contrapporre la "via crucis" di Benedetto alla gioia di Francesco. Tutto cambiato in una manciata di minuti (dalla fumata bianca al primo discorso)? Ma davvero qualcuno ci crede sul serio? Suvvia...
Una domanda finale: come mai queste osservazioni non sono state fatte nel 2005 a proposito dei "nostalgici" di Giovanni Paolo II?
Eh...chissa' :-))
Del resto ci sono figli e figliastri, madri e matrigne, nostalgici e nostalgici...
Forse dovremmo iniziare a prendere atto della verita': a tutti e' consentito di parlare ma non a chi vorrebbe ricordare il Pontificato di Benedetto XVI.
Chi osa fare questa operazione (che da' tanto fastidio) si attira gli insulti e le risatine di tanti cattolici. Questa e' la Chiesa? Mah...
R.
sabato 24 agosto 2013
I più bei momenti della Giornata Mondiale della Gioventù di Madrid 2011 (video)
Su segnalazione di Gemma vediamo questo splendido video sulla Gmg di Madrid (2011):
LINK DIRETTO SU YOUTUBE
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venerdì 23 agosto 2013
Mons. Ganswein presiede le celebrazioni della Madonna del Lago di Castel Gandolfo (Agasso)
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Gli alunni di Ratzinger a messa con il professore (Ambrogetti)
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giovedì 22 agosto 2013
Peter Seewald: ciò che si è scritto sulla rinuncia di Benedetto XVI sono "stupidaggini e invenzioni"
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Peter Seewald contesta le presunte "rivelazioni" di Zenit sulla rinuncia di Benedetto XVI
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L'ultimo "colpo" di Papa Benedetto. Riguarda il rito del battesimo (***)
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Se Dio parla nel silenzio (Ippolito)
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Tutto accettabile, per carita', ma perche' non parliamo anche dell'anticipo di simpatia di cui gode il nuovo Papa? Mi fa sorridere questa frase: "L'assurgere al Soglio di Pietro di Jorge Mario Bergoglio ha da sé cambiato prospettiva e risolto automaticamente una quantità di problemi impressionanti che offuscavano l'immagine della cattolicità".
Davvero? Ma come e' possibile? In curia non e' cambiato nulla o quasi (come fa notare anche il cardinale Dolan) e finora certe "piccole" incongruenze sono passate sotto silenzio. Facciamo qualche esempio e qui andiamo ovviamente oltre l'articolo di Ippolito.
E' giusto disertare un concerto di musica classica con professionisti veri che si preparavano probabilmente da mesi all'evento? Si e' detto che Francesco non gradisce presenziare ad eventi mondani.
Va benissimo ma perche' allora ricevere i calciatori?
La mia non e' una critica a Papa Francesco che puo' e deve ricevere chi vuole. Faccio semplicemente notare l'incongruenza dei mass media.
Ricordiamo tutti le critiche a Benedetto XVI quando decise, mesi prima, di non presenziare al famoso "Concerto di Natale in Vaticano".
E pensiamo ai "casi Ricca e Chaouqui" di cui nessuno parla piu'.
Va benissimo cosi' ma che cosa sarebbe accaduto se quelle due nomine fossero state fatte da Benedetto XVI?
Si sarebbe detto e scritto che i collaboratori avevano sbagliato, come al solito, e che bastava farsi un giro su internet per evitare problemi (vedi Lettera di Papa Ratzinger ai vescovi in occasione della revoca della scomunica ai Lefebvriani)?
Nessuna critica a Papa Francesco che, come Pontefice, si assume le proprie responsabilita' ma i mass media si stanno rendendo conto che la politica dei "due pesi e delle due misure" sta diventando un tantino ridicola?
Gli anticipi di simpatia o antipatia sono diventati fondamentali anche nella chiesa. Cio' non puo' che rattristarmi e parecchio...
R.
Tutto accettabile, per carita', ma perche' non parliamo anche dell'anticipo di simpatia di cui gode il nuovo Papa? Mi fa sorridere questa frase: "L'assurgere al Soglio di Pietro di Jorge Mario Bergoglio ha da sé cambiato prospettiva e risolto automaticamente una quantità di problemi impressionanti che offuscavano l'immagine della cattolicità".
Davvero? Ma come e' possibile? In curia non e' cambiato nulla o quasi (come fa notare anche il cardinale Dolan) e finora certe "piccole" incongruenze sono passate sotto silenzio. Facciamo qualche esempio e qui andiamo ovviamente oltre l'articolo di Ippolito.
E' giusto disertare un concerto di musica classica con professionisti veri che si preparavano probabilmente da mesi all'evento? Si e' detto che Francesco non gradisce presenziare ad eventi mondani.
Va benissimo ma perche' allora ricevere i calciatori?
La mia non e' una critica a Papa Francesco che puo' e deve ricevere chi vuole. Faccio semplicemente notare l'incongruenza dei mass media.
Ricordiamo tutti le critiche a Benedetto XVI quando decise, mesi prima, di non presenziare al famoso "Concerto di Natale in Vaticano".
E pensiamo ai "casi Ricca e Chaouqui" di cui nessuno parla piu'.
Va benissimo cosi' ma che cosa sarebbe accaduto se quelle due nomine fossero state fatte da Benedetto XVI?
Si sarebbe detto e scritto che i collaboratori avevano sbagliato, come al solito, e che bastava farsi un giro su internet per evitare problemi (vedi Lettera di Papa Ratzinger ai vescovi in occasione della revoca della scomunica ai Lefebvriani)?
Nessuna critica a Papa Francesco che, come Pontefice, si assume le proprie responsabilita' ma i mass media si stanno rendendo conto che la politica dei "due pesi e delle due misure" sta diventando un tantino ridicola?
Gli anticipi di simpatia o antipatia sono diventati fondamentali anche nella chiesa. Cio' non puo' che rattristarmi e parecchio...
R.
La rinuncia di Benedetto XVI. Dietro quel "grazie" (Anna Maria Cànopi)
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Gli ex-alunni di Ratzinger a Castelgandolfo, ma senza il prof (Pederiva)
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Le "indiscrezioni" di Zenit nel servizio di Lucio Brunelli
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mercoledì 21 agosto 2013
La rinuncia di Benedetto XVI frutto di una "esperienza mistica" con Dio?
Clicca qui per leggere il commento segnalatoci da piu' fonti.
Posso dirlo? Mah...
Chi e' questa fonte anonima? Abbia il coraggio di palesarsi altrimenti, personalmente, non intendo prendere per oro colato certe affermazioni che mi lasciano, in tutta onesta', molto perplessa.
Benedetto ha lavorato e sofferto tanto per poi sentirsi dire di togliere il disturbo? Mi rincresce ma c'e' qualcosa di stonato...
Brutto anche come insegnamento per i giovani: si spreme una persona finche' si puo' per poi invitarla a lasciare posto ad altri. Pensavo che la chiesa fosse diversa...
Vedi anche:
Ratzinger: "La rinuncia? Me l'ha detto Dio". La ricostruzione di un sito cattolico (Repubblica)
Ratzinger: «Le dimissioni ispirate da Dio» (Corriere)
L'articolo di Marco Ansaldo
Posso dirlo? Mah...
Chi e' questa fonte anonima? Abbia il coraggio di palesarsi altrimenti, personalmente, non intendo prendere per oro colato certe affermazioni che mi lasciano, in tutta onesta', molto perplessa.
Benedetto ha lavorato e sofferto tanto per poi sentirsi dire di togliere il disturbo? Mi rincresce ma c'e' qualcosa di stonato...
Brutto anche come insegnamento per i giovani: si spreme una persona finche' si puo' per poi invitarla a lasciare posto ad altri. Pensavo che la chiesa fosse diversa...
Vedi anche:
Ratzinger: "La rinuncia? Me l'ha detto Dio". La ricostruzione di un sito cattolico (Repubblica)
Ratzinger: «Le dimissioni ispirate da Dio» (Corriere)
L'articolo di Marco Ansaldo
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martedì 20 agosto 2013
Weiler: Benedetto XVI ha dato un contributo coraggioso e profondo per la libertà religiosa (R.V.)
Clicca qui per leggere l'intervista.
Al Cairo torna attuale la lezione di Ratisbona (Magister)
Clicca qui per leggere il commento segnalatoci da Mic e Laura.
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Ragione e natura, le vere basi del diritto. La prefazione di Giorgio Napolitano al libro "La legge di re Salomone - Ragione e diritto nei discorsi di Benedetto XVI"
Su segnalazione di Gemma leggiamo:
IN DIALOGO ESCE PER LA BUR «LA LEGGE DI RE SALOMONE»: IL PENSIERO DI RATZINGER SU FEDE E SOCIETÀ INCONTRA QUELLO DEL CAPO DELLO STATO
Ragione e natura, le vere basi del diritto
Perché il ruolo pubblico della religione non minaccia la democrazia laica
Armando Torno
Ragione e natura sono la base del diritto: il pensiero di Joseph Ratzinger va al cuore del dibattito che oggi coinvolge cattolici e laici.
Il libro La legge di Re Salomone raccoglie i principali interventi «giuridici» del Pontefice emerito da Regensburg nel 2006 al Bundestag di Berlino del 2011 e ospita brevi saggi di studiosi e intellettuali di diversa estrazione culturale, politica, religiosa e geografica. Non soltanto: la prefazione è di Giorgio Napolitano.
Un intervento significativo, ché d'altra parte le affinità generazionali e culturali fra i due sono molteplici: il capo dello Stato italiano raccoglie e fa suo l'invito di Benedetto XVI a riconoscere il ruolo della religione nella vita pubblica.
Infatti, e codesta è la tesi di Ratzinger ampiamente documentata e commentata nel volume, se ragione e natura sono la base di una convivenza al di fuori di qualsiasi rivelazione soprannaturale, questo è il terreno su cui cattolici e laici possono incontrarsi senza timore di reciproche censure o ingerenze.
Rileggendo i testi ci si accorge delle feconde intuizioni in essi presenti. Per esempio, in occasione delle visite di papa Ratzinger negli Usa e in Francia, nacque il concetto di «laicità positiva», vale a dire un approccio ai rapporti tra Chiesa e Stato che vive nel rispetto della religione e del suo ruolo pubblico.
E nell'aprile 2008 l'allora Pontefice ricordò che i padri fondatori degli Stati Uniti avevano creato «uno Stato volutamente laico», non per antagonismo nei confronti della religione ma, al contrario, perché la rispettavano. Un altro elemento che emerge dalle pagine è il «rilancio» della ragione operato dal Pontefice.
D'altra parte, Ratzinger ha osservato che la stessa cultura giuridica europea è nata dall'incontro di tre dimensioni precristiane, sorta di infinito abbraccio che giunse da Gerusalemme, Atene e Roma.
Furono la fede nel Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci, il pensiero giuridico di Roma.
È naturale, per Ratzinger, vedere nel ruolo dello Stato anche la tutela dei diritti umani ed è di nuovo naturale, proprio per un uso non assoluto della ragione, essere critici nei confronti della chiusura positivistica delle scienze.
Del resto, non si deve dimenticare che l'apertura di Benedetto XVI verso le ricerche è stata notevole: fu, tra l'altro, lui stesso a progettare la necessità di uno spazio comune di confronto tra credenti e non credenti, un dialogo tra le rispettive ragioni che potesse recare aiuto alle domande del nostro tempo.
Il libro nacque prima della rinuncia al pontificato di Ratzinger. Ora è diventato un omaggio. Anche alle sue riflessioni.
© Copyright Corriere della sera, 20 luglio 2013
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Benedetto XVI, Weiler: fede, ragione e politica, attenti a non confondere
Clicca qui per leggere l'intervista.
La legge di re Salomone - Ragione e diritto nei discorsi di Benedetto XVI, Bur 2013
Ragione e natura, le vere basi del diritto. La prefazione di Giorgio Napolitano al libro "La legge di re Salomone - Ragione e diritto nei discorsi di Benedetto XVI"
La legge di re Salomone - Ragione e diritto nei discorsi di Benedetto XVI, Bur 2013
Ragione e natura, le vere basi del diritto. La prefazione di Giorgio Napolitano al libro "La legge di re Salomone - Ragione e diritto nei discorsi di Benedetto XVI"
lunedì 19 agosto 2013
Breve visita di Benedetto XVI a Castel Gandolfo
Per Ratzinger "gita" a Castel Gandolfo
Ieri accompagnato dalle memores, per lui anche un breve concerto
Per Ratzinger "gita" a Castel Gandolfo (ANSA)
CITTA' DEL VATICANO, 19 AGO - Passeggiata nei giardini di Castel Gandolfo per il Papa emerito Benedetto XVI.
Fonti qualificate riferiscono infatti che Ratzinger si è recato ieri nella cittadina dei Papi accompagnato dalle memores domini per una visita nel pomeriggio di circa 3 ore. Passeggiando, Benedetto XVI ha recitato, come suo solito, il rosario. Poi, per lui, si è tenuto anche un breve concerto al pianoforte di musica classica. Infine, in serata, il rientro in Vaticano. (Ansa)
Papa Ratzinger per poche ore a Castel Gandolfo (Speciale)
Benedetto XVI: a Castel Gandolfo passeggia e assiste a concerto piano (Asca)
Ieri accompagnato dalle memores, per lui anche un breve concerto
Per Ratzinger "gita" a Castel Gandolfo (ANSA)
CITTA' DEL VATICANO, 19 AGO - Passeggiata nei giardini di Castel Gandolfo per il Papa emerito Benedetto XVI.
Fonti qualificate riferiscono infatti che Ratzinger si è recato ieri nella cittadina dei Papi accompagnato dalle memores domini per una visita nel pomeriggio di circa 3 ore. Passeggiando, Benedetto XVI ha recitato, come suo solito, il rosario. Poi, per lui, si è tenuto anche un breve concerto al pianoforte di musica classica. Infine, in serata, il rientro in Vaticano. (Ansa)
Papa Ratzinger per poche ore a Castel Gandolfo (Speciale)
Benedetto XVI: a Castel Gandolfo passeggia e assiste a concerto piano (Asca)
La bellezza salverà il mondo. Una lezione in una mostra (Bonvegna)
Clicca qui per leggere il commento segnalatoci da Gemma.
Massacri d'Egitto. Se avessero (e avessimo) ascoltato Benedetto (Socci)
sabato 17 agosto 2013
Un dono per tutti. Riflessioni sull'enciclica «Lumen fidei» (Biffi)
Riflessioni sull'enciclica «Lumen fidei»
Un dono per tutti
di Inos Biffi
La fede come dono, la fede come luce: sono tra i motivi ricorrenti nell'enciclica Lumen fidei ai quali dedichiamo qui alcune riflessioni.
Anzitutto: la fede come dono. Noi -- dichiara l'enciclica -- la «riceviamo da Dio come dono soprannaturale» (n. 4); essa è «virtù soprannaturale da lui infusa» (n. 7), «dono gratuito di Dio» (n. 14). È quanto afferma la lettera agli Efesini: «Per grazia siete stati salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio» (Efesini, 2, 8), e che Tommaso d'Aquino commenta scrivendo: «La fede viene immediatamente da Dio» (Summa theologiae, i, 111, 1); essa «ci viene dal suo amore» (Super Evangelium Iohannis reportatio, cap. 16, lect. 7). Sarebbe però errato concludere che, siccome la fede è un dono, alcuni sono destinati a riceverlo, mentre ad altri, per insondabile arbitrio divino, esso è semplicemente rifiutato. Certo, Dio fa grazia a chi vuole e non deve rendere conto a nessuno delle sue decisioni, che in ogni caso non potranno mai essere in contrasto con la sua giustizia e con il suo amore.
Di fatto, tuttavia, nessun uomo è lasciato senza questo dono. Solo che, per capirlo, occorre collocare e comprendere tale dono all'interno del disegno salvifico cristocentrico.
Secondo questo disegno l'uomo è stato, fin dall'eternità e per pura grazia, progettato su Cristo e a causa di Cristo. Veramente, tutto il mondo, quello visibile e quello invisibile, è stato creato per mezzo di lui, in lui e in vista di lui, e trova in lui il suo fondamento (cfr. Colossesi, 1, 16), così che su tutto fosse «il Primeggiante» (Colossesi, 1, 18).
Quanto all'uomo: è stato scelto da Dio «nel Figlio», prima della costituzione del mondo (Efesini, 1, 4), ed è stato predestinato a essere «conforme all'immagine del Figlio», così da risultare «il Primogenito di molti fratelli». Ma, se è così, vuol dire che il dono della fede è destinato a ogni uomo, dal momento che quel dono coincide esattamente con la comunione con Cristo, con l'essere concepiti e voluti da Dio nel Redentore crocifisso e risorto.
La relazione con Cristo non è, infatti, qualche cosa che si aggiunga alla fede, ma è l'oggetto compiuto della stessa fede. In nessun momento della storia della salvezza, o in nessun momento della storia dell'umanità, c'è stata una fede salvifica che non avesse come suo contenuto Gesù Cristo. Lo asserisce magnificamente l'enciclica: «“Abramo […] esultò nella speranza di vedere il mio giorno, lo vide e fu pieno di gioia” (Giovanni, 8, 56). Secondo queste parole di Gesù, la fede di Abramo era orientata verso di Lui, era, in un certo senso, visione anticipata del suo mistero. Così lo intende sant'Agostino, quando afferma che i Patriarchi si salvarono per la fede, non fede in Cristo già venuto, ma fede in Cristo che stava per venire, fede tesa verso l'evento futuro di Gesù. La fede cristiana è centrata in Cristo, è confessione che Gesù è il Signore e che Dio lo ha risuscitato dai morti (cfr. Romani, 10, 9). Tutte le linee dell'Antico Testamento si raccolgono in Cristo» (n. 15). Ora, l'essere predestinati in Cristo, che equivale all'avere il dono della fede, riguarda l'umanità appartenente all'attuale progetto di Dio e quindi ogni uomo concretamente esistente. Non ci sono due categorie di umanità, l'una puramente “naturale”, estranea alla grazia di Cristo e lasciata in una specie di indifferenza o di disinteresse da parte di Dio, e l'altra, invece, che Dio trova nel Figlio, e cioè l'una, a cui è riservato il dono della fede, l'altra che ne è lasciata priva, anche se dobbiamo riconoscere che non ci è dato di sapere come ogni uomo incontri Gesù Cristo, o meglio sotto quale forma e in quale modo Gesù Cristo, senza del quale semplicemente non c'è salvezza, si faccia incontrare.
Noi ignoriamo le vie del suo amore onnipotente, ma ci è difficile pensare che Dio chiami alla luce un essere umano per lasciarlo senza la possibilità di un tale incontro, da cui dipende la sua riuscita. Possiamo, anzi, giungere a dire che, poiché l'uomo è creato in Gesù Cristo, è creato perché abbia la fede e che la ragione umana, a sua volta, è stata ideata dal principio non in una condizione di “neutralità”, ma con l'inclinazione alla stessa fede, cioè perché sia una ragione credente. Chi della ragione abbia una concezione razionalistica certamente vedrebbe in tutto questo un attentato all'identità e alla purezza della ragione, mentre a operarne la riduzione è proprio la sua “distrazione” da Gesù Cristo, la sua separazione da lui.
D'altra parte, se a ogni uomo è donata la grazia della fede, che lo salva in Cristo, una tale grazia non gli è imposta. Egli ha la libertà di respingerla. L'uomo che non si salverà non sarà quello a cui incolpevolmente non sia stato elargito il dono della fede, ma quello che si sarà chiuso al dono, che ha disdegnato di essere graziato. Scrive sant'Ambrogio, con la genialità che gli è consueta: «La luce vera risplende a tutti. Ma se uno ha chiuso le finestre, si priverà da se stesso della luce eterna. Se tu chiudi la porta della tua mente, chiudi fuori anche Cristo. Benché possa entrare, egli nondimeno non vuole introdursi da importuno, non vuole costringere chi non vuole. Beato colui alla cui porta bussa Cristo. La nostra porta è la fede. È questa la porta per la quale entra Cristo» (Expositio Psalmi cXVIII, 12, 13-14).
(©L'Osservatore Romano 17 agosto 2013)
Un dono per tutti
di Inos Biffi
La fede come dono, la fede come luce: sono tra i motivi ricorrenti nell'enciclica Lumen fidei ai quali dedichiamo qui alcune riflessioni.
Anzitutto: la fede come dono. Noi -- dichiara l'enciclica -- la «riceviamo da Dio come dono soprannaturale» (n. 4); essa è «virtù soprannaturale da lui infusa» (n. 7), «dono gratuito di Dio» (n. 14). È quanto afferma la lettera agli Efesini: «Per grazia siete stati salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio» (Efesini, 2, 8), e che Tommaso d'Aquino commenta scrivendo: «La fede viene immediatamente da Dio» (Summa theologiae, i, 111, 1); essa «ci viene dal suo amore» (Super Evangelium Iohannis reportatio, cap. 16, lect. 7). Sarebbe però errato concludere che, siccome la fede è un dono, alcuni sono destinati a riceverlo, mentre ad altri, per insondabile arbitrio divino, esso è semplicemente rifiutato. Certo, Dio fa grazia a chi vuole e non deve rendere conto a nessuno delle sue decisioni, che in ogni caso non potranno mai essere in contrasto con la sua giustizia e con il suo amore.
Di fatto, tuttavia, nessun uomo è lasciato senza questo dono. Solo che, per capirlo, occorre collocare e comprendere tale dono all'interno del disegno salvifico cristocentrico.
Secondo questo disegno l'uomo è stato, fin dall'eternità e per pura grazia, progettato su Cristo e a causa di Cristo. Veramente, tutto il mondo, quello visibile e quello invisibile, è stato creato per mezzo di lui, in lui e in vista di lui, e trova in lui il suo fondamento (cfr. Colossesi, 1, 16), così che su tutto fosse «il Primeggiante» (Colossesi, 1, 18).
Quanto all'uomo: è stato scelto da Dio «nel Figlio», prima della costituzione del mondo (Efesini, 1, 4), ed è stato predestinato a essere «conforme all'immagine del Figlio», così da risultare «il Primogenito di molti fratelli». Ma, se è così, vuol dire che il dono della fede è destinato a ogni uomo, dal momento che quel dono coincide esattamente con la comunione con Cristo, con l'essere concepiti e voluti da Dio nel Redentore crocifisso e risorto.
La relazione con Cristo non è, infatti, qualche cosa che si aggiunga alla fede, ma è l'oggetto compiuto della stessa fede. In nessun momento della storia della salvezza, o in nessun momento della storia dell'umanità, c'è stata una fede salvifica che non avesse come suo contenuto Gesù Cristo. Lo asserisce magnificamente l'enciclica: «“Abramo […] esultò nella speranza di vedere il mio giorno, lo vide e fu pieno di gioia” (Giovanni, 8, 56). Secondo queste parole di Gesù, la fede di Abramo era orientata verso di Lui, era, in un certo senso, visione anticipata del suo mistero. Così lo intende sant'Agostino, quando afferma che i Patriarchi si salvarono per la fede, non fede in Cristo già venuto, ma fede in Cristo che stava per venire, fede tesa verso l'evento futuro di Gesù. La fede cristiana è centrata in Cristo, è confessione che Gesù è il Signore e che Dio lo ha risuscitato dai morti (cfr. Romani, 10, 9). Tutte le linee dell'Antico Testamento si raccolgono in Cristo» (n. 15). Ora, l'essere predestinati in Cristo, che equivale all'avere il dono della fede, riguarda l'umanità appartenente all'attuale progetto di Dio e quindi ogni uomo concretamente esistente. Non ci sono due categorie di umanità, l'una puramente “naturale”, estranea alla grazia di Cristo e lasciata in una specie di indifferenza o di disinteresse da parte di Dio, e l'altra, invece, che Dio trova nel Figlio, e cioè l'una, a cui è riservato il dono della fede, l'altra che ne è lasciata priva, anche se dobbiamo riconoscere che non ci è dato di sapere come ogni uomo incontri Gesù Cristo, o meglio sotto quale forma e in quale modo Gesù Cristo, senza del quale semplicemente non c'è salvezza, si faccia incontrare.
Noi ignoriamo le vie del suo amore onnipotente, ma ci è difficile pensare che Dio chiami alla luce un essere umano per lasciarlo senza la possibilità di un tale incontro, da cui dipende la sua riuscita. Possiamo, anzi, giungere a dire che, poiché l'uomo è creato in Gesù Cristo, è creato perché abbia la fede e che la ragione umana, a sua volta, è stata ideata dal principio non in una condizione di “neutralità”, ma con l'inclinazione alla stessa fede, cioè perché sia una ragione credente. Chi della ragione abbia una concezione razionalistica certamente vedrebbe in tutto questo un attentato all'identità e alla purezza della ragione, mentre a operarne la riduzione è proprio la sua “distrazione” da Gesù Cristo, la sua separazione da lui.
D'altra parte, se a ogni uomo è donata la grazia della fede, che lo salva in Cristo, una tale grazia non gli è imposta. Egli ha la libertà di respingerla. L'uomo che non si salverà non sarà quello a cui incolpevolmente non sia stato elargito il dono della fede, ma quello che si sarà chiuso al dono, che ha disdegnato di essere graziato. Scrive sant'Ambrogio, con la genialità che gli è consueta: «La luce vera risplende a tutti. Ma se uno ha chiuso le finestre, si priverà da se stesso della luce eterna. Se tu chiudi la porta della tua mente, chiudi fuori anche Cristo. Benché possa entrare, egli nondimeno non vuole introdursi da importuno, non vuole costringere chi non vuole. Beato colui alla cui porta bussa Cristo. La nostra porta è la fede. È questa la porta per la quale entra Cristo» (Expositio Psalmi cXVIII, 12, 13-14).
(©L'Osservatore Romano 17 agosto 2013)
venerdì 16 agosto 2013
"Magnificat". Benedetto XVI e l'omaggio alla Vergine (video YouTube)
giovedì 15 agosto 2013
mercoledì 14 agosto 2013
Diritto, giustizia, libertà. Le idee non dogmatiche del grande pensatore Joseph Ratzinger (Lottieri)
Clicca qui per leggere l'articolo segnalatoci da Laura.
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martedì 13 agosto 2013
Tomba e morte non l'hanno trattenuta. Giovanni Damasceno per la Dormizione della Madre di Dio (Nin)
Giovanni Damasceno per la Dormizione della Madre di Dio
Tomba e morte non l'hanno trattenuta
di Manuel Nin
Nella tradizione bizantina la festa della Dormizione della Madre di Dio è il sigillo che chiude l'anno liturgico, così come quella della sua Natività è l'inizio. La nascita e la glorificazione della Madre di Dio sono infatti anche l'inizio e il destino di tutta la Chiesa, di cui Maria è figura (týpos). Nell'ufficiatura mattutina vi è un canone di san Giovanni Damasceno (VII-VIII secolo) dove, a partire dalle odi bibliche che sono alla base del mattutino bizantino, sono sviluppati aspetti del mistero celebrato grazie a una lettura cristologica dei testi veterotestamentari.
L'autore sottolinea come la festa diventi una liturgia: "Adorna di divina gloria, o Vergine, la tua sacra e illustre memoria ha convocato alla festa tutti i fedeli che, preceduti da Maria con danze e timpani, cantano al tuo unigenito: Si è reso grandemente glorioso". Il Damasceno collega la prima ode (Esodo, 15, 1-19) con il transito, vero esodo, di Maria in cielo: "Vergini giovinette, insieme alla profetessa Maria, cantate ora il canto dell'esodo: perché la Vergine, la sola Madre di Dio, è trasferita all'eredità celeste. Accogli da noi il canto per il tuo esodo, o madre del Dio vivente". Qui Giovanni enumera i titoli dati a Maria nella festa e nelle tradizioni cristiane: "Degnamente, come cielo vivente ti hanno accolta, o tutta pura, le divine tende celesti: e tu, nella tua radiosa bellezza, hai preso posto come sposa tutta immacolata presso colui che è re e Dio".
Il transito della Madre di Dio diventa quasi una liturgia che raduna il cielo e la terra, manifestata dall'icona della festa: "Quale sorgente viva e copiosa, o Madre di Dio, rafforza i tuoi cantori, che allestiscono per te una festa spirituale, e nel giorno della tua divina gloria di corone di gloria rendili degni. La folla dei teologi dai confini della terra, la moltitudine degli angeli dall'alto, tutti si affrettavano verso il monte Sion al cenno della divina potenza, per prestare ben doverosamente, o sovrana, il loro servizio alla tua sepoltura. Da tutte le generazioni ti diciamo beata, o Madre di Dio vergine, perché in te si è compiaciuto dimorare il Cristo Dio nostro, che nessuna dimora può ospitare. Beati siamo anche noi, che abbiamo te quale protezione: giorno e notte, infatti, tu intercedi per noi".
Giovanni presenta chiaramente il tema della morte della Madre di Dio. Il suo transito alla vita avviene, come per Cristo stesso, attraverso l'esperienza della morte: "Da te è sorta la vita, senza sciogliere i vincoli della tua verginità. Come ha dunque potuto l'immacolata dimora del tuo corpo, origine di vita, aver parte all'esperienza della morte? Tu che sei stata sacrario della vita hai raggiunto l'eterna vita: attraverso la morte, infatti, sei passata alla vita, tu che hai partorito colui che è la vita. Tomba e morte non hanno trattenuto la Madre di Dio, sempre desta con la sua intercessione. Quale madre della vita, alla vita l'ha trasferita colui che nel suo grembo sempre vergine aveva preso dimora".
Nell'ottava ode Giovanni prende spunto dal cantico dei tre fanciulli (Daniele, 3, 57-88) e ne fa un commento cristologico e mariologico: "Il parto della Madre di Dio, allora prefigurato, ha salvato nella fornace i fanciulli intemerati; ma ora che si è attuato convoca tutta la terra che salmeggia: Celebrate, opere, il Signore, e sovresaltatelo per tutti i secoli". Quasi come il giardino della tomba vuota di Cristo, anche la tomba di Maria diventa un nuovo paradiso: "Oh, le meraviglie della sempre vergine e Madre di Dio! Ha reso paradiso la tomba che ha abitata, e noi oggi attorniandola cantiamo gioiosi". La stessa fornace di Babilonia è figura del grembo di Maria: "Il potentissimo angelo di Dio mostrò ai fanciulli come la fiamma irrorasse di rugiada i santi e bruciasse invece gli empi; e così ha reso la Madre di Dio fonte vivificante dalla quale insieme zampillano la distruzione della morte e la vita per quanti cantano: Noi redenti celebriamo l'unico creatore, e lo sovresaltiamo per tutti i secoli".
(©L'Osservatore Romano 14 agosto 2013)
Tomba e morte non l'hanno trattenuta
di Manuel Nin
Nella tradizione bizantina la festa della Dormizione della Madre di Dio è il sigillo che chiude l'anno liturgico, così come quella della sua Natività è l'inizio. La nascita e la glorificazione della Madre di Dio sono infatti anche l'inizio e il destino di tutta la Chiesa, di cui Maria è figura (týpos). Nell'ufficiatura mattutina vi è un canone di san Giovanni Damasceno (VII-VIII secolo) dove, a partire dalle odi bibliche che sono alla base del mattutino bizantino, sono sviluppati aspetti del mistero celebrato grazie a una lettura cristologica dei testi veterotestamentari.
L'autore sottolinea come la festa diventi una liturgia: "Adorna di divina gloria, o Vergine, la tua sacra e illustre memoria ha convocato alla festa tutti i fedeli che, preceduti da Maria con danze e timpani, cantano al tuo unigenito: Si è reso grandemente glorioso". Il Damasceno collega la prima ode (Esodo, 15, 1-19) con il transito, vero esodo, di Maria in cielo: "Vergini giovinette, insieme alla profetessa Maria, cantate ora il canto dell'esodo: perché la Vergine, la sola Madre di Dio, è trasferita all'eredità celeste. Accogli da noi il canto per il tuo esodo, o madre del Dio vivente". Qui Giovanni enumera i titoli dati a Maria nella festa e nelle tradizioni cristiane: "Degnamente, come cielo vivente ti hanno accolta, o tutta pura, le divine tende celesti: e tu, nella tua radiosa bellezza, hai preso posto come sposa tutta immacolata presso colui che è re e Dio".
Il transito della Madre di Dio diventa quasi una liturgia che raduna il cielo e la terra, manifestata dall'icona della festa: "Quale sorgente viva e copiosa, o Madre di Dio, rafforza i tuoi cantori, che allestiscono per te una festa spirituale, e nel giorno della tua divina gloria di corone di gloria rendili degni. La folla dei teologi dai confini della terra, la moltitudine degli angeli dall'alto, tutti si affrettavano verso il monte Sion al cenno della divina potenza, per prestare ben doverosamente, o sovrana, il loro servizio alla tua sepoltura. Da tutte le generazioni ti diciamo beata, o Madre di Dio vergine, perché in te si è compiaciuto dimorare il Cristo Dio nostro, che nessuna dimora può ospitare. Beati siamo anche noi, che abbiamo te quale protezione: giorno e notte, infatti, tu intercedi per noi".
Giovanni presenta chiaramente il tema della morte della Madre di Dio. Il suo transito alla vita avviene, come per Cristo stesso, attraverso l'esperienza della morte: "Da te è sorta la vita, senza sciogliere i vincoli della tua verginità. Come ha dunque potuto l'immacolata dimora del tuo corpo, origine di vita, aver parte all'esperienza della morte? Tu che sei stata sacrario della vita hai raggiunto l'eterna vita: attraverso la morte, infatti, sei passata alla vita, tu che hai partorito colui che è la vita. Tomba e morte non hanno trattenuto la Madre di Dio, sempre desta con la sua intercessione. Quale madre della vita, alla vita l'ha trasferita colui che nel suo grembo sempre vergine aveva preso dimora".
Nell'ottava ode Giovanni prende spunto dal cantico dei tre fanciulli (Daniele, 3, 57-88) e ne fa un commento cristologico e mariologico: "Il parto della Madre di Dio, allora prefigurato, ha salvato nella fornace i fanciulli intemerati; ma ora che si è attuato convoca tutta la terra che salmeggia: Celebrate, opere, il Signore, e sovresaltatelo per tutti i secoli". Quasi come il giardino della tomba vuota di Cristo, anche la tomba di Maria diventa un nuovo paradiso: "Oh, le meraviglie della sempre vergine e Madre di Dio! Ha reso paradiso la tomba che ha abitata, e noi oggi attorniandola cantiamo gioiosi". La stessa fornace di Babilonia è figura del grembo di Maria: "Il potentissimo angelo di Dio mostrò ai fanciulli come la fiamma irrorasse di rugiada i santi e bruciasse invece gli empi; e così ha reso la Madre di Dio fonte vivificante dalla quale insieme zampillano la distruzione della morte e la vita per quanti cantano: Noi redenti celebriamo l'unico creatore, e lo sovresaltiamo per tutti i secoli".
(©L'Osservatore Romano 14 agosto 2013)
La ragione di Ratzinger (Caporale)
Clicca qui per leggere l'articolo segnalatoci da Arcangela.
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lunedì 12 agosto 2013
Benedetto XVI parla ad una ragazza del silenzio di Dio (video)
Su segnalazione della nostra Gemma rivediamo questo bellissimo video:
Il “Summorum Pontificum” finalmente tradotto dal latino. Con una parola cambiata (Magister) Volere è potere? (R.)
Clicca qui per leggere il commento.
Beh...forse abbiamo capito come mai e' apparsa magicamente la traduzione dopo ben sei anni.
R.
Beh...forse abbiamo capito come mai e' apparsa magicamente la traduzione dopo ben sei anni.
R.
La Pr del Papa si difende mentendo al Vaticano (Ragona)
Clicca qui per leggere l'articolo.
Tweet e veleni vaticani (Calabrò)
Clicca qui per leggere l'articolo.
domenica 11 agosto 2013
E’ ormai la mania dei media: attribuire a papa Francesco idee opposte a quelle di Benedetto XVI (Socci)
Clicca qui per leggere l'articolo.
Giuste osservazioni. Peccato che ormai sia troppo tardi.
La "vulgata" e' passata e non si torna piu' indietro. Socci ovviamente non c'entra nulla (anzi!) ma il silenzio colpevole di tanti cattolici negli otto anni di Pontificato di Benedetto XVI, l'ostilita' dei mass media ed il menefreghismo generalizzato di vaticano e gerarchie ecclesiastiche ci hanno portato a questo punto...
Un po' difficile non notare i due pesi e le due misure.
R.
Giuste osservazioni. Peccato che ormai sia troppo tardi.
La "vulgata" e' passata e non si torna piu' indietro. Socci ovviamente non c'entra nulla (anzi!) ma il silenzio colpevole di tanti cattolici negli otto anni di Pontificato di Benedetto XVI, l'ostilita' dei mass media ed il menefreghismo generalizzato di vaticano e gerarchie ecclesiastiche ci hanno portato a questo punto...
Un po' difficile non notare i due pesi e le due misure.
R.
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"Miracolo" sul sito del Vaticano: il motu proprio Summorum Pontificum tradotto in varie lingue
Cari amici, un vero miracolo sul sito del Vaticano: il motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI (7 luglio 2007) è finalmente disponibile in piu' lingue e non solo in latino ed in ungherese.
Siamo veramente di fronte ad un prodigio che arriva con ben sei anni di ritardo...ma che sara' mai?
Clicca qui per l'elenco dei testi e qui per quello in italiano.
Avevamo parlato della "stranezza" (beato chi ci crede...) anni fa. Qui per il post del 2009 e qui per una frecciatina del 2012.
Siamo veramente di fronte ad un prodigio che arriva con ben sei anni di ritardo...ma che sara' mai?
Clicca qui per l'elenco dei testi e qui per quello in italiano.
Avevamo parlato della "stranezza" (beato chi ci crede...) anni fa. Qui per il post del 2009 e qui per una frecciatina del 2012.
venerdì 9 agosto 2013
Studio1 Di Più - Benedetto XVI - Un uomo, un Papa
Su segnalazione di Gemma vediamo questo speciale:
Benedetto XVI: da dove nasce la forza per affrontare il martirio? Dalla profonda e intima unione con Cristo, perché il martirio e la vocazione al martirio non sono il risultato di uno sforzo umano, ma sono la risposta ad un’iniziativa e ad una chiamata di Dio
Clicca qui per rileggere il testo segnalatoci da Laura.
Festa di Edith Stein, la martire di Auschwitz che insegnò la "scienza della Croce"
Clicca qui per leggere il commento segnalatoci da Laura.
Usa, respinto l'appello contro la Santa Sede su presunte responsabilità in un caso di abusi
Negli Stati Uniti
Respinto l'appello contro la Santa Sede su presunte responsabilità in un caso di abusi
Washington, 8. La Santa Sede non può essere accusata di responsabilità diretta in caso di abusi sessuali commessi da qualsiasi esponente del clero nel mondo. È questo il principio stabilito dalla Corte d'appello dell'Oregon (nel particolare la Court of Appeals for the Ninth Circuit), negli Stati Uniti, che, con una sentenza del 5 agosto, ha respinto una causa giudiziaria avviata nel 2002 su presunte responsabilità della Santa Sede in un caso di abusi sessuali. La causa riguardava un sacerdote irlandese che dopo essere stato denunciato per abusi su un minore, avvenuti nel 1965, era stato segnalato, dall'ordine religioso di appartenenza, alla Santa Sede che, in poche settimane, lo aveva ridotto allo stato laicale.
In un comunicato l'avvocato Jeffrey S. Lena, che rappresenta la Santa Sede, ha sottolineato che la sentenza determina di fatto la chiusura di una disputa iniziata nel 2002 «all'insegna di una grande campagna mediatica». La sentenza, è scritto nel comunicato, «non ha avuto luogo a seguito di un accordo o di altro tipo di pagamento da parte della Santa Sede». Si tratta del «terzo caso di questo tipo contro la Santa Sede che si dissolve di fronte all'evidenza legale e fattuale», infatti la causa «era basata su affermazioni inesatte e sillogismi fallaci che avevano fuorviato il pubblico per anni. Ma si è conclusa con la ferma remissione di un'azione legale contro la Santa Sede che non avrebbe mai dovuto comunque essere iniziata».
L'avvocato Lena sottolinea in particolare che la sentenza respinge quanto si voleva affermare in linea di principio, ovvero che la Santa Sede sarebbe direttamente informata e avrebbe il controllo su tutti i sacerdoti del mondo e che dunque dovrebbe essere accusata di responsabilità diretta in caso accertato di abusi sessuali compiuti da qualsiasi esponente del clero.
In una intervista rilasciata al programma inglese della Radio Vaticana, l'avvocato Lena sottolinea inoltre che si sarebbe voluto trattare la Chiesa cattolica alla stregua di una grande società con a capo il Papa come se fosse un Chief Executive Officier. In questo procedimento, osserva l'avvocato, il giudice «ha avuto l'opportunità di seguire da vicino i fatti, ha potuto incontrare tutte le parti e i testimoni legati alla vicenda del sacerdote e questo gli ha consentito di esaminare da vicino eventuali collegamenti con la Santa Sede, appurando che la Santa Sede era stata informata solo nel momento in cui era arrivata la richiesta di riduzione allo stato laicale del religioso da parte dei suoi superiori locali».
(©L'Osservatore Romano 9 agosto 2013)
Respinto l'appello contro la Santa Sede su presunte responsabilità in un caso di abusi
Washington, 8. La Santa Sede non può essere accusata di responsabilità diretta in caso di abusi sessuali commessi da qualsiasi esponente del clero nel mondo. È questo il principio stabilito dalla Corte d'appello dell'Oregon (nel particolare la Court of Appeals for the Ninth Circuit), negli Stati Uniti, che, con una sentenza del 5 agosto, ha respinto una causa giudiziaria avviata nel 2002 su presunte responsabilità della Santa Sede in un caso di abusi sessuali. La causa riguardava un sacerdote irlandese che dopo essere stato denunciato per abusi su un minore, avvenuti nel 1965, era stato segnalato, dall'ordine religioso di appartenenza, alla Santa Sede che, in poche settimane, lo aveva ridotto allo stato laicale.
In un comunicato l'avvocato Jeffrey S. Lena, che rappresenta la Santa Sede, ha sottolineato che la sentenza determina di fatto la chiusura di una disputa iniziata nel 2002 «all'insegna di una grande campagna mediatica». La sentenza, è scritto nel comunicato, «non ha avuto luogo a seguito di un accordo o di altro tipo di pagamento da parte della Santa Sede». Si tratta del «terzo caso di questo tipo contro la Santa Sede che si dissolve di fronte all'evidenza legale e fattuale», infatti la causa «era basata su affermazioni inesatte e sillogismi fallaci che avevano fuorviato il pubblico per anni. Ma si è conclusa con la ferma remissione di un'azione legale contro la Santa Sede che non avrebbe mai dovuto comunque essere iniziata».
L'avvocato Lena sottolinea in particolare che la sentenza respinge quanto si voleva affermare in linea di principio, ovvero che la Santa Sede sarebbe direttamente informata e avrebbe il controllo su tutti i sacerdoti del mondo e che dunque dovrebbe essere accusata di responsabilità diretta in caso accertato di abusi sessuali compiuti da qualsiasi esponente del clero.
In una intervista rilasciata al programma inglese della Radio Vaticana, l'avvocato Lena sottolinea inoltre che si sarebbe voluto trattare la Chiesa cattolica alla stregua di una grande società con a capo il Papa come se fosse un Chief Executive Officier. In questo procedimento, osserva l'avvocato, il giudice «ha avuto l'opportunità di seguire da vicino i fatti, ha potuto incontrare tutte le parti e i testimoni legati alla vicenda del sacerdote e questo gli ha consentito di esaminare da vicino eventuali collegamenti con la Santa Sede, appurando che la Santa Sede era stata informata solo nel momento in cui era arrivata la richiesta di riduzione allo stato laicale del religioso da parte dei suoi superiori locali».
(©L'Osservatore Romano 9 agosto 2013)
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giovedì 8 agosto 2013
Mistica e modernità. Il 6 agosto 1978 moriva Papa Montini (Mahieu)
Il 6 agosto 1978 moriva Papa Montini
Mistica e modernità
Pubblichiamo in una nostra traduzione un articolo uscito su «la Croix» del 29-30 giugno scorso. L'autore, monaco di Solesmes, ha scritto, tra l'altro, «Paul VI, maître spirituel» (Fayard - Le Sarment) e «Paul VI et les orthodoxes» (Les Éditions du Cerf).
di Patrice Mahieu
Il 30 giugno 1963, a piazza San Pietro, ha luogo, per l'ultima volta nella storia della Chiesa cattolica, l'incoronazione di un Papa. Paolo VI, eletto il 21 giugno, riceve la tiara offertagli dai suoi fedeli milanesi. Il Pontefice è ben preparato da una trentina d'anni di lavoro nella Curia romana e da nove anni passati a capo della più grande diocesi cattolica del mondo, Milano, ma la chiave di lettura del pontificato va forse ricercata soprattutto nella sua dimensione mistica.
Sull'esempio di sant'Agostino, il suo principale maestro spirituale, sin dagli scritti giovanili si nota in Giovanni Battista Montini un'impetuosa nostalgia di Dio, che si unisce all'esultanza e alla meraviglia di ciò che gli è stato già permesso di scoprire: «La Vita sei Tu, Dio sospeso come una lampada beatificante sulla penombra della nostra balbettante esperienza». Di fatto Paolo VI è un mistico che possiede il linguaggio delle proprie esperienze: «Come abbagliato dal sole, io chiudo gli occhi davanti al mistero infinito della Santissima Trinità, e solo serbo nel cuore una impressione di beatitudine oceanica».
L'amore per la Chiesa costituisce il fattore unificante della sua esistenza -- «mi sembra di aver vissuto per essa e solo per essa» -- e implica due esigenze: il rinnovamento o la riforma della Chiesa, e la conversione personale dei suoi membri. È la seconda esigenza a rendere possibile la prima. Dall'impegno personale a seguire Cristo e dall'energia spirituale e morale che ciò esige, deriverà la possibilità per la Chiesa di manifestarsi come «Cristo la vuole: una, santa, tutta rivolta verso la perfezione alla quale egli l'ha chiamata ed abilitata». Dall'autenticità di questo percorso di conversione, esposto nell'enciclica programmatica Ecclesiam suam, dipendono due linee di forza del pontificato montiniano: il dialogo di vita e di salvezza con il mondo e il ripristino della piena unità tra i cristiani.
Per Paolo VI una Chiesa che vive più profondamente il suo mistero, nello stesso slancio di amore che l'unisce al suo Signore, può donarsi al mondo per metterlo in contatto vitale con il Vangelo: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio». Se degli errori devono essere denunciati, la Chiesa tuttavia si caratterizza per una corrente di affetto e di ammirazione per il mondo moderno. In questo legame di fiducia, l'evangelizzazione, animata da una totale fedeltà a Cristo, può essere accolta dalla mentalità contemporanea. Di fatto, «nessuno è estraneo al suo cuore. Nessuno è indifferente per il suo ministero».
In questo movimento di rinnovamento interiore che fa della Chiesa un segno più leggibile della presenza e dell'azione di Dio, Paolo VI prova l'acuto sentimento della necessità dell'unità dei discepoli di Cristo. Il suo pontificato è totalmente impegnato in tal senso, soprattutto nella ricerca di una comunione piena con le Chiese ortodosse. La sua amicizia con il Patriarca Atenagora costituisce uno dei tratti più luminosi del suo ministero romano. Mentre una commissione segreta e ufficiale, composta da due cattolici e due ortodossi, nel 1971 ha appena concluso il suo rapporto, affermando che una concelebrazione tra Paolo VI e Atenagora è possibile, il Papa scrive al Patriarca: «Tra la nostra Chiesa e le venerabili Chiese ortodosse esiste già una comunione quasi totale. Lo Spirito ci ha permesso in questi ultimi anni di riprendere viva coscienza di tale fatto. Egli mette nei nostri cuori una ferma volontà di fare tutto il possibile per affrettare il giorno tanto desiderato in cui, al termine di una concelebrazione, potremo comunicare insieme allo stesso calice del Signore».
Purificazione della Chiesa e dei suoi membri, tensione spirituale nell'evangelizzazione, umiltà e dialogo con il mondo, l'ecclesiologia delle Chiese sorelle che permette di prevedere una comunione piena tra la Chiesa d'occidente e le Chiese d'oriente: questi assi fondamentali del pontificato montiniano non trovano forse un'eco nelle parole, negli orientamenti di Papa Francesco? La loro fecondità dipende in gran parte dall'impegno di tutti in un percorso veramente spirituale in cui il primato assegnato all'accoglienza della volontà di Dio permette di prendere decisioni audaci, in quanto aperte al soffio dello Spirito. Per esempio, è irrealistico pensare che le Chiese ortodosse possano accordarsi per accettare Roma come centro di unità, e che Roma, ispirandosi al primo millennio, metta concretamente in atto una forma differenziata e modulata di questo ministero di unità? Davvero le intuizioni di Paolo VI non hanno perso la loro attualità.
(©L'Osservatore Romano 8 agosto 2013)
Mistica e modernità
Pubblichiamo in una nostra traduzione un articolo uscito su «la Croix» del 29-30 giugno scorso. L'autore, monaco di Solesmes, ha scritto, tra l'altro, «Paul VI, maître spirituel» (Fayard - Le Sarment) e «Paul VI et les orthodoxes» (Les Éditions du Cerf).
di Patrice Mahieu
Il 30 giugno 1963, a piazza San Pietro, ha luogo, per l'ultima volta nella storia della Chiesa cattolica, l'incoronazione di un Papa. Paolo VI, eletto il 21 giugno, riceve la tiara offertagli dai suoi fedeli milanesi. Il Pontefice è ben preparato da una trentina d'anni di lavoro nella Curia romana e da nove anni passati a capo della più grande diocesi cattolica del mondo, Milano, ma la chiave di lettura del pontificato va forse ricercata soprattutto nella sua dimensione mistica.
Sull'esempio di sant'Agostino, il suo principale maestro spirituale, sin dagli scritti giovanili si nota in Giovanni Battista Montini un'impetuosa nostalgia di Dio, che si unisce all'esultanza e alla meraviglia di ciò che gli è stato già permesso di scoprire: «La Vita sei Tu, Dio sospeso come una lampada beatificante sulla penombra della nostra balbettante esperienza». Di fatto Paolo VI è un mistico che possiede il linguaggio delle proprie esperienze: «Come abbagliato dal sole, io chiudo gli occhi davanti al mistero infinito della Santissima Trinità, e solo serbo nel cuore una impressione di beatitudine oceanica».
L'amore per la Chiesa costituisce il fattore unificante della sua esistenza -- «mi sembra di aver vissuto per essa e solo per essa» -- e implica due esigenze: il rinnovamento o la riforma della Chiesa, e la conversione personale dei suoi membri. È la seconda esigenza a rendere possibile la prima. Dall'impegno personale a seguire Cristo e dall'energia spirituale e morale che ciò esige, deriverà la possibilità per la Chiesa di manifestarsi come «Cristo la vuole: una, santa, tutta rivolta verso la perfezione alla quale egli l'ha chiamata ed abilitata». Dall'autenticità di questo percorso di conversione, esposto nell'enciclica programmatica Ecclesiam suam, dipendono due linee di forza del pontificato montiniano: il dialogo di vita e di salvezza con il mondo e il ripristino della piena unità tra i cristiani.
Per Paolo VI una Chiesa che vive più profondamente il suo mistero, nello stesso slancio di amore che l'unisce al suo Signore, può donarsi al mondo per metterlo in contatto vitale con il Vangelo: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio». Se degli errori devono essere denunciati, la Chiesa tuttavia si caratterizza per una corrente di affetto e di ammirazione per il mondo moderno. In questo legame di fiducia, l'evangelizzazione, animata da una totale fedeltà a Cristo, può essere accolta dalla mentalità contemporanea. Di fatto, «nessuno è estraneo al suo cuore. Nessuno è indifferente per il suo ministero».
In questo movimento di rinnovamento interiore che fa della Chiesa un segno più leggibile della presenza e dell'azione di Dio, Paolo VI prova l'acuto sentimento della necessità dell'unità dei discepoli di Cristo. Il suo pontificato è totalmente impegnato in tal senso, soprattutto nella ricerca di una comunione piena con le Chiese ortodosse. La sua amicizia con il Patriarca Atenagora costituisce uno dei tratti più luminosi del suo ministero romano. Mentre una commissione segreta e ufficiale, composta da due cattolici e due ortodossi, nel 1971 ha appena concluso il suo rapporto, affermando che una concelebrazione tra Paolo VI e Atenagora è possibile, il Papa scrive al Patriarca: «Tra la nostra Chiesa e le venerabili Chiese ortodosse esiste già una comunione quasi totale. Lo Spirito ci ha permesso in questi ultimi anni di riprendere viva coscienza di tale fatto. Egli mette nei nostri cuori una ferma volontà di fare tutto il possibile per affrettare il giorno tanto desiderato in cui, al termine di una concelebrazione, potremo comunicare insieme allo stesso calice del Signore».
Purificazione della Chiesa e dei suoi membri, tensione spirituale nell'evangelizzazione, umiltà e dialogo con il mondo, l'ecclesiologia delle Chiese sorelle che permette di prevedere una comunione piena tra la Chiesa d'occidente e le Chiese d'oriente: questi assi fondamentali del pontificato montiniano non trovano forse un'eco nelle parole, negli orientamenti di Papa Francesco? La loro fecondità dipende in gran parte dall'impegno di tutti in un percorso veramente spirituale in cui il primato assegnato all'accoglienza della volontà di Dio permette di prendere decisioni audaci, in quanto aperte al soffio dello Spirito. Per esempio, è irrealistico pensare che le Chiese ortodosse possano accordarsi per accettare Roma come centro di unità, e che Roma, ispirandosi al primo millennio, metta concretamente in atto una forma differenziata e modulata di questo ministero di unità? Davvero le intuizioni di Paolo VI non hanno perso la loro attualità.
(©L'Osservatore Romano 8 agosto 2013)
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