giovedì 11 aprile 2013

Nell'aprile del 1963 l'enciclica "Pacem in Terris" ebbe un'accoglienza senza eguali sulla stampa internazionale (Possieri)

Nell'aprile del 1963 l'enciclica ebbe un'accoglienza senza eguali sulla stampa internazionale

Giovanni della pace

di Andrea Possieri

Poche volte un'enciclica pontificia è riuscita ad avere una risonanza mediatica così vasta come quella riscossa dalla Pacem in terris. Pubblicata ufficialmente l'11 aprile del 1963 -- ma firmata la mattina del 9 davanti alle telecamere e ai fotografi in una cerimonia pubblica che, scardinando un protocollo secolare, contribuì alla sua diffusione planetaria -- l'enciclica di Giovanni XXIII ebbe un'accoglienza senza eguali sulla stampa internazionale, in grado di suscitare una reazione dell'opinione pubblica mondiale che, a tutt'oggi, trova pochi esempi analoghi nell'età contemporanea.
I giornali di tutti i Paesi, dagli Stati Uniti all'Unione Sovietica, dalla Francia alla Germania, dalla Jugoslavia alla Polonia, dall'Inghilterra alla Spagna, fino al Giappone, dedicarono alla pubblicazione dell'enciclica larghissimo spazio. Uno spazio in cui venivano sottolineati, essenzialmente, due aspetti del documento pontificio: la rilevanza teologico-pastorale “universale”, ovvero non riferita solamente al mondo cattolico, e la sua importanza politico-internazionale, ossia il rafforzamento dell'Onu.
E così se «The Washington Post» definì l'enciclica come una «grande lampada» accesa su tutto il mondo, il «New York Herald Tribune» sottolineò lo «straordinario coraggio» di Giovanni XXIII per «aver risvegliato la coscienza di tutti gli uomini di buona volontà in tutto il mondo». Allo stesso modo, «The New York Times» ne sottolineò l'eccezionale rilevanza storica perché si rivolgeva a tutti gli uomini «senza differenze di razze, credo e opinioni politiche» e sanciva l'importanza dell'Onu come «pietra angolare» dell'ordine internazionale. «Le Monde», invece, la definì come un'enciclica «realistica, serena, fiduciosa nell'avvenire», mentre il giornale monarchico spagnolo «Abc» la presentò come «una pietra miliare nello sviluppo della dottrina politica della Chiesa».
Persino i quotidiani dell'Europa dell'Est, pur forzandone clamorosamente i contenuti, finirono per applaudire Giovanni XXIII. Il giornale polacco «Życie Warsawy», per esempio, sottolineò «l'importante gesto» del Papa che conteneva una serie di principi condivisibili «da tutti i partigiani della pace», mentre l'agenzia di stampa sovietica Tass ne sottolineò la novità politica e soprattutto «l'aumento dell'importanza delle classi lavoratrici» nel magistero petrino.
Indubbiamente, la messe di giudizi che affollarono le prime pagine dei giornali, rappresentarono -- come venne scritto all'epoca -- una sorta di «plebiscito di consensi all'enciclica della pace». Un plebiscito che superava quello altrettanto diffuso che aveva riscosso l'enciclica Mater et magistra del 1961 e che non si può spiegare soltanto con il grande appeal mediatico che riscuoteva l'immagine di Giovanni XXIII, nominato uomo dell'anno da «Time» proprio nel 1962, ma occorre far riferimento ad almeno due elementi.
Quello scritto, infatti, intercettava un'inquietudine diffusissima: il grande rischio di una guerra termonucleare potenzialmente distruttiva dopo le crisi di Berlino del 1961 e di Cuba del 1962. Un'inquietudine che veniva percepita, in tutta la sua drammaticità, dall'opinione pubblica mondiale e a cui l'enciclica giovannea forniva una risposta innovativa e piena di speranza. Una risposta offerta da un'istituzione, la Chiesa, che si poneva come grande mediatrice tra le potenze del mondo.
Questa lettura essenzialmente politico-sociale dell'enciclica produsse, però, anche un ulteriore elemento ricorrente nei rapporti, spesso controversi, tra la Chiesa e i mezzi di informazione.
La ricezione pubblica di quel documento pontificio se da un lato segnava, probabilmente, uno dei punti più alti del rapporto tra la Chiesa cattolica e i media, dall'altro lato, però, rappresentava anche uno dei momenti di maggiore accelerazione di quel processo di semplificazione del magistero petrino, così tipico della modernità.
L'enciclica venne letta, infatti, soprattutto, da un punto di vista politico-sociale. I commenti dei giornali italiani, più di quelli stranieri, ci restituiscono appieno questa visione stereotipata e che, sostanzialmente, ha contribuito a declinare un «Roncalli di sinistra» in netta antitesi a un Pacelli reazionario. Una visione che, paradossalmente, accomunò sia la stampa conservatrice che quella progressista.
Notissima, a questo proposito, fu la rappresentazione della Pacem in terris che venne fornita dal quotidiano milanese «Corriere d'Informazione», il quale storpiò il nome dell'enciclica in Falcem in terris con un evidente riferimento al simbolo del Partito comunista italiano. Una storpiatura che derubricava il significato del documento pontificio a una sorta di resa ideale alla cultura politica della sinistra.
Anche il giornale romano «il Tempo» non fu da meno e apostrofò l'enciclica giovannea come «l'enciclica dell'entusiasmo, concepita all'insegna dell'ottimismo e dell'irenismo».
D'altro canto, la stampa di sinistra enfatizzò oltremisura il momento di rottura con il passato -- contrapponendo, ad esempio, il contenuto di dialogo universale dell'enciclica con l'atteggiamento di Pio XII che invece lanciava «anatemi, scomuniche e crociate contro una parte dell'umanità» -- e dall'altro lato trovò degli elementi di continuità politico-ideologica tra il magistero della Chiesa, la politica estera sovietica e le riflessioni di Togliatti sul destino del genere umano. E così se «Paese Sera» trasformò il Pontefice in una sorta di sostenitore della politica di coesistenza krusceviana, «l'Unità» sostenne che Togliatti, il 20 marzo 1963, pochi giorni prima della pubblicazione dell'enciclica, aveva posto il problema della pace in termini sostanzialmente identici a quelli sollevati da Giovanni XXIII.
Nel 1973, nel primo decennale della Pacem in terris, il futuro segretario del Partito comunista italiano, Alessandro Natta, arrivò a sostenere, «senza presunzione», che era stato il Pci a promuovere «un processo di rinnovamento che investiva anche il mondo cattolico».
Naturalmente, la pace a cui facevano riferimento i dirigenti comunisti era essenzialmente una questione di relazioni internazionali e non c'era traccia nei loro interventi del significato profondo che invece caratterizzava tutta la Pacem in terris, ovvero della pace come edificio da costruirsi continuamente e come rete complessa di relazioni interpersonali e internazionali, conformate alle esigenze dell'animo umano.
Tuttavia, questa interpretazione che tendeva a ridurre il magistero petrino alla stregua di un elemento di politica culturale, alla pari della dimensione valoriale espressa dai movimenti pacifisti, ha generato non pochi equivoci nelle identità collettive di gruppi e associazioni culturali d'ispirazione cattolica.
Spetterà a Giovanni Paolo II nel 2003, durante il conflitto iracheno, superare ogni equivoco e ricordare, in più occasioni, l'enciclica giovannea nel suo significato più profondo, valorizzandone «la straordinaria attualità» e sottolineando che sono quattro i «pilastri» su cui è possibile costruire l'edificio della vera pace: ovvero la verità, la libertà, la giustizia e l'amore.

(©L'Osservatore Romano 11 aprile 2013)

Nessun commento: