Nell'enciclica «Lumen fidei» un tema caro a Tommaso d'Aquino
La fede come luce
di Inos Biffi
Sulle prime può sorprendere che si parli di «luce» della fede, come fa l'enciclica che proprio dall'espressione Lumen fidei prende nome. I contenuti del Credo trascendono, infatti, le facoltà intellettive dell'uomo e per la loro stessa natura sono sottratti alla loro visione. Sembrerebbe perciò più coerente parlare di «oscurità» della fede. Effettivamente, le verità enunciate dai simboli risultano inevidenti alla ragione; il credente le professa unicamente fondandosi sulla Parola che le attesta. Solo che Dio infonde nel credente un'altra luce, oltre quella della ragione: una luce imparagonabile con quella razionale, grazie alla quale il credente diviene partecipe dell'eccesso di luminosità che definisce Dio, inabitante in «una luce inaccessibile», per cui «nessuno degli uomini lo ha mai visto né può vederlo» (1 Timòteo, 6, 16), e insieme rifulgente nei cuori dei credenti, come scrive lo stesso Paolo: «Dio, che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulge nei nostri cuori» (2 Corinzi, 4, 6).
Con tocco penetrante e felice l'enciclica (n. 4) cita la descrizione che Pietro fa della fede nella Commedia di Dante: «Quest'è 'l principio, quest'è la favilla/ che si dilata in fiamma poi vivace,/ e come stella in cielo in me scintilla (Paradiso XXIV, 145-147). «Chi crede, vede», afferma l'enciclica (n. 1).
E, infatti, nella tradizione della Chiesa e nel linguaggio della teologia si parla di «occhi della fede (oculi fidei)», o di «fede dotata di occhi (oculata fides)» che sanno vedere di là da quanto appare alla chiarezza dell'intelligenza naturale.
Sul tema torna spesso Tommaso d'Aquino: «La fede è la luce delle anime» [fides lumen est animarum (Summa Theologiae, III, 36, 3, 3m)]; «Con l'abito della fede la mente dell'uomo è inclinata ad assentire a ciò che conviene alla retta fede» (ibidem, ii-ii, 1, 4, 3m). «La fede è prodotta in noi dall'influsso della luce divina» [fides autem causatur in nobis ex influentia divini luminis (In III Sententiarum, dist. 21, q. 2, a. 3, c)].
In chi crede è infuso «un lume soprannaturale», che produce una «mondezza del cuore», munditia cordis (Summa Theologiae, ii-ii, 7, c), per cui riesce a conoscere con acuta penetrazione alcune cose che il lume naturale non è in grado di conoscere» (ibidem, ii-ii, 8, 1, c). Per quella luce egli diviene capace di cogliere «i primi principi della fede (ea quae primo et principaliter cadunt sub fide)» «e tutto ciò che è ordinato alla fede» (ibidem, ii-ii, 8, 3, c).
Si tratta, quindi, di una luminosità nuova, radicata non in una facoltà creata, qual è l'intelletto -- a cui Dio per altro elargisce una reale capacità di vedere --, una luminosità che irraggia -- senza mediazione creaturale -- dalla sorgente di Dio, ed è destinata a “disvelare” i misteri.
Con quel «lume intellettuale della grazia», intellectuale lumen gratiae (ibidem, ii-ii, 8, a. 5, c), l'intelletto naturale viene disposto o reso propenso alle verità rivelate e perciò portato ad avvertire o “vedere” che è giusto accoglierle e consentirvi; senza tale luce, si possono sentir risonare le parole, si può riuscire a connetterle logicamente e anche a capirne il significato, e tuttavia questo non è ancora un'accoglierle nella mente e nell'esistenza.
Senza dubbio, con la visione della fede i contenuti dei misteri non diventano oggetto di immediata contemplazione; questo avverrà soltanto nella visione beatifica, quando avremo il «dono dell'intelletto consumato», donum intellectus consummatum (ibidem, ii-ii, 7, c). Si genera però una lucida persuasione sulla loro verità, una certa qual loro percezione, che induce la volontà ad aderirvi liberamente e fermamente e ad assumerle nell'esistenza.
Di più: secondo Tommaso la piena conoscenza di Dio la visione beatifica «ha già un certo inizio in noi, in virtù della fede che aderisce, grazie al lume infuso, a quelle cose che eccedono la conoscenza naturale» [huius cognitionis supernaturalis aliquam inchoationem in nobis fieri; et hoc est per fidem, quae ea tenet ex infuso lumine, quae naturalem cognitionem excedunt (De Veritate, 14, 2, c)].
Ciononostante per l'Angelico, come già per Aristotele ma con motivazione ben maggiore, si prova una «grande gioia a poter gettare un semplice sguardo (aliquid posse inspicere) su delle realtà così elevate, per quanto in modo debole e povero» [etiam parva et debili consideratione (Summa contra Gentiles, i, 8)].
«La fede -- asserisce l'enciclica -- conosce in quanto è legata all'amore, in quanto l'amore stesso porta una luce. La comprensione della fede è quella che nasce quando riceviamo il grande amore di Dio che ci trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per vedere la realtà» (n. 26). La conoscenza che deriva dall'amore si avvera, secondo san Tommaso, quando uno «non si limita a ricevere nell'intelletto la scienza delle cose divine, ma, anche, amandole, vi è unito con l'affetto»; e spiega: l'unione per pura conoscenza intellettiva è più estrinseca e conosce la riduzione e il limite o la misura determinata dal soggetto che conosce; nella conoscenza affettiva invece la relazione con l'oggetto è più immediata: è l'oggetto a determinare la misura e a imprimersi nel soggetto e a “toccarlo” [sic ad ipsas res quodammodo afficitur (In Dionysii De divinis nominibus, cap. 2 , lectio: 4)]. E dice sempre l'Aquinate: «Quando la volontà è ben disposta in rapporto alla fede, essa ama la verità creduta, vi ritorna senza posa nel suo pensiero (excogitat), e abbraccia (amplectitur) tutte le ragioni che possa trovare a suo favore» (Summa Theologiae, ii-ii, 2, 10, c).
Occorre però procedere ulteriormente e risalire alla fonte concreta di tale luce, cioè a Gesù Cristo, «lo Splendore della gloria del Padre» (Splendor paternae gloriae, come lo definisce Ambrogio all'inizio dell'inno In aurora).
La fede, infatti, non è la presenza nell'intelletto di formule o di enunciazioni, ma è l'inabitazione di Cristo nei cuori: «Il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori», auspicava Paolo per gli Efesini (Efesini, 3, 17). Ora, l'evangelista Giovanni chiama il Verbo «Luce vera», che «splende nelle tenebre» (Giovanni, 1, 9 - 1, 5), mentre Gesù diceva di se stesso: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Giovanni, 8, 12).
Il credente è colui che accoglie questa luce che è Cristo, nel quale tutti i misteri cristiani si risolvono. A chiarirsi allora non sono tanto i contenuti dei misteri, a cui consentire, ma è Gesù Cristo stesso, che brilla così che la mente e il cuore lo ricevono e vi aderiscono. Chi riceve Cristo, crede; e, insieme, chi crede vuol dire che ha ricevuto Cristo: la fede, quindi, come sequela di Cristo, o comunione di pensiero, di visione, di sensibilità e di vita con lui e con la sua luce: infatti, «tutti coloro che vengono a Cristo, vengono a lui a partire da lui e per mezzo di lui» [omnes qui ad Christum veniunt, ab ipso et per ipsum veniunt (Summa Theologiae, III, 36, 3, 3m)].
Importa assolutamente sottolineare questo carattere personale e cristico della fede. «L'atto di fede non ha come suo termine ultimo delle proposizioni, ma la realtà» (Summa Theologiae, ii-ii, 1, 2, 2m): ebbene, questa «realtà» è Gesù Cristo, che è il mistero divino rivelato. Solo bisogna aggiungere che Gesù Cristo non è unicamente il compimento della fede, ma anche il suo principio.
Gli «occhi della fede», a cui accennavamo, sono gli «occhi di Cristo». Nella visione beatifica contempleremo il Padre con gli occhi medesimi con cui Cristo vede e contempla il Padre celeste.
A questo punto può essere pertinente osservare ancora con san Tommaso che «la fede non distrugge la ragione, ma la oltrepassa e la porta alla perfezione» [fides non destruit rationem, sed excedit eam et perficit (De Veritate, 14, 1, 9)]. Ossia, nel credente, a motivo della fede, non è spento né attenuato o sospeso il «lume dell'intelletto»; al contrario, egli è stimolato a ragionare di più. Una volta poi riconosciuta la differenza in sé tra la luce naturale dell'intelletto e la luce soprannaturale della fede, esse non vanno intese come l'una giustapposta all'altra, o indipendenti e scisse; chi ha fede possiede un intelletto trasfigurato, reso luminoso dalla luce di Cristo.
Abbiamo citato ripetutamente san Tommaso, col suo splendido, e non abbastanza valorizzato, trattato sulla fede. Vorrei, prima di terminare, ricordare due testi di sant'Ambrogio. Il primo: «Dove c'è la vera fede, là c'è la grazia della vera luce» [ubi vera est fides, ibi veri luminis gratia (Expositio Ps, 118, 8, 51)]; e il secondo: «Nei giorni del Signore Gesù è sorta la fede, che ha diffuso in tutto il mondo lo splendore del suo chiarore e della sua luce» [in diebus domini Iesu exorta est fides, quae splendorem suae claritatis et luminis toto orbe diffudit (Explanatio Palmi, 43, 6, 3)].
Possiamo, finendo, chiederci: «Questa grazia di luce, che è la fede, a chi è data?». Non esitiamo a rispondere: «È data a ogni uomo, dal momento che Cristo è stato predestinato dall'eternità ad essere Luce per tutti, nessuno escluso». La ragione umana da sempre è creata perché sia trasfigurata dallo splendore del Verbo incarnato e dalla sua gloria.
(©L'Osservatore Romano 21 agosto 2013)
Visualizzazione post con etichetta biffi. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta biffi. Mostra tutti i post
lunedì 26 agosto 2013
sabato 17 agosto 2013
Un dono per tutti. Riflessioni sull'enciclica «Lumen fidei» (Biffi)
Riflessioni sull'enciclica «Lumen fidei»
Un dono per tutti
di Inos Biffi
La fede come dono, la fede come luce: sono tra i motivi ricorrenti nell'enciclica Lumen fidei ai quali dedichiamo qui alcune riflessioni.
Anzitutto: la fede come dono. Noi -- dichiara l'enciclica -- la «riceviamo da Dio come dono soprannaturale» (n. 4); essa è «virtù soprannaturale da lui infusa» (n. 7), «dono gratuito di Dio» (n. 14). È quanto afferma la lettera agli Efesini: «Per grazia siete stati salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio» (Efesini, 2, 8), e che Tommaso d'Aquino commenta scrivendo: «La fede viene immediatamente da Dio» (Summa theologiae, i, 111, 1); essa «ci viene dal suo amore» (Super Evangelium Iohannis reportatio, cap. 16, lect. 7). Sarebbe però errato concludere che, siccome la fede è un dono, alcuni sono destinati a riceverlo, mentre ad altri, per insondabile arbitrio divino, esso è semplicemente rifiutato. Certo, Dio fa grazia a chi vuole e non deve rendere conto a nessuno delle sue decisioni, che in ogni caso non potranno mai essere in contrasto con la sua giustizia e con il suo amore.
Di fatto, tuttavia, nessun uomo è lasciato senza questo dono. Solo che, per capirlo, occorre collocare e comprendere tale dono all'interno del disegno salvifico cristocentrico.
Secondo questo disegno l'uomo è stato, fin dall'eternità e per pura grazia, progettato su Cristo e a causa di Cristo. Veramente, tutto il mondo, quello visibile e quello invisibile, è stato creato per mezzo di lui, in lui e in vista di lui, e trova in lui il suo fondamento (cfr. Colossesi, 1, 16), così che su tutto fosse «il Primeggiante» (Colossesi, 1, 18).
Quanto all'uomo: è stato scelto da Dio «nel Figlio», prima della costituzione del mondo (Efesini, 1, 4), ed è stato predestinato a essere «conforme all'immagine del Figlio», così da risultare «il Primogenito di molti fratelli». Ma, se è così, vuol dire che il dono della fede è destinato a ogni uomo, dal momento che quel dono coincide esattamente con la comunione con Cristo, con l'essere concepiti e voluti da Dio nel Redentore crocifisso e risorto.
La relazione con Cristo non è, infatti, qualche cosa che si aggiunga alla fede, ma è l'oggetto compiuto della stessa fede. In nessun momento della storia della salvezza, o in nessun momento della storia dell'umanità, c'è stata una fede salvifica che non avesse come suo contenuto Gesù Cristo. Lo asserisce magnificamente l'enciclica: «“Abramo […] esultò nella speranza di vedere il mio giorno, lo vide e fu pieno di gioia” (Giovanni, 8, 56). Secondo queste parole di Gesù, la fede di Abramo era orientata verso di Lui, era, in un certo senso, visione anticipata del suo mistero. Così lo intende sant'Agostino, quando afferma che i Patriarchi si salvarono per la fede, non fede in Cristo già venuto, ma fede in Cristo che stava per venire, fede tesa verso l'evento futuro di Gesù. La fede cristiana è centrata in Cristo, è confessione che Gesù è il Signore e che Dio lo ha risuscitato dai morti (cfr. Romani, 10, 9). Tutte le linee dell'Antico Testamento si raccolgono in Cristo» (n. 15). Ora, l'essere predestinati in Cristo, che equivale all'avere il dono della fede, riguarda l'umanità appartenente all'attuale progetto di Dio e quindi ogni uomo concretamente esistente. Non ci sono due categorie di umanità, l'una puramente “naturale”, estranea alla grazia di Cristo e lasciata in una specie di indifferenza o di disinteresse da parte di Dio, e l'altra, invece, che Dio trova nel Figlio, e cioè l'una, a cui è riservato il dono della fede, l'altra che ne è lasciata priva, anche se dobbiamo riconoscere che non ci è dato di sapere come ogni uomo incontri Gesù Cristo, o meglio sotto quale forma e in quale modo Gesù Cristo, senza del quale semplicemente non c'è salvezza, si faccia incontrare.
Noi ignoriamo le vie del suo amore onnipotente, ma ci è difficile pensare che Dio chiami alla luce un essere umano per lasciarlo senza la possibilità di un tale incontro, da cui dipende la sua riuscita. Possiamo, anzi, giungere a dire che, poiché l'uomo è creato in Gesù Cristo, è creato perché abbia la fede e che la ragione umana, a sua volta, è stata ideata dal principio non in una condizione di “neutralità”, ma con l'inclinazione alla stessa fede, cioè perché sia una ragione credente. Chi della ragione abbia una concezione razionalistica certamente vedrebbe in tutto questo un attentato all'identità e alla purezza della ragione, mentre a operarne la riduzione è proprio la sua “distrazione” da Gesù Cristo, la sua separazione da lui.
D'altra parte, se a ogni uomo è donata la grazia della fede, che lo salva in Cristo, una tale grazia non gli è imposta. Egli ha la libertà di respingerla. L'uomo che non si salverà non sarà quello a cui incolpevolmente non sia stato elargito il dono della fede, ma quello che si sarà chiuso al dono, che ha disdegnato di essere graziato. Scrive sant'Ambrogio, con la genialità che gli è consueta: «La luce vera risplende a tutti. Ma se uno ha chiuso le finestre, si priverà da se stesso della luce eterna. Se tu chiudi la porta della tua mente, chiudi fuori anche Cristo. Benché possa entrare, egli nondimeno non vuole introdursi da importuno, non vuole costringere chi non vuole. Beato colui alla cui porta bussa Cristo. La nostra porta è la fede. È questa la porta per la quale entra Cristo» (Expositio Psalmi cXVIII, 12, 13-14).
(©L'Osservatore Romano 17 agosto 2013)
Un dono per tutti
di Inos Biffi
La fede come dono, la fede come luce: sono tra i motivi ricorrenti nell'enciclica Lumen fidei ai quali dedichiamo qui alcune riflessioni.
Anzitutto: la fede come dono. Noi -- dichiara l'enciclica -- la «riceviamo da Dio come dono soprannaturale» (n. 4); essa è «virtù soprannaturale da lui infusa» (n. 7), «dono gratuito di Dio» (n. 14). È quanto afferma la lettera agli Efesini: «Per grazia siete stati salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio» (Efesini, 2, 8), e che Tommaso d'Aquino commenta scrivendo: «La fede viene immediatamente da Dio» (Summa theologiae, i, 111, 1); essa «ci viene dal suo amore» (Super Evangelium Iohannis reportatio, cap. 16, lect. 7). Sarebbe però errato concludere che, siccome la fede è un dono, alcuni sono destinati a riceverlo, mentre ad altri, per insondabile arbitrio divino, esso è semplicemente rifiutato. Certo, Dio fa grazia a chi vuole e non deve rendere conto a nessuno delle sue decisioni, che in ogni caso non potranno mai essere in contrasto con la sua giustizia e con il suo amore.
Di fatto, tuttavia, nessun uomo è lasciato senza questo dono. Solo che, per capirlo, occorre collocare e comprendere tale dono all'interno del disegno salvifico cristocentrico.
Secondo questo disegno l'uomo è stato, fin dall'eternità e per pura grazia, progettato su Cristo e a causa di Cristo. Veramente, tutto il mondo, quello visibile e quello invisibile, è stato creato per mezzo di lui, in lui e in vista di lui, e trova in lui il suo fondamento (cfr. Colossesi, 1, 16), così che su tutto fosse «il Primeggiante» (Colossesi, 1, 18).
Quanto all'uomo: è stato scelto da Dio «nel Figlio», prima della costituzione del mondo (Efesini, 1, 4), ed è stato predestinato a essere «conforme all'immagine del Figlio», così da risultare «il Primogenito di molti fratelli». Ma, se è così, vuol dire che il dono della fede è destinato a ogni uomo, dal momento che quel dono coincide esattamente con la comunione con Cristo, con l'essere concepiti e voluti da Dio nel Redentore crocifisso e risorto.
La relazione con Cristo non è, infatti, qualche cosa che si aggiunga alla fede, ma è l'oggetto compiuto della stessa fede. In nessun momento della storia della salvezza, o in nessun momento della storia dell'umanità, c'è stata una fede salvifica che non avesse come suo contenuto Gesù Cristo. Lo asserisce magnificamente l'enciclica: «“Abramo […] esultò nella speranza di vedere il mio giorno, lo vide e fu pieno di gioia” (Giovanni, 8, 56). Secondo queste parole di Gesù, la fede di Abramo era orientata verso di Lui, era, in un certo senso, visione anticipata del suo mistero. Così lo intende sant'Agostino, quando afferma che i Patriarchi si salvarono per la fede, non fede in Cristo già venuto, ma fede in Cristo che stava per venire, fede tesa verso l'evento futuro di Gesù. La fede cristiana è centrata in Cristo, è confessione che Gesù è il Signore e che Dio lo ha risuscitato dai morti (cfr. Romani, 10, 9). Tutte le linee dell'Antico Testamento si raccolgono in Cristo» (n. 15). Ora, l'essere predestinati in Cristo, che equivale all'avere il dono della fede, riguarda l'umanità appartenente all'attuale progetto di Dio e quindi ogni uomo concretamente esistente. Non ci sono due categorie di umanità, l'una puramente “naturale”, estranea alla grazia di Cristo e lasciata in una specie di indifferenza o di disinteresse da parte di Dio, e l'altra, invece, che Dio trova nel Figlio, e cioè l'una, a cui è riservato il dono della fede, l'altra che ne è lasciata priva, anche se dobbiamo riconoscere che non ci è dato di sapere come ogni uomo incontri Gesù Cristo, o meglio sotto quale forma e in quale modo Gesù Cristo, senza del quale semplicemente non c'è salvezza, si faccia incontrare.
Noi ignoriamo le vie del suo amore onnipotente, ma ci è difficile pensare che Dio chiami alla luce un essere umano per lasciarlo senza la possibilità di un tale incontro, da cui dipende la sua riuscita. Possiamo, anzi, giungere a dire che, poiché l'uomo è creato in Gesù Cristo, è creato perché abbia la fede e che la ragione umana, a sua volta, è stata ideata dal principio non in una condizione di “neutralità”, ma con l'inclinazione alla stessa fede, cioè perché sia una ragione credente. Chi della ragione abbia una concezione razionalistica certamente vedrebbe in tutto questo un attentato all'identità e alla purezza della ragione, mentre a operarne la riduzione è proprio la sua “distrazione” da Gesù Cristo, la sua separazione da lui.
D'altra parte, se a ogni uomo è donata la grazia della fede, che lo salva in Cristo, una tale grazia non gli è imposta. Egli ha la libertà di respingerla. L'uomo che non si salverà non sarà quello a cui incolpevolmente non sia stato elargito il dono della fede, ma quello che si sarà chiuso al dono, che ha disdegnato di essere graziato. Scrive sant'Ambrogio, con la genialità che gli è consueta: «La luce vera risplende a tutti. Ma se uno ha chiuso le finestre, si priverà da se stesso della luce eterna. Se tu chiudi la porta della tua mente, chiudi fuori anche Cristo. Benché possa entrare, egli nondimeno non vuole introdursi da importuno, non vuole costringere chi non vuole. Beato colui alla cui porta bussa Cristo. La nostra porta è la fede. È questa la porta per la quale entra Cristo» (Expositio Psalmi cXVIII, 12, 13-14).
(©L'Osservatore Romano 17 agosto 2013)
lunedì 15 luglio 2013
Nel «De sex alis seraphim» Bonaventura elenca le virtù del superiore di una comunità. Con la discrezione di chi sa governare il gregge (Biffi)
Nel «De sex alis seraphim» Bonaventura elenca le virtù del superiore di una comunità
Con la discrezione di chi sa governare il gregge
di Inos Biffi
In uno dei suoi luminosi opuscoli, il De sex alis seraphim, san Bonaventura da Bagnoregio (del quale il 15 luglio ricorre la memoria liturgica) ci ha lasciato una circostanziata e penetrante descrizione delle doti che un superiore deve avere per reggere bene una comunità. Nel maestro francescano, infatti, l'ardore e la perspicacia teologica si accompagnavano felicemente a un'acuta conoscenza dell'indole umana e del comportamento consueto nelle comunità dei frati.
Attingendo all'immagine del crocifisso alato apparso a san Francesco, il Dottore serafico, nel quale abitualmente il concetto si riveste di immagine, definisce col nome di «ali» le sei “virtù” che devono distinguere il superiore, ossia: lo zelo per la giustizia, la pietà, la pazienza, l'esemplarità della vita, l'oculata discrezione, la devozione a Dio.
Ci soffermiamo su l'“oculata discrezione”, dove risaltano particolarmente la finezza spirituale e la saggezza pratica di Bonaventura.
Il superiore -- egli osserva -- è il «conduttore del gregge; se sbaglia, il gregge si troverebbe disperso e perirebbe». La sua funzione è paragonabile a quella dell'occhio: «Come l'occhio è la luce di tutto il corpo, così il pastore è la luce per il gregge affidatogli». Ed è duplice l'oculatezza che gli è necessaria: l'una riguarda ciò che si deve fare, l'altra il come lo si debba fare, dal momento che il bene se non vien ben fatto, ossia con discrezione, cessa di essere bene, com'è detto da san Bernardo. «Togli la discrezione, e la virtù diventa vizio».
Non è possibile, nota Bonaventura, fare l'elenco di tutti i singoli casi in cui il superiore è chiamato a esercitare tale discrezione, per cui si limita ad alcune situazioni più comuni e ricorrenti. Nel governo della comunità, così che questa si comporti in maniera debita, il superiore dovrà conoscere profondamente le abitudini, la mentalità e le energie di tutti i suoi sudditi, così da imporre il peso dell'osservanza della Regola, secondo quanto conviene a ciascuno. Non tutti, infatti, sono in grado di sostenere tutto allo stesso modo. Bonaventura si mostra, così, estremamente attento alle possibilità della persona e alle sue capacità concrete, contro un'anonima generalizzazione.
Lo stesso superiore deve altresì saper distinguere i diversi contenuti dell'osservanza. Se si tratta di disposizioni della Regola che obbligano gravemente, il suo atteggiamento sarà della massima fermezza: «È preferibile che non ci siano religiosi, là dove non possono o non vogliono vivere da religiosi; così non vanno in perdizione loro, e non sono motivo di scandalo per gli altri». Quando invece si tratti dell'esercizio di una maggior perfezione -- e il convento è stato istituito «perché fosse una palestra di perfezione» -- non vi si dovranno costringere i restii, ma si cercherà di invogliarli con le esortazioni e con la forza dell'esempio: «I consigli della perfezione si suggeriscono, non si impongono».
Infine, per quanto riguarda le pratiche che tradizionalmente contrassegnano e illustrano la vita religiosa (digiuni, silenzio, solenni celebrazioni, penitenze corporali) il superiore, quando veda che sia necessario o maggiormente utile, secondo i tempi e i luoghi, ne saprà dispensare senza difficoltà: essi non sono l'essenziale, ma soltanto degli strumenti e in questo è indispensabile «una notevole dose di discrezione, per saper tenere il giusto mezzo tra la rigidità e la cedevolezza».
Allo stesso modo, ci vorrà molta discrezione quando occorrerà correggere i fratelli colpevoli. A quelli che riconoscono il proprio errore e subito ne chiedono la penitenza, chi regge la comunità imporrà «una soddisfazione tale per cui riconosca la gravità del suo peccato; lo farà, tuttavia in modo clemente, così come vorrebbe che un altro facesse nei suoi confronti, se fosse caduto».
Nei confronti di quelli che invece tengono nascosta la propria colpa, il superiore, che pur ne è al corrente, si trova nell'impossibilità di intervenire. Infatti, «se corregge, non arreca giovamento e fa la figura più del diffamatore che non del correttore di vizi; se freme e dissimula, si sente interiormente bruciare e in preda all'ansia per l'anima del fratello e per se stesso, non riuscendo a emendare il colpevole. D'altronde, non essendo in grado di fare altro, non gli resta che dissimulare, esercitandosi nella pazienza e sforzandosi di ottenere con la preghiera quello che non gli riesce di conseguire con la correzione», sull'esempio di Gesù, «che a lungo ha tollerato il traditore Giuda, senza smascherarlo pubblicamente».
Certo, «una tale dissimulazione richiede tanta discrezione nel cuore del superiore, perché non abbia a deviare in nulla dalla strada giusta».
Si dà poi il caso di quelli che sono responsabili di colpe gravi, pubbliche, ma che non sono disposti a lasciarsi correggere, o fingono di accettare un emendamento, con la conseguenza dello scandalo che si diffonde in comunità o della pretesa dell'impunità. Si deve allora intervenire decisamente con un taglio netto; tale intervento non deve però avvenire «impulsivamente», ma «dopo una lunga consultazione con persone prudenti, provveduti dello spirito di Dio e del dono del consiglio».
Il Dottor serafico prosegue con una serie di avvertimenti. Il superiore deve guardarsi dall'affidare ad altri la «cura delle anime, per dedicarsi a quella delle cose temporali, dal momento che la perdita delle anime è un danno incomparabilmente più grande che non la perdita dei beni terreni»: i «beni spirituali e quanto è necessario alla salvezza e alla crescita delle virtù» appartengono alla «sostanza dell'ufficio pastorale» e quindi devono essere «l'oggetto principale del custode e del reggitore delle anime». Questi, poi, rappresenta il capo nel corpo della sua fraternità, e quindi deve provvedere al bene di tutti: come il capo in un corpo «ascolta, odora, gusta, parla» a vantaggio di tutte le membra, così fa il prelato per quelli che gli sono affidati.
E ancora: egli deve guardarsi, anche per la brevità del tempo a disposizione, dall'immergersi eccessivamente in attività non necessarie ed esteriori, come «edifici, libri» e altro. Si correrebbero molti rischi, come quello di trascurare cose più importanti, o quello di inquinare la coscienza, di «offuscare l'occhio della mente destinato alla contemplazione delle realtà spirituali e interiori», di «intiepidire il desiderio delle realtà celesti». Il «crescere degli impegni porta all'estinzione dello spirito», alla dispersione. «Sta alla discrezione del superiore valutare con prudenza ed esaminare assennatamente quali incombenze assumere e quanto sia conveniente attendervi».
Un'altra serie di avvertimenti concerne la coscienza personale del superiore -- che deve preoccuparsi di mantenere «sicura e nitida» -- e il suo comportamento esterno. Anche in quest'ambito gli si richiede «molta discrezione», per evitare di essere «o troppo triste, o troppo allegro; o troppo severo o troppo remissivo; o troppo silenzioso o troppo loquace; o troppo prodigo o troppo gretto».
«Sbaglia, comunque, meno, secondo il Dottor Serafico, se propende di più alla benignità»: con essa, infatti, «si rende più amabile ai suoi sudditi, che così sono portati a obbedirgli più volentieri, a ricorrere a lui con più larga fiducia e a imitarlo più prontamente».
È il motivo ricorrente di questo manuale bonaventuriano sul governo della comunità: «Quale vicario di Cristo il superiore deve mirare al massimo a essere amato dai suoi frati, così da attirarli più facilmente all'amore di Cristo».
(©L'Osservatore Romano 14 luglio 2013)
Con la discrezione di chi sa governare il gregge
di Inos Biffi
In uno dei suoi luminosi opuscoli, il De sex alis seraphim, san Bonaventura da Bagnoregio (del quale il 15 luglio ricorre la memoria liturgica) ci ha lasciato una circostanziata e penetrante descrizione delle doti che un superiore deve avere per reggere bene una comunità. Nel maestro francescano, infatti, l'ardore e la perspicacia teologica si accompagnavano felicemente a un'acuta conoscenza dell'indole umana e del comportamento consueto nelle comunità dei frati.
Attingendo all'immagine del crocifisso alato apparso a san Francesco, il Dottore serafico, nel quale abitualmente il concetto si riveste di immagine, definisce col nome di «ali» le sei “virtù” che devono distinguere il superiore, ossia: lo zelo per la giustizia, la pietà, la pazienza, l'esemplarità della vita, l'oculata discrezione, la devozione a Dio.
Ci soffermiamo su l'“oculata discrezione”, dove risaltano particolarmente la finezza spirituale e la saggezza pratica di Bonaventura.
Il superiore -- egli osserva -- è il «conduttore del gregge; se sbaglia, il gregge si troverebbe disperso e perirebbe». La sua funzione è paragonabile a quella dell'occhio: «Come l'occhio è la luce di tutto il corpo, così il pastore è la luce per il gregge affidatogli». Ed è duplice l'oculatezza che gli è necessaria: l'una riguarda ciò che si deve fare, l'altra il come lo si debba fare, dal momento che il bene se non vien ben fatto, ossia con discrezione, cessa di essere bene, com'è detto da san Bernardo. «Togli la discrezione, e la virtù diventa vizio».
Non è possibile, nota Bonaventura, fare l'elenco di tutti i singoli casi in cui il superiore è chiamato a esercitare tale discrezione, per cui si limita ad alcune situazioni più comuni e ricorrenti. Nel governo della comunità, così che questa si comporti in maniera debita, il superiore dovrà conoscere profondamente le abitudini, la mentalità e le energie di tutti i suoi sudditi, così da imporre il peso dell'osservanza della Regola, secondo quanto conviene a ciascuno. Non tutti, infatti, sono in grado di sostenere tutto allo stesso modo. Bonaventura si mostra, così, estremamente attento alle possibilità della persona e alle sue capacità concrete, contro un'anonima generalizzazione.
Lo stesso superiore deve altresì saper distinguere i diversi contenuti dell'osservanza. Se si tratta di disposizioni della Regola che obbligano gravemente, il suo atteggiamento sarà della massima fermezza: «È preferibile che non ci siano religiosi, là dove non possono o non vogliono vivere da religiosi; così non vanno in perdizione loro, e non sono motivo di scandalo per gli altri». Quando invece si tratti dell'esercizio di una maggior perfezione -- e il convento è stato istituito «perché fosse una palestra di perfezione» -- non vi si dovranno costringere i restii, ma si cercherà di invogliarli con le esortazioni e con la forza dell'esempio: «I consigli della perfezione si suggeriscono, non si impongono».
Infine, per quanto riguarda le pratiche che tradizionalmente contrassegnano e illustrano la vita religiosa (digiuni, silenzio, solenni celebrazioni, penitenze corporali) il superiore, quando veda che sia necessario o maggiormente utile, secondo i tempi e i luoghi, ne saprà dispensare senza difficoltà: essi non sono l'essenziale, ma soltanto degli strumenti e in questo è indispensabile «una notevole dose di discrezione, per saper tenere il giusto mezzo tra la rigidità e la cedevolezza».
Allo stesso modo, ci vorrà molta discrezione quando occorrerà correggere i fratelli colpevoli. A quelli che riconoscono il proprio errore e subito ne chiedono la penitenza, chi regge la comunità imporrà «una soddisfazione tale per cui riconosca la gravità del suo peccato; lo farà, tuttavia in modo clemente, così come vorrebbe che un altro facesse nei suoi confronti, se fosse caduto».
Nei confronti di quelli che invece tengono nascosta la propria colpa, il superiore, che pur ne è al corrente, si trova nell'impossibilità di intervenire. Infatti, «se corregge, non arreca giovamento e fa la figura più del diffamatore che non del correttore di vizi; se freme e dissimula, si sente interiormente bruciare e in preda all'ansia per l'anima del fratello e per se stesso, non riuscendo a emendare il colpevole. D'altronde, non essendo in grado di fare altro, non gli resta che dissimulare, esercitandosi nella pazienza e sforzandosi di ottenere con la preghiera quello che non gli riesce di conseguire con la correzione», sull'esempio di Gesù, «che a lungo ha tollerato il traditore Giuda, senza smascherarlo pubblicamente».
Certo, «una tale dissimulazione richiede tanta discrezione nel cuore del superiore, perché non abbia a deviare in nulla dalla strada giusta».
Si dà poi il caso di quelli che sono responsabili di colpe gravi, pubbliche, ma che non sono disposti a lasciarsi correggere, o fingono di accettare un emendamento, con la conseguenza dello scandalo che si diffonde in comunità o della pretesa dell'impunità. Si deve allora intervenire decisamente con un taglio netto; tale intervento non deve però avvenire «impulsivamente», ma «dopo una lunga consultazione con persone prudenti, provveduti dello spirito di Dio e del dono del consiglio».
Il Dottor serafico prosegue con una serie di avvertimenti. Il superiore deve guardarsi dall'affidare ad altri la «cura delle anime, per dedicarsi a quella delle cose temporali, dal momento che la perdita delle anime è un danno incomparabilmente più grande che non la perdita dei beni terreni»: i «beni spirituali e quanto è necessario alla salvezza e alla crescita delle virtù» appartengono alla «sostanza dell'ufficio pastorale» e quindi devono essere «l'oggetto principale del custode e del reggitore delle anime». Questi, poi, rappresenta il capo nel corpo della sua fraternità, e quindi deve provvedere al bene di tutti: come il capo in un corpo «ascolta, odora, gusta, parla» a vantaggio di tutte le membra, così fa il prelato per quelli che gli sono affidati.
E ancora: egli deve guardarsi, anche per la brevità del tempo a disposizione, dall'immergersi eccessivamente in attività non necessarie ed esteriori, come «edifici, libri» e altro. Si correrebbero molti rischi, come quello di trascurare cose più importanti, o quello di inquinare la coscienza, di «offuscare l'occhio della mente destinato alla contemplazione delle realtà spirituali e interiori», di «intiepidire il desiderio delle realtà celesti». Il «crescere degli impegni porta all'estinzione dello spirito», alla dispersione. «Sta alla discrezione del superiore valutare con prudenza ed esaminare assennatamente quali incombenze assumere e quanto sia conveniente attendervi».
Un'altra serie di avvertimenti concerne la coscienza personale del superiore -- che deve preoccuparsi di mantenere «sicura e nitida» -- e il suo comportamento esterno. Anche in quest'ambito gli si richiede «molta discrezione», per evitare di essere «o troppo triste, o troppo allegro; o troppo severo o troppo remissivo; o troppo silenzioso o troppo loquace; o troppo prodigo o troppo gretto».
«Sbaglia, comunque, meno, secondo il Dottor Serafico, se propende di più alla benignità»: con essa, infatti, «si rende più amabile ai suoi sudditi, che così sono portati a obbedirgli più volentieri, a ricorrere a lui con più larga fiducia e a imitarlo più prontamente».
È il motivo ricorrente di questo manuale bonaventuriano sul governo della comunità: «Quale vicario di Cristo il superiore deve mirare al massimo a essere amato dai suoi frati, così da attirarli più facilmente all'amore di Cristo».
(©L'Osservatore Romano 14 luglio 2013)
giovedì 11 luglio 2013
San Benedetto nell'inno di Paul Claudel (Biffi)
San Benedetto nell'inno di Paul Claudel
Quando al poeta mancò il cuore
di Inos Biffi
«All'uscita dall'infanzia»: è il tempo in cui Paul Claudel vede affacciarsi Benedetto, che si sente rivolte le gravi parole di Gesù: «Se l'uomo perde la sua anima, tutti i beni di questo mondo sono cose di nessun valore»; se lo dissipano e lo dominano «i suoi sogni a caso, le sue passioni, i suoi pensieri, come capre che vanno al pascolo, di qua, di là, in alto, in basso, ribelli e sparpagliate, e lasciano che l'anima si laceri e si frantumi, forse che ne abbiamo un'altra di ricambio?». Benedetto, rifiutando le acque inquinate, la coppa dell'amarezza e il fango che ha in noi la sua sorgente, «si mette in cammino, con il suo bastone in mano» e spinge «le sue pecore indocili sulla strada invisibile e sicura, la via stretta, che è la più facile», e che il poeta vede tracciata, «minuscola e unica», mentre tutt'intorno si estende un gran deserto, e una palude immensa, e a destra e a sinistra una monotonia di sabbia dopo sabbia. Ma è poi così duro rinunciare? Si tratta di dire di no «alla fame, alla sete, alla morte, all'inferno». In un mondo instabile e malfermo, è tanto dolce sentirsi sicuro: «Sicuro del proprio piede, sicuro del cammino e di ciò che si trova al suo traguardo, sicuro dei fratelli e di tutta la Chiesa in marcia attorno a noi, sicuro del Padre che ci guida!». Felice colui «che al centro del suo crocevia ha piantato la sua croce», colui «che alloggia Dio nel proprio cuore» e i cui pensieri «si volgono unicamente a Lui sette volte al giorno, come i monaci in coro»; felice «colui che ha mutato il carcere in clausura».
È stata la prima e ferma scelta di Benedetto, dal quale provengono molteplici ammonimenti e consigli salutari: «Piuttosto che ritornare a Dio, è più semplice non lasciarlo»; «Si è più sicuri del perdono, quando si cerca di meritarlo»; «Si va più in fretta quando si cammina diritto»; «Perché tormentarsi tanto a causa delle cose della terra, quando è semplice non avere nulla? Saremo tutti morti questa sera»; «Perché discutere tanto e parlare, quando è così facile tacere?»; «Piuttosto che vincere Satana, è più semplice guardarsene. L'atto vale di più del discorso. Piuttosto che lottare contro il mondo, è più semplice non guardarlo, e chiudere il cappuccio».
Dio personalmente ce lo assicura: basta nutrirsi di Lui nel silenzio, camminare, lavorare e obbedire sotto la custodia della sua grazia: «perché domandare altro?». E ancora: «Poiché Dio stesso vi dimora, perché noi dovremmo uscire dal suo tempio? Perché rimpiangere il Caos? E poiché la nostra beatitudine nel Cielo sarà di cantare insieme, perché non incominciare subito? E se la beatitudine in Cielo è quella di amare, perché, ora, la guerra? Perché fratelli separarci? Portiamo l'uno all'altro le nostre voci, vicendevolmente necessarie per un pieno accordo».
Ed ecco due ultime beatitudini: «Felici i figli di san Benedetto che sono tutti insieme con lui!»; e «Felice il discepolo segreto, dal quale senza parole emana, come qualcuno che dice sì, il consenso alla pace!».
Attraverso il sonoro e frondoso linguaggio dell'Inno di san Benedetto, Claudel ha così tracciato con chiarezza il profilo di san Benedetto come di colui che non ha perso e sprecato tempo tergiversando ed esitando, ma imboccando senza indugio e ripensamenti la via dell'essenziale linearità evangelica, in cui tutto si trova raccolto e unificato.
Ma non è difficile avvertire che Paul Claudel sente particolarmente rivolti a sé quegli ammonimenti spirituali e quegli interrogativi che attraversano insistenti e quasi ossessionanti il suo poema. Egli, frequentando i monasteri di Solesmes e Ligugé, provò fortemente l'attrattiva alla vita monastica. Probabilmente non era la sua vocazione. O non ebbe il coraggio di seguirla. Egli l'aveva sognato. Confesserà che gliene «mancava il cuore»: «Quel sacrificio, che costituiva senza dubbio la mia vocazione principale era troppo grande per le mie forze». E, tuttavia, quella rinuncia lascerà in lui per tutto il resto della sua vita una ferita irrimarginabile. Egli non cessò mai di provarne rimpianto e nostalgia e di dichiarare il grave sbaglio fatto a non aver ceduto a quel «pungente desiderio mistico».
Quando al poeta mancò il cuore
di Inos Biffi
«All'uscita dall'infanzia»: è il tempo in cui Paul Claudel vede affacciarsi Benedetto, che si sente rivolte le gravi parole di Gesù: «Se l'uomo perde la sua anima, tutti i beni di questo mondo sono cose di nessun valore»; se lo dissipano e lo dominano «i suoi sogni a caso, le sue passioni, i suoi pensieri, come capre che vanno al pascolo, di qua, di là, in alto, in basso, ribelli e sparpagliate, e lasciano che l'anima si laceri e si frantumi, forse che ne abbiamo un'altra di ricambio?». Benedetto, rifiutando le acque inquinate, la coppa dell'amarezza e il fango che ha in noi la sua sorgente, «si mette in cammino, con il suo bastone in mano» e spinge «le sue pecore indocili sulla strada invisibile e sicura, la via stretta, che è la più facile», e che il poeta vede tracciata, «minuscola e unica», mentre tutt'intorno si estende un gran deserto, e una palude immensa, e a destra e a sinistra una monotonia di sabbia dopo sabbia. Ma è poi così duro rinunciare? Si tratta di dire di no «alla fame, alla sete, alla morte, all'inferno». In un mondo instabile e malfermo, è tanto dolce sentirsi sicuro: «Sicuro del proprio piede, sicuro del cammino e di ciò che si trova al suo traguardo, sicuro dei fratelli e di tutta la Chiesa in marcia attorno a noi, sicuro del Padre che ci guida!». Felice colui «che al centro del suo crocevia ha piantato la sua croce», colui «che alloggia Dio nel proprio cuore» e i cui pensieri «si volgono unicamente a Lui sette volte al giorno, come i monaci in coro»; felice «colui che ha mutato il carcere in clausura».
È stata la prima e ferma scelta di Benedetto, dal quale provengono molteplici ammonimenti e consigli salutari: «Piuttosto che ritornare a Dio, è più semplice non lasciarlo»; «Si è più sicuri del perdono, quando si cerca di meritarlo»; «Si va più in fretta quando si cammina diritto»; «Perché tormentarsi tanto a causa delle cose della terra, quando è semplice non avere nulla? Saremo tutti morti questa sera»; «Perché discutere tanto e parlare, quando è così facile tacere?»; «Piuttosto che vincere Satana, è più semplice guardarsene. L'atto vale di più del discorso. Piuttosto che lottare contro il mondo, è più semplice non guardarlo, e chiudere il cappuccio».
Dio personalmente ce lo assicura: basta nutrirsi di Lui nel silenzio, camminare, lavorare e obbedire sotto la custodia della sua grazia: «perché domandare altro?». E ancora: «Poiché Dio stesso vi dimora, perché noi dovremmo uscire dal suo tempio? Perché rimpiangere il Caos? E poiché la nostra beatitudine nel Cielo sarà di cantare insieme, perché non incominciare subito? E se la beatitudine in Cielo è quella di amare, perché, ora, la guerra? Perché fratelli separarci? Portiamo l'uno all'altro le nostre voci, vicendevolmente necessarie per un pieno accordo».
Ed ecco due ultime beatitudini: «Felici i figli di san Benedetto che sono tutti insieme con lui!»; e «Felice il discepolo segreto, dal quale senza parole emana, come qualcuno che dice sì, il consenso alla pace!».
Attraverso il sonoro e frondoso linguaggio dell'Inno di san Benedetto, Claudel ha così tracciato con chiarezza il profilo di san Benedetto come di colui che non ha perso e sprecato tempo tergiversando ed esitando, ma imboccando senza indugio e ripensamenti la via dell'essenziale linearità evangelica, in cui tutto si trova raccolto e unificato.
Ma non è difficile avvertire che Paul Claudel sente particolarmente rivolti a sé quegli ammonimenti spirituali e quegli interrogativi che attraversano insistenti e quasi ossessionanti il suo poema. Egli, frequentando i monasteri di Solesmes e Ligugé, provò fortemente l'attrattiva alla vita monastica. Probabilmente non era la sua vocazione. O non ebbe il coraggio di seguirla. Egli l'aveva sognato. Confesserà che gliene «mancava il cuore»: «Quel sacrificio, che costituiva senza dubbio la mia vocazione principale era troppo grande per le mie forze». E, tuttavia, quella rinuncia lascerà in lui per tutto il resto della sua vita una ferita irrimarginabile. Egli non cessò mai di provarne rimpianto e nostalgia e di dichiarare il grave sbaglio fatto a non aver ceduto a quel «pungente desiderio mistico».
(©L'Osservatore Romano 11 luglio 2013)
Etichette:
articoli,
biffi,
cultura,
osservatore romano
lunedì 1 luglio 2013
Gesù risorto e la vittoria sul tempo. Contemporaneo a ogni epoca (Biffi)
Gesù risorto e la vittoria sul tempo
Contemporaneo a ogni epoca
di Inos Biffi
Fin che Gesù di Nazaret visse sulla terra, si trovò situato in un preciso spazio e circoscritto dentro un periodo ben databile della storia; l'umanità del Verbo di Dio -- come quella di ogni uomo -- sorge e si dispiega nel tempo e nello spazio. Questi legami spaziali e temporali si sciolsero però con la risurrezione, quando Gesù entrò in un'altra dimensione, quella ch'è chiamata escatologica: propriamente quindi non nell'eternità divina, che egli, quale Figlio di Dio, non lasciò mai, bensì nella condizione definitiva, non più scandibile secondo i ritmi transitori, e che i teologi medievali chiamavano “eviterno”.
Ora, Gesù risorto non è più attingibile nella forma degli abituali contatti umani come avveniva prima. È vero: dopo la risurrezione, egli appare e si mostra «vivo con molte prove» agli apostoli (Atti, 1, 3-4): «Guardate le mie mani e i miei piedi, sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho»; e prende cibo davanti a essi (Luca, 24, 39-43). Ma le sue apparizioni, prima del distacco definitivo, hanno un intento ben preciso: mirano a creare in loro la certezza della sua risurrezione dai morti che essi hanno come missione di annunziare.
Tuttavia, proprio perché risuscitato da morte, Gesù non è più trattenuto dai legami del tempo e dai confini dello spazio: li ha sciolti e oltrepassati, per cui si trova contemporaneo a ogni momento e a ogni luogo della storia. Egli è «qui, adesso». La risurrezione è vittoria assoluta e irreversibile sul tempo e sullo spazio. E non sorprende.
Non ci è, infatti, difficile osservare che quanto più un evento è povero di contenuto e di significato, tanto più è destinato a scomparire, a essere cioè assorbito a mano a mano che i giorni trascorrono. Solo la memoria lo può risuscitare, ma in se stesso è definitivamente tramontato. Il tempo è più forte e tende a cancellarne le tracce che divengono sempre più labili.
Al contrario, quanto più un evento è ricco di senso e pregno di sostanza, tanto maggiormente ha in sé la capacità di perseverare, di essere presente, e di opporsi al logorio della temporalità e di conseguenza ha la prerogativa di andare oltre la data del suo avvenimento.
In realtà solo un evento ebbe in se stesso un vigore tale da non subire il minimo logoramento e quindi l'assorbimento nel passato, ed essere invece permanentemente un presente, un “oggi”, ed è stato il sacrificio glorioso di Cristo, come sottolinea splendidamente la Lettera agli ebrei. I sacrifici carnali dell'antica alleanza, afflitti da intrinseca debolezza salvifica, e quindi soggetti a esaurimento e consunzione, dovevano essere continuati e ripetuti (Ebrei, 10, 11).
Al contrario, il sacrificio di Cristo -- sacerdote perfetto, «santo, innocente, senza macchia» (Ebrei, 7, 26) -- è capace di «redenzione eterna» (9, 12). È un sacrificio “celeste”. Non ha quindi bisogno di essere offerto «più volte» (9, 25); lo è stato «una volta per tutte» (7, 27) o «una sola volta» (9, 28). L'immolazione nel «sangue di Cristo», a differenza di quelle nel «sangue di capri e di vitelli» (9, 12-14), è dotata di un valore compiuto e intramontabile, a cui nulla ormai col trascorrere dei giorni potrebbe essere aggiunto.
Ora, Gesù risorto è esattamente il Crocifisso che, per la gloria e nella gloria del suo sacrificio, è sciolto per sempre da ogni vincolo che lo restringa o lo trattenga nelle trame temporali e lo estenui. Il che non significa che sia estraneo o fuori dal tempo, ma che trascende, nel senso che include e domina, tutto quanto si estende, fluisce e succede.
In altre parole, il Cristo risuscitato non è trascorso od oltrepassato; non è né relegabile a ieri, come ciò che è accaduto e non c'è più, né in attesa di un futuro che non c'è ancora. Egli è semplicemente e sempre contemporaneo. Come affermava sant'Ambrogio: «Oggi, mentre sto parlando, Cristo è con me; è in questo punto, è in questo momento; e se un cristiano sta adesso parlando in Armenia, là Gesù è presente» (Expositio evangelii secundum Lucam, ii, 13). Resta da chiederci quale sia la realtà che rende il sacrificio glorioso di Cristo intramontabilmente presente e operante. Possiamo rispondere: è la carità in esso contenuta. Nell'evento pasquale di Gesù si riversa il dono più grande che mai il Padre potesse fare al mondo, cioè il Figlio redentore; Dio ha esaurito in Gesù la sua grazia. Non ne è immaginabile una maggiore.
Da parte sua, morendo sulla croce, Gesù ha consumato l'amore dell'umanità per il Padre: non potremmo pensare a una dedizione e a una adorazione più ardente di quelle offerte dal Crocifisso, che sale sul patibolo a significare quanto egli ami il Padre (cfr. Giovanni, 14, 31).
Così come, non è concepibile una fraternità e un'amicizia più intense di quelle che il Signore ha manifestato sul Calvario, dove ha versato il suo sangue per tutta l'umanità (cfr. Giovanni, 15, 13; Matteo, 26, 28).
Esattamente per questa pienezza inesausta e inaccrescibile di amore, il Risorto è sempre compagno di ogni uomo, che non ha ragione alcuna di rimpiangere i tempi in cui Gesù viveva tra noi e nel quale ci si poteva visibilmente imbattere, dal momento che ancora lo stesso Signore gli è immancabilmente prossimo e cammina con lui, compagno in tutte le sue vicissitudini e peripezie, anche se ancora avvolto nel mistero.
(©L'Osservatore Romano 1-2 luglio 2013)
Contemporaneo a ogni epoca
di Inos Biffi
Fin che Gesù di Nazaret visse sulla terra, si trovò situato in un preciso spazio e circoscritto dentro un periodo ben databile della storia; l'umanità del Verbo di Dio -- come quella di ogni uomo -- sorge e si dispiega nel tempo e nello spazio. Questi legami spaziali e temporali si sciolsero però con la risurrezione, quando Gesù entrò in un'altra dimensione, quella ch'è chiamata escatologica: propriamente quindi non nell'eternità divina, che egli, quale Figlio di Dio, non lasciò mai, bensì nella condizione definitiva, non più scandibile secondo i ritmi transitori, e che i teologi medievali chiamavano “eviterno”.
Ora, Gesù risorto non è più attingibile nella forma degli abituali contatti umani come avveniva prima. È vero: dopo la risurrezione, egli appare e si mostra «vivo con molte prove» agli apostoli (Atti, 1, 3-4): «Guardate le mie mani e i miei piedi, sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho»; e prende cibo davanti a essi (Luca, 24, 39-43). Ma le sue apparizioni, prima del distacco definitivo, hanno un intento ben preciso: mirano a creare in loro la certezza della sua risurrezione dai morti che essi hanno come missione di annunziare.
Tuttavia, proprio perché risuscitato da morte, Gesù non è più trattenuto dai legami del tempo e dai confini dello spazio: li ha sciolti e oltrepassati, per cui si trova contemporaneo a ogni momento e a ogni luogo della storia. Egli è «qui, adesso». La risurrezione è vittoria assoluta e irreversibile sul tempo e sullo spazio. E non sorprende.
Non ci è, infatti, difficile osservare che quanto più un evento è povero di contenuto e di significato, tanto più è destinato a scomparire, a essere cioè assorbito a mano a mano che i giorni trascorrono. Solo la memoria lo può risuscitare, ma in se stesso è definitivamente tramontato. Il tempo è più forte e tende a cancellarne le tracce che divengono sempre più labili.
Al contrario, quanto più un evento è ricco di senso e pregno di sostanza, tanto maggiormente ha in sé la capacità di perseverare, di essere presente, e di opporsi al logorio della temporalità e di conseguenza ha la prerogativa di andare oltre la data del suo avvenimento.
In realtà solo un evento ebbe in se stesso un vigore tale da non subire il minimo logoramento e quindi l'assorbimento nel passato, ed essere invece permanentemente un presente, un “oggi”, ed è stato il sacrificio glorioso di Cristo, come sottolinea splendidamente la Lettera agli ebrei. I sacrifici carnali dell'antica alleanza, afflitti da intrinseca debolezza salvifica, e quindi soggetti a esaurimento e consunzione, dovevano essere continuati e ripetuti (Ebrei, 10, 11).
Al contrario, il sacrificio di Cristo -- sacerdote perfetto, «santo, innocente, senza macchia» (Ebrei, 7, 26) -- è capace di «redenzione eterna» (9, 12). È un sacrificio “celeste”. Non ha quindi bisogno di essere offerto «più volte» (9, 25); lo è stato «una volta per tutte» (7, 27) o «una sola volta» (9, 28). L'immolazione nel «sangue di Cristo», a differenza di quelle nel «sangue di capri e di vitelli» (9, 12-14), è dotata di un valore compiuto e intramontabile, a cui nulla ormai col trascorrere dei giorni potrebbe essere aggiunto.
Ora, Gesù risorto è esattamente il Crocifisso che, per la gloria e nella gloria del suo sacrificio, è sciolto per sempre da ogni vincolo che lo restringa o lo trattenga nelle trame temporali e lo estenui. Il che non significa che sia estraneo o fuori dal tempo, ma che trascende, nel senso che include e domina, tutto quanto si estende, fluisce e succede.
In altre parole, il Cristo risuscitato non è trascorso od oltrepassato; non è né relegabile a ieri, come ciò che è accaduto e non c'è più, né in attesa di un futuro che non c'è ancora. Egli è semplicemente e sempre contemporaneo. Come affermava sant'Ambrogio: «Oggi, mentre sto parlando, Cristo è con me; è in questo punto, è in questo momento; e se un cristiano sta adesso parlando in Armenia, là Gesù è presente» (Expositio evangelii secundum Lucam, ii, 13). Resta da chiederci quale sia la realtà che rende il sacrificio glorioso di Cristo intramontabilmente presente e operante. Possiamo rispondere: è la carità in esso contenuta. Nell'evento pasquale di Gesù si riversa il dono più grande che mai il Padre potesse fare al mondo, cioè il Figlio redentore; Dio ha esaurito in Gesù la sua grazia. Non ne è immaginabile una maggiore.
Da parte sua, morendo sulla croce, Gesù ha consumato l'amore dell'umanità per il Padre: non potremmo pensare a una dedizione e a una adorazione più ardente di quelle offerte dal Crocifisso, che sale sul patibolo a significare quanto egli ami il Padre (cfr. Giovanni, 14, 31).
Così come, non è concepibile una fraternità e un'amicizia più intense di quelle che il Signore ha manifestato sul Calvario, dove ha versato il suo sangue per tutta l'umanità (cfr. Giovanni, 15, 13; Matteo, 26, 28).
Esattamente per questa pienezza inesausta e inaccrescibile di amore, il Risorto è sempre compagno di ogni uomo, che non ha ragione alcuna di rimpiangere i tempi in cui Gesù viveva tra noi e nel quale ci si poteva visibilmente imbattere, dal momento che ancora lo stesso Signore gli è immancabilmente prossimo e cammina con lui, compagno in tutte le sue vicissitudini e peripezie, anche se ancora avvolto nel mistero.
(©L'Osservatore Romano 1-2 luglio 2013)
Continuità e rinnovamento nel Primato di Pietro (Biffi)
Su segnalazione di Fabiola leggiamo:
CONTINUITÀ E RINNOVAMENTO NEL PRIMATO DI PIETRO
Amare e servire
INOS BIFFI
Gesù Cristo ha affidato il governo della sua Chiesa a tutto il Collegio degli Apostoli, costituendo in essa Pietro quale roccia e fondamento.
Non per volontà di Pietro la Chiesa è apostolica; allo stesso modo non per la decisione dei Dodici Pietro detiene il primato: esso, infatti, non consegue a un loro accordo di eleggere Simone come primo tra di loro e come loro rappresentante; deriva invece da una esclusiva e precisa determinazione di Gesù, che sempre singolarmente a Simone ha affidato l’ufficio di Pastore, con il mandato il pascere il suo gregge.
Una Chiesa che non fosse apostolica non sarebbe la Chiesa di Cristo, come non lo sarebbe una Chiesa dove non vi! gesse il primato di Pietro.
L’ha ricordato ancora ieri Papa Francesco, nella festa dei santi Pietro e Paolo, spiegando che il Vescovo di Roma deve «confermare nell’unità: il Sinodo dei Vescovi, in armonia con il primato» e con il suo «servizio». Per una chiara disposizione di Gesù Cristo la Chiesa è apostolica e petrina.
Ed esattamente con questa essenziale identità e configurazione la ritroviamo nella Tradizione. In virtù del sacramento dell’episcopato, al Collegio apostolico è succeduto il Collegio dei Vescovi, come a Pietro è succeduto il suo vicario, cioè il Vescovo di Roma.
Il Vaticano II ripropone la dottrina di fede del Vaticano I: rimane cioè intatto quanto dichiarava la costituzione Pastor Aeternus a proposito del Romano Pontefice, che ha «la piena e suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa», potestà «ordinaria e immediata», «sia su tutte e su ciascuna delle Chiese sia su tutti e su ciascuno de! i pastori» (Denzinger, 3064).
Con la conseguenza dell’infallibilità – la stessa «di cui il divino Redentore ha voluto dotata la sua Chiesa» –, nel caso in cui il Romano Pontefice parli «ex cathedra, cioè quando, adempiendo il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani, in virtù della sua suprema autorità apostolica definisce che una dottrina riguardante la fede o i costumi dev’essere ritenuta da tutta la Chiesa».
Quindi queste definizioni sono irreformabili per virtù propria, e non per il consenso della Chiesa.
Lo stesso Vaticano I non mancava di ricordare il collegio dei Vescovi, e citava le parole di Gregorio Magno: «Mio onore è l’onore della Chiesa universale. Mio onore è il solido vigore dei miei fratelli. Allora io mi sento veramente onorato, quando ad ognuno di essi non si nega l’onore dovuto».
Il Vaticano II, tuttavia, con la dottrina relativa al Collegio dei Vescovi, completa ed esplicita ampiamente la dottrina del Vaticano I, in particolare rilevando che essi sono preposti al governo della Chiesa universale per isti! tuzione divina, quindi per la potestà ricevuta immediatamente da Cristo e con un «potere loro proprio» ( Lumen gentium , n.22). Riconosciuto questo, non è fuori luogo osservare, sulla scia della storia, che la maniera concreta di esercizio del primato può mutare, assumendo, per esempio, una forma maggiormente collegiale.
Già il Concilio di fatto ha istituito il Sinodo dei Vescovi; allo stesso modo può essere diverso, quasi meno 'giuridico', il linguaggio con cui tale primato viene espresso. Occorre, in ogni caso, che resti invariato e si riconosca imprescindibile il suo contenuto dogmatico, dovuto all’istituzione di Cristo, per la quale non esiste Collegio dei Vescovi in cui non sia presente e operante quale Capo il Vicario di Pietro ( cum Petro et sub Petro).
Ecco perché – di là dagli orientamenti o preferenze di scuole teologiche (se così si possono chiamare) o dalle simpatie e dalle buone intenzioni – non è affatto conforme con la dottrina di fede, riproposta dal Vaticano II, parlare, secondo un uso che si va diffondendo, del Sommo Pontefice semplicemente come di un «primo tra pari ( primus inter pares ) », proprio perché il Vicario di Pietro non è 'pari'.
E, ugualmente, non è consono al dogma riconoscergli un primato solo d’onore, dovuto all’origine petrina e paolina della Sede romana, restando indubbio che la sostanza di quel presiedere e governare del successore di Pietro consiste nell’amare e nel servire.
D’altronde, la Chiesa è una realtà unica e originale; una realtà di grazia, che non ha modelli di paragone tra i vari generi di società umana, e che si può comprendere e accogliere unicamente per fede.
© Copyright Avvenire, 30 giugno 2013
CONTINUITÀ E RINNOVAMENTO NEL PRIMATO DI PIETRO
Amare e servire
INOS BIFFI
Gesù Cristo ha affidato il governo della sua Chiesa a tutto il Collegio degli Apostoli, costituendo in essa Pietro quale roccia e fondamento.
Non per volontà di Pietro la Chiesa è apostolica; allo stesso modo non per la decisione dei Dodici Pietro detiene il primato: esso, infatti, non consegue a un loro accordo di eleggere Simone come primo tra di loro e come loro rappresentante; deriva invece da una esclusiva e precisa determinazione di Gesù, che sempre singolarmente a Simone ha affidato l’ufficio di Pastore, con il mandato il pascere il suo gregge.
Una Chiesa che non fosse apostolica non sarebbe la Chiesa di Cristo, come non lo sarebbe una Chiesa dove non vi! gesse il primato di Pietro.
L’ha ricordato ancora ieri Papa Francesco, nella festa dei santi Pietro e Paolo, spiegando che il Vescovo di Roma deve «confermare nell’unità: il Sinodo dei Vescovi, in armonia con il primato» e con il suo «servizio». Per una chiara disposizione di Gesù Cristo la Chiesa è apostolica e petrina.
Ed esattamente con questa essenziale identità e configurazione la ritroviamo nella Tradizione. In virtù del sacramento dell’episcopato, al Collegio apostolico è succeduto il Collegio dei Vescovi, come a Pietro è succeduto il suo vicario, cioè il Vescovo di Roma.
Il Vaticano II ripropone la dottrina di fede del Vaticano I: rimane cioè intatto quanto dichiarava la costituzione Pastor Aeternus a proposito del Romano Pontefice, che ha «la piena e suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa», potestà «ordinaria e immediata», «sia su tutte e su ciascuna delle Chiese sia su tutti e su ciascuno de! i pastori» (Denzinger, 3064).
Con la conseguenza dell’infallibilità – la stessa «di cui il divino Redentore ha voluto dotata la sua Chiesa» –, nel caso in cui il Romano Pontefice parli «ex cathedra, cioè quando, adempiendo il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani, in virtù della sua suprema autorità apostolica definisce che una dottrina riguardante la fede o i costumi dev’essere ritenuta da tutta la Chiesa».
Quindi queste definizioni sono irreformabili per virtù propria, e non per il consenso della Chiesa.
Lo stesso Vaticano I non mancava di ricordare il collegio dei Vescovi, e citava le parole di Gregorio Magno: «Mio onore è l’onore della Chiesa universale. Mio onore è il solido vigore dei miei fratelli. Allora io mi sento veramente onorato, quando ad ognuno di essi non si nega l’onore dovuto».
Il Vaticano II, tuttavia, con la dottrina relativa al Collegio dei Vescovi, completa ed esplicita ampiamente la dottrina del Vaticano I, in particolare rilevando che essi sono preposti al governo della Chiesa universale per isti! tuzione divina, quindi per la potestà ricevuta immediatamente da Cristo e con un «potere loro proprio» ( Lumen gentium , n.22). Riconosciuto questo, non è fuori luogo osservare, sulla scia della storia, che la maniera concreta di esercizio del primato può mutare, assumendo, per esempio, una forma maggiormente collegiale.
Già il Concilio di fatto ha istituito il Sinodo dei Vescovi; allo stesso modo può essere diverso, quasi meno 'giuridico', il linguaggio con cui tale primato viene espresso. Occorre, in ogni caso, che resti invariato e si riconosca imprescindibile il suo contenuto dogmatico, dovuto all’istituzione di Cristo, per la quale non esiste Collegio dei Vescovi in cui non sia presente e operante quale Capo il Vicario di Pietro ( cum Petro et sub Petro).
Ecco perché – di là dagli orientamenti o preferenze di scuole teologiche (se così si possono chiamare) o dalle simpatie e dalle buone intenzioni – non è affatto conforme con la dottrina di fede, riproposta dal Vaticano II, parlare, secondo un uso che si va diffondendo, del Sommo Pontefice semplicemente come di un «primo tra pari ( primus inter pares ) », proprio perché il Vicario di Pietro non è 'pari'.
E, ugualmente, non è consono al dogma riconoscergli un primato solo d’onore, dovuto all’origine petrina e paolina della Sede romana, restando indubbio che la sostanza di quel presiedere e governare del successore di Pietro consiste nell’amare e nel servire.
D’altronde, la Chiesa è una realtà unica e originale; una realtà di grazia, che non ha modelli di paragone tra i vari generi di società umana, e che si può comprendere e accogliere unicamente per fede.
© Copyright Avvenire, 30 giugno 2013
Etichette:
articoli,
biffi,
chiesa cattolica,
papa,
teologia
venerdì 21 giugno 2013
Tommaso compagno di una vita. Per decenni Giovanni Battista Montini trascrisse e commentò passi dell'Aquinate (Biffi)
Tommaso compagno di una vita
Per decenni Giovanni Battista Montini trascrisse e commentò passi dell'Aquinate
di Inos Biffi
Più che attraverso i manuali scolastici la formazione teologica di Giovanni Battista Montini è avvenuta con lo studio dei grandi maestri del pensiero cristiano. Il primo di essi è riconosciuto certamente in sant'Agostino, al quale tuttavia va subito aggiunto san Tommaso d'Aquino. Montini è insieme agostiniano e tomista: conviene in lui l'ardore, la sensibilità mentale, l'interiorità del dottore di Ippona, ma non meno l'acuta e profonda lucidità, la “razionalità”, e l'esigenza logica del Dottore Angelico. E questo è forse meno consueto ritenerlo. In alcune note scritte da Montini nel 1931 sotto il titolo Spiritus veritatis si legge: «qualunque sia l'ordine dei miei studi, amerò la letteratura che raccoglie il pensiero tradizionale della Chiesa. Sant'Agostino e san Tommaso avranno da me venerazione particolare».
Veramente, già gli scritti editi di Montini rivelano Tommaso come una delle sue fonti; ma soprattutto si avverte la sua familiarità con «il principe dei teologi» -- come egli lo definiva -- sfogliando e studiando i suoi Quaderni, con l'infinità di passi o di riferimenti tomistici trascritti di prima mano lungo tutto il corso della sua vita. Sarebbe possibile, dalla loro analisi e dal loro studio, individuare e collegare una grande varietà di temi illustrati da Montini coi testi e la dottrina di Tommaso. È il caso, per fare qualche esempio, dell'ecclesiologia, dei sacramenti, specialmente dell'Eucaristia e dell'Ordine, dell'antropologia, dell'etica, della vita spirituale e religiosa, dell'itinerario a Dio, della fede. Esattamente su questi due ultimi argomenti vorremmo fare una considerazione.
Montini conosce bene le “vie” tomiste per arrivare a Dio, e ne offre un raffinato esame, mostrando tutta la sua ineccepibile capacità metafisica. Scrive: «Meditare su Dio è molto più bello che meditare su le vie che a lui conducono. Tuttavia osservare l'esigenza intrinseca che ogni essere ha di lui e di proclamarsi insufficiente e perciò creato, ascoltare l'appello che sale dall'universo verso il suo principio e il suo fine (...) è tal cosa che inebria di grandezza e di sapienza e offre alla preghiera e al pensiero ali sconfinate», e cita il testo della Summa Theologiae (i, 4, 5, 2m): «Dio è detto misura di tutte le cose, per il fatto che ogni cosa partecipa l'essere nella misura in cui si avvicina lui». Per altro, «tutti quello che bramano le proprie perfezioni, bramano Dio stesso» (i, 6, 1, 2m).
E a proposito della fede Montini riporta la definizione di Tommaso: «La fede è un abito della mente, grazie al quale incomincia in noi la vita eterna» (ii-ii, 14, 1) e cita più volte l'affermazione: «L'oggetto della fede, pur essendo in se stesso semplice, assume nel credente la forma complessa dell'enunciazione», restando in ogni caso vero che «l'atto del credente non ha come sua meta l'enunciazione, ma la comunione con la realtà» (ii-ii, 1, 2, ad 2).
Ancora, sono note a Montini le affermazioni dell'Angelico: «Di Dio conosciamo quello che non è, mentre, quello che è, ci risulta affatto sconosciuto» (Summa contra Gentiles, III, 49); e: «In questa vita noi conosciamo Dio tanto più perfettamente, quanto più ci rendiamo conto che egli eccede tutto quello che è compreso mediante l'intelletto» (Summa Theologiae, ii-ii, 8, 7). D'altronde, «la più piccola cognizione che si può avere di Dio supera ogni cognizione che si ha della creatura» (De veritate, x, 7 ad 3).
Ma egli si sofferma anche su quest'altra: «Benché in questa vita noi conosciamo Dio mediatamente, tuttavia, con la dilezione della carità, lo possiamo amare immediatamente» (Summa Theologiae, ii-ii, 27, 4).
Gli è ugualmente nota la dottrina di Tommaso sulla conoscenza “simpatica” o per connaturalità; non mancando però di avvertire che «l'amore nell'atto di fede compie un ufficio essenziale, ma senza detrimento dell'intellettualità più rigorosa».
Abbiamo offerto un breve e semplice saggio di come Montini sia stato discepolo diligente e appassionato di Tommaso d'Aquino: un indice ulteriore della sua incomparabile personalità, dove la vastissima cultura diventava esperienza, sapienza e magistero.
(©L'Osservatore Romano 21 giugno 2013)
Per decenni Giovanni Battista Montini trascrisse e commentò passi dell'Aquinate
di Inos Biffi
Più che attraverso i manuali scolastici la formazione teologica di Giovanni Battista Montini è avvenuta con lo studio dei grandi maestri del pensiero cristiano. Il primo di essi è riconosciuto certamente in sant'Agostino, al quale tuttavia va subito aggiunto san Tommaso d'Aquino. Montini è insieme agostiniano e tomista: conviene in lui l'ardore, la sensibilità mentale, l'interiorità del dottore di Ippona, ma non meno l'acuta e profonda lucidità, la “razionalità”, e l'esigenza logica del Dottore Angelico. E questo è forse meno consueto ritenerlo. In alcune note scritte da Montini nel 1931 sotto il titolo Spiritus veritatis si legge: «qualunque sia l'ordine dei miei studi, amerò la letteratura che raccoglie il pensiero tradizionale della Chiesa. Sant'Agostino e san Tommaso avranno da me venerazione particolare».
Veramente, già gli scritti editi di Montini rivelano Tommaso come una delle sue fonti; ma soprattutto si avverte la sua familiarità con «il principe dei teologi» -- come egli lo definiva -- sfogliando e studiando i suoi Quaderni, con l'infinità di passi o di riferimenti tomistici trascritti di prima mano lungo tutto il corso della sua vita. Sarebbe possibile, dalla loro analisi e dal loro studio, individuare e collegare una grande varietà di temi illustrati da Montini coi testi e la dottrina di Tommaso. È il caso, per fare qualche esempio, dell'ecclesiologia, dei sacramenti, specialmente dell'Eucaristia e dell'Ordine, dell'antropologia, dell'etica, della vita spirituale e religiosa, dell'itinerario a Dio, della fede. Esattamente su questi due ultimi argomenti vorremmo fare una considerazione.
Montini conosce bene le “vie” tomiste per arrivare a Dio, e ne offre un raffinato esame, mostrando tutta la sua ineccepibile capacità metafisica. Scrive: «Meditare su Dio è molto più bello che meditare su le vie che a lui conducono. Tuttavia osservare l'esigenza intrinseca che ogni essere ha di lui e di proclamarsi insufficiente e perciò creato, ascoltare l'appello che sale dall'universo verso il suo principio e il suo fine (...) è tal cosa che inebria di grandezza e di sapienza e offre alla preghiera e al pensiero ali sconfinate», e cita il testo della Summa Theologiae (i, 4, 5, 2m): «Dio è detto misura di tutte le cose, per il fatto che ogni cosa partecipa l'essere nella misura in cui si avvicina lui». Per altro, «tutti quello che bramano le proprie perfezioni, bramano Dio stesso» (i, 6, 1, 2m).
E a proposito della fede Montini riporta la definizione di Tommaso: «La fede è un abito della mente, grazie al quale incomincia in noi la vita eterna» (ii-ii, 14, 1) e cita più volte l'affermazione: «L'oggetto della fede, pur essendo in se stesso semplice, assume nel credente la forma complessa dell'enunciazione», restando in ogni caso vero che «l'atto del credente non ha come sua meta l'enunciazione, ma la comunione con la realtà» (ii-ii, 1, 2, ad 2).
Ancora, sono note a Montini le affermazioni dell'Angelico: «Di Dio conosciamo quello che non è, mentre, quello che è, ci risulta affatto sconosciuto» (Summa contra Gentiles, III, 49); e: «In questa vita noi conosciamo Dio tanto più perfettamente, quanto più ci rendiamo conto che egli eccede tutto quello che è compreso mediante l'intelletto» (Summa Theologiae, ii-ii, 8, 7). D'altronde, «la più piccola cognizione che si può avere di Dio supera ogni cognizione che si ha della creatura» (De veritate, x, 7 ad 3).
Ma egli si sofferma anche su quest'altra: «Benché in questa vita noi conosciamo Dio mediatamente, tuttavia, con la dilezione della carità, lo possiamo amare immediatamente» (Summa Theologiae, ii-ii, 27, 4).
Gli è ugualmente nota la dottrina di Tommaso sulla conoscenza “simpatica” o per connaturalità; non mancando però di avvertire che «l'amore nell'atto di fede compie un ufficio essenziale, ma senza detrimento dell'intellettualità più rigorosa».
Abbiamo offerto un breve e semplice saggio di come Montini sia stato discepolo diligente e appassionato di Tommaso d'Aquino: un indice ulteriore della sua incomparabile personalità, dove la vastissima cultura diventava esperienza, sapienza e magistero.
(©L'Osservatore Romano 21 giugno 2013)
giovedì 30 maggio 2013
Non solo un simbolo. La fede della Chiesa nel Corpo e nel Sangue di Cristo (Biffi)
La fede della Chiesa nel Corpo e nel Sangue di Cristo
Non solo un simbolo
di Inos Biffi
Ogni messa è la festa del Corpo e del Sangue del Signore; ne è la presenza reale e necessaria, poiché la Chiesa non può fare a meno del Corpo di Cristo, ossia della sua passione e dell'amore che in quel Corpo ritrova e assume. Oggi viene esaltata soprattutto la presenza reale di Gesù nell'Eucaristia: la solennità è nata per proclamarla e farne oggetto di adorazione, quando sorse il rischio che nella coscienza cristiana tale presenza si obnubilasse.
La vigilia della sua passione Gesù non ha lasciato un semplice simbolo di se stesso, o una sua memoria affidata solo al desiderio o all'intensità del loro affetto: egli ha lasciato la sua persona nella forma del suo sacrificio; ha consegnato la sua vita (il suo sangue) non trattenuta per sé, ma offerta per la liberazione dell'uomo. Il simbolo religioso, commemorativo, non è la novità cristiana: questa novità consiste nel fatto sorprendente che nel modo e nell'indicazione del segno del pane e del vino e quindi di una convivialità umana, Cristo ha dato se stesso; così, il segno eucaristico non è indice di lontananza, rimando a un'assenza, ma tramite di vera presenza. Del resto con il Signore Gesù i simboli non contano più; alla loro ombra si è sostituita la Sua verità; alla loro attesa la Sua venuta, nell'Eucaristia Gesù ha reso disponibile se stesso, poiché l'uomo non ha bisogno di altri che di lui e dello Spirito che viene da lui. Professare la presenza di Gesù nell'Eucaristia, nella verità del suo Corpo e del suo Sangue, vuol dire riconoscere che da lui viene la nostra salvezza: dalla comunione personale e insostituibile che con lui si stabilisce.
Il segno eucaristico è il convito: Gesù offre il suo Corpo e il suo Sangue perché siano cibo e bevanda dei suoi discepoli, creando una condivisione di vita e di destino. La teologia e la poesia cristiana lo proclamano dal tempo della festa del Corpus Domini: «O sacro convito, dove Cristo è ricevuto come cibo».
Non è certamente la Chiesa con la sua fede a trasformare il pane e il vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo: nella fede della Chiesa agisce la volontà e la forza di Gesù Cristo, mediante il dono dello Spirito. Noi non possiamo disporre del Corpo del Signore: soltanto lo possiamo ricevere come dono, che viene dall'intervento di Gesù Cristo che trasforma il pane e il vino nel suo Corpo e nel suo Sangue. Come per virtù dello Spirito Santo Gesù è stato concepito nel grembo di Maria, così per lo stesso Spirito è presente nella Chiesa -- nel sacramento dell'Eucaristia -- il Corpo del Signore.
Cristo stesso, con il suo Spirito, è l'autore della “transustanziazione”, di quella trasformazione, per cui tutta l'identità del pane e del vino è mutata nell'identità del Corpo e del Sangue del Signore, permanendo unicamente l'apparenza o meglio il segno. Come spiega sant'Ambrogio: «Quando si viene a compiere il venerabile sacramento, il sacerdote usa le parole di Cristo. È dunque la parola di Cristo a compiere questo sacramento. Il pane, prima di essere consacrato, è pane; quando sono pronunziate le parole di Cristo, è corpo di Cristo; prima delle parole di Cristo il calice è un calice pieno di vino e di acqua; quando le parole di Cristo hanno operato, nel calice si forma il sangue che ha redento il popolo. La parola di Cristo ha il potere di trasformare tutte le cose» (De sacramentis, iv, 4, 14; 5, 23). Il ministero sacerdotale è un servizio alla signoria di Gesù.
Per parte loro, le nuove preghiere di consacrazione hanno perspicuamente messo in luce l'azione transustanziante dello Spirito: «Manda il tuo Spirito -- prega il celebrante -- a santificare i doni che ti offriamo, perché diventino il corpo e il sangue di Gesù Cristo tuo Figlio e nostro Signore, che ci ha comandato di celebrare questi misteri».
Ancora sant'Ambrogio esclamerà: «Da te il nostro ministero riceve il valore di sacramento. Non è della potenza umana comunicare i beni divini, ma è dono tuo, o Signore» (cfr. De Spiritu Sancto, 1, Prol., 17). Ossia: sei tu a conferire ai nostri gesti esteriori un intimo valore sacramentale, efficace di grazia. E questa è la ragione profonda dell'umiltà del servizio sacerdotale. Da secoli la Chiesa, per indicare la mutazione eucaristica, usa il termine “transustanziazione”; se la sua origine è filosofica, esso è ritenuto dalla Chiesa termine prezioso e particolarmente adatto per dire che il pane e il vino non ricevono nell'Eucaristia soltanto un significato e una finalità nuova, ma sono radicalmente trasformati, per coincidere «veramente, realmente, sostanzialmente» (come dice il concilio di Trento, Decretum de Sanctissimo Eucharistiae Sacramento, can. 1; Denz. 1651) col Corpo e col Sangue del Signore.
Se c'è un tempo in cui ci appare soprattutto necessaria la conservazione di questo linguaggio è il nostro, segnato dalla tentazione di una pura simbolicità eucaristica. Anche dopo la celebrazione Cristo rimane presente nell'Eucaristia con il suo Corpo e il suo Sangue, con la sua persona; per questo continua il suo culto di adorazione da parte della Chiesa: il culto che la festa del Corpo e del Sangue del Signore intende specialmente esaltare. L'Eucaristia nel tabernacolo è come lo spazio della presenza del Signore nella nostra storia. Il sacramento non distanzia e non separa, ma inclina e dispone all'incontro, in prosieguo con la comunione. La centralità della messa non deve mettere in ombra quella Presenza eucaristica fuori di essa, che così felicemente e intensamente suscita la preghiera come relazione viva con la persona di Cristo, “abitualmente” incontrabile nel segno della sua stabile dimora sacramentale con la sua Chiesa. L'adorazione eucaristica è stata uno dei più forti stimoli alla diffusione e all'approfondimento dello spirito di orazione. Sarebbe un deplorevole impoverimento se dovesse declinare per una male intesa riforma liturgica. E va detto al riguardo che l'aver talora rarefatto e immiserito, se non contestato, i segni della presenza reale di Cristo nell'Eucaristia non è stata una pastorale avveduta, se pur addirittura un occultarsi dei segni non sia stato in qualche caso persino l'indice di un affievolirsi della fede nella stessa Presenza reale.
«O Gesù che ora cerco di contemplare velato nel segno -- pregava appassionatamente il teologo dell'Eucaristia, san Tommaso -- appaga il mio bruciante desiderio di poter un giorno ammirare il tuo volto e di essere beato nella visione della tua gloria» (Adoro te, devote): l'adorazione eucaristica sollecita e nutre il desiderio di un incontro con Cristo, oltre la fede, in un appuntamento e in un incontro faccia a faccia, che duri per l'eternità.
(©L'Osservatore Romano 30 maggio 2013)
Non solo un simbolo
di Inos Biffi
Ogni messa è la festa del Corpo e del Sangue del Signore; ne è la presenza reale e necessaria, poiché la Chiesa non può fare a meno del Corpo di Cristo, ossia della sua passione e dell'amore che in quel Corpo ritrova e assume. Oggi viene esaltata soprattutto la presenza reale di Gesù nell'Eucaristia: la solennità è nata per proclamarla e farne oggetto di adorazione, quando sorse il rischio che nella coscienza cristiana tale presenza si obnubilasse.
La vigilia della sua passione Gesù non ha lasciato un semplice simbolo di se stesso, o una sua memoria affidata solo al desiderio o all'intensità del loro affetto: egli ha lasciato la sua persona nella forma del suo sacrificio; ha consegnato la sua vita (il suo sangue) non trattenuta per sé, ma offerta per la liberazione dell'uomo. Il simbolo religioso, commemorativo, non è la novità cristiana: questa novità consiste nel fatto sorprendente che nel modo e nell'indicazione del segno del pane e del vino e quindi di una convivialità umana, Cristo ha dato se stesso; così, il segno eucaristico non è indice di lontananza, rimando a un'assenza, ma tramite di vera presenza. Del resto con il Signore Gesù i simboli non contano più; alla loro ombra si è sostituita la Sua verità; alla loro attesa la Sua venuta, nell'Eucaristia Gesù ha reso disponibile se stesso, poiché l'uomo non ha bisogno di altri che di lui e dello Spirito che viene da lui. Professare la presenza di Gesù nell'Eucaristia, nella verità del suo Corpo e del suo Sangue, vuol dire riconoscere che da lui viene la nostra salvezza: dalla comunione personale e insostituibile che con lui si stabilisce.
Il segno eucaristico è il convito: Gesù offre il suo Corpo e il suo Sangue perché siano cibo e bevanda dei suoi discepoli, creando una condivisione di vita e di destino. La teologia e la poesia cristiana lo proclamano dal tempo della festa del Corpus Domini: «O sacro convito, dove Cristo è ricevuto come cibo».
Non è certamente la Chiesa con la sua fede a trasformare il pane e il vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo: nella fede della Chiesa agisce la volontà e la forza di Gesù Cristo, mediante il dono dello Spirito. Noi non possiamo disporre del Corpo del Signore: soltanto lo possiamo ricevere come dono, che viene dall'intervento di Gesù Cristo che trasforma il pane e il vino nel suo Corpo e nel suo Sangue. Come per virtù dello Spirito Santo Gesù è stato concepito nel grembo di Maria, così per lo stesso Spirito è presente nella Chiesa -- nel sacramento dell'Eucaristia -- il Corpo del Signore.
Cristo stesso, con il suo Spirito, è l'autore della “transustanziazione”, di quella trasformazione, per cui tutta l'identità del pane e del vino è mutata nell'identità del Corpo e del Sangue del Signore, permanendo unicamente l'apparenza o meglio il segno. Come spiega sant'Ambrogio: «Quando si viene a compiere il venerabile sacramento, il sacerdote usa le parole di Cristo. È dunque la parola di Cristo a compiere questo sacramento. Il pane, prima di essere consacrato, è pane; quando sono pronunziate le parole di Cristo, è corpo di Cristo; prima delle parole di Cristo il calice è un calice pieno di vino e di acqua; quando le parole di Cristo hanno operato, nel calice si forma il sangue che ha redento il popolo. La parola di Cristo ha il potere di trasformare tutte le cose» (De sacramentis, iv, 4, 14; 5, 23). Il ministero sacerdotale è un servizio alla signoria di Gesù.
Per parte loro, le nuove preghiere di consacrazione hanno perspicuamente messo in luce l'azione transustanziante dello Spirito: «Manda il tuo Spirito -- prega il celebrante -- a santificare i doni che ti offriamo, perché diventino il corpo e il sangue di Gesù Cristo tuo Figlio e nostro Signore, che ci ha comandato di celebrare questi misteri».
Ancora sant'Ambrogio esclamerà: «Da te il nostro ministero riceve il valore di sacramento. Non è della potenza umana comunicare i beni divini, ma è dono tuo, o Signore» (cfr. De Spiritu Sancto, 1, Prol., 17). Ossia: sei tu a conferire ai nostri gesti esteriori un intimo valore sacramentale, efficace di grazia. E questa è la ragione profonda dell'umiltà del servizio sacerdotale. Da secoli la Chiesa, per indicare la mutazione eucaristica, usa il termine “transustanziazione”; se la sua origine è filosofica, esso è ritenuto dalla Chiesa termine prezioso e particolarmente adatto per dire che il pane e il vino non ricevono nell'Eucaristia soltanto un significato e una finalità nuova, ma sono radicalmente trasformati, per coincidere «veramente, realmente, sostanzialmente» (come dice il concilio di Trento, Decretum de Sanctissimo Eucharistiae Sacramento, can. 1; Denz. 1651) col Corpo e col Sangue del Signore.
Se c'è un tempo in cui ci appare soprattutto necessaria la conservazione di questo linguaggio è il nostro, segnato dalla tentazione di una pura simbolicità eucaristica. Anche dopo la celebrazione Cristo rimane presente nell'Eucaristia con il suo Corpo e il suo Sangue, con la sua persona; per questo continua il suo culto di adorazione da parte della Chiesa: il culto che la festa del Corpo e del Sangue del Signore intende specialmente esaltare. L'Eucaristia nel tabernacolo è come lo spazio della presenza del Signore nella nostra storia. Il sacramento non distanzia e non separa, ma inclina e dispone all'incontro, in prosieguo con la comunione. La centralità della messa non deve mettere in ombra quella Presenza eucaristica fuori di essa, che così felicemente e intensamente suscita la preghiera come relazione viva con la persona di Cristo, “abitualmente” incontrabile nel segno della sua stabile dimora sacramentale con la sua Chiesa. L'adorazione eucaristica è stata uno dei più forti stimoli alla diffusione e all'approfondimento dello spirito di orazione. Sarebbe un deplorevole impoverimento se dovesse declinare per una male intesa riforma liturgica. E va detto al riguardo che l'aver talora rarefatto e immiserito, se non contestato, i segni della presenza reale di Cristo nell'Eucaristia non è stata una pastorale avveduta, se pur addirittura un occultarsi dei segni non sia stato in qualche caso persino l'indice di un affievolirsi della fede nella stessa Presenza reale.
«O Gesù che ora cerco di contemplare velato nel segno -- pregava appassionatamente il teologo dell'Eucaristia, san Tommaso -- appaga il mio bruciante desiderio di poter un giorno ammirare il tuo volto e di essere beato nella visione della tua gloria» (Adoro te, devote): l'adorazione eucaristica sollecita e nutre il desiderio di un incontro con Cristo, oltre la fede, in un appuntamento e in un incontro faccia a faccia, che duri per l'eternità.
(©L'Osservatore Romano 30 maggio 2013)
lunedì 27 maggio 2013
Quando l'ecumenismo si avvera. La Trinità e l'«ut unum sint» (Biffi)
La Trinità e l'«ut unum sint»
Quando l'ecumenismo si avvera
di Inos Biffi
Abitualmente, quando si parla di ecumenismo, si cita l'espressione del vangelo di Giovanni: «Che siano una cosa sola» -- ut unum sint (17, 21) -- tuttavia quasi sempre trascurandone il contesto e lasciando, così, sfuggire il senso e l'intenzione precisi di questa domanda che Gesù rivolge al Padre. «Padre santo», egli dice, «io non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. Non prego poi solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola, perché tutti siano uno come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano uno come noi siamo uno. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me». Come si vede, si tratta di un testo dalla trama accuratamente costrutta ed elaborata, dove il tema emergente è quello dell'unità: dell'unità originaria, quella cioè che risulta dall'“inclusione” del Padre nel Figlio e del Figlio nel Padre, e dell'unità dei discepoli nei quali quell'unità divina è destinata a trapassare.
In altre parole, lo stesso unum, in atto dell'intima comunione tra il Padre e Gesù, è chiamato a trasfondersi e a prolungarsi nei discepoli e quindi a diventare visibile nella loro fraternità. «L'unità divina -- commenta il biblista Rudolf Schnackenburg -- è calata nei discepoli di Gesù in quanto “Gesù è in loro” e “il Padre in Gesù”. Poiché Gesù è nei discepoli e il Padre è in Gesù, la comunità dei discepoli è ripiena di essenza divina e quindi unita e compatta. Essa diventa una perfetta unità e a un tempo è chiamata a rendere visibile nell'amore fraterno il mistero dell'unità divina. In ciò il mondo può e deve riconoscere che Gesù, che fa della comunità cristiana la manifestazione dell'essenza divina, è l'Inviato di Dio. Una comunità che è unita e trova la forza di amare è in ultima analisi un mysterium dell'amore divino. Attraverso Gesù Dio ha accolto nel suo amore i credenti nel Figlio suo e li ha colmati della forza del suo amore».
I credenti «porteranno [nel mondo] la testimonianza della loro unità e della loro unione con Padre e col Figlio» (Ignace de la Potterie), e così creeranno la condizione perché lo stesso mondo creda in Gesù, riconoscendolo come Colui che è stato mandato dal Padre.
È come dire che la Chiesa, formata dai discepoli, deve apparire come la comunità partecipe dell'unità che annoda il Padre e il Figlio; come il segno visibile o il sacramento di tale unità. La carità reciproca dei credenti deve quindi riflettere e rappresentare quell'“uno”, che costituisce e definisce la relazione tra Gesù e il Padre.
A questo punto ci si può domandare se sia veramente questa visione dell'unità che evochiamo quando citiamo l'ut unum sint o vi ricorriamo nell'ottica dell'ecumenismo. Questo viene per lo più inteso come la riunione, per così dire paritetica od “orizzontale”, tra i cristiani. Ma in questo caso non siamo esattamente nella prospettiva della preghiera di Gesù, il quale chiedeva non che dei “fratelli separati”, come li chiamiamo, si riunissero, ma che l'unità “divina” dimorasse in quelli che il Padre gli aveva dato, che non sono affatto visti in uno stato di separazione e che, anzi, neppure sarebbero suoi discepoli, se mancasse la presenza in loro dell'unum del Padre e del Figlio. La genesi e la forma del loro essere congiunti si innestano sulla vita intima della santissima Trinità.
Non per questo, tuttavia, l'“unità”, che Gesù implora dal Padre per i “suoi”, va considerata estranea all'“ecumenismo” nel quale come discepoli del Signore ci dobbiamo sentire tutti impegnati. Al contrario: è proprio quella preghiera a illustrare sia la gravità della separazione sia il significato e l'intento della ricomposizione. Anzitutto, la gravità della separazione, che, alla luce della preghiera di Gesù, si configura come un'attenuazione o una perdita della comunione con l'unum del Padre e del Figlio e perciò con l'unica Chiesa, Corpo di Cristo, generata e stabilita da quest'unum, per cui diciamo: «Credo la Chiesa “una”». È poi illustrato il significato e l'intento della ricomposizione, la quale non mira a costituire questa Chiesa “una”, quasi fosse scomparsa, e risultasse come frutto e come sintesi delle varie comunità ecclesiali, che si rimettono insieme. L'ecumenismo si avvera se si ritorna e ci si reinserisce nell'unico Corpo di Cristo, cioè nella Tradizione dell'“unica” Chiesa, che, pur con i suoi membri peccatori e con una storia non sempre ineccepibile, non ha mai cessato di esserci, «una, santa, cattolica e apostolica», quale opera di Dio, fondata da Cristo, animata dal suo Spirito e da lui istituita sull'insfaldabile roccia che è Pietro.
Se l'ecumenismo non è concepito e avvertito a questo livello di finalità e di profondità, determinate dall'ut unum sint di Cristo, le iniziative di dialogo e di confronto in sé proficue e persino necessarie finirebbero col confondere e l'esito sarebbe un pacifismo teologico invece che la ripresa di una vera comunione.
(©L'Osservatore Romano 26 maggio 2013)
Quando l'ecumenismo si avvera
di Inos Biffi
Abitualmente, quando si parla di ecumenismo, si cita l'espressione del vangelo di Giovanni: «Che siano una cosa sola» -- ut unum sint (17, 21) -- tuttavia quasi sempre trascurandone il contesto e lasciando, così, sfuggire il senso e l'intenzione precisi di questa domanda che Gesù rivolge al Padre. «Padre santo», egli dice, «io non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. Non prego poi solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola, perché tutti siano uno come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano uno come noi siamo uno. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me». Come si vede, si tratta di un testo dalla trama accuratamente costrutta ed elaborata, dove il tema emergente è quello dell'unità: dell'unità originaria, quella cioè che risulta dall'“inclusione” del Padre nel Figlio e del Figlio nel Padre, e dell'unità dei discepoli nei quali quell'unità divina è destinata a trapassare.
In altre parole, lo stesso unum, in atto dell'intima comunione tra il Padre e Gesù, è chiamato a trasfondersi e a prolungarsi nei discepoli e quindi a diventare visibile nella loro fraternità. «L'unità divina -- commenta il biblista Rudolf Schnackenburg -- è calata nei discepoli di Gesù in quanto “Gesù è in loro” e “il Padre in Gesù”. Poiché Gesù è nei discepoli e il Padre è in Gesù, la comunità dei discepoli è ripiena di essenza divina e quindi unita e compatta. Essa diventa una perfetta unità e a un tempo è chiamata a rendere visibile nell'amore fraterno il mistero dell'unità divina. In ciò il mondo può e deve riconoscere che Gesù, che fa della comunità cristiana la manifestazione dell'essenza divina, è l'Inviato di Dio. Una comunità che è unita e trova la forza di amare è in ultima analisi un mysterium dell'amore divino. Attraverso Gesù Dio ha accolto nel suo amore i credenti nel Figlio suo e li ha colmati della forza del suo amore».
I credenti «porteranno [nel mondo] la testimonianza della loro unità e della loro unione con Padre e col Figlio» (Ignace de la Potterie), e così creeranno la condizione perché lo stesso mondo creda in Gesù, riconoscendolo come Colui che è stato mandato dal Padre.
È come dire che la Chiesa, formata dai discepoli, deve apparire come la comunità partecipe dell'unità che annoda il Padre e il Figlio; come il segno visibile o il sacramento di tale unità. La carità reciproca dei credenti deve quindi riflettere e rappresentare quell'“uno”, che costituisce e definisce la relazione tra Gesù e il Padre.
A questo punto ci si può domandare se sia veramente questa visione dell'unità che evochiamo quando citiamo l'ut unum sint o vi ricorriamo nell'ottica dell'ecumenismo. Questo viene per lo più inteso come la riunione, per così dire paritetica od “orizzontale”, tra i cristiani. Ma in questo caso non siamo esattamente nella prospettiva della preghiera di Gesù, il quale chiedeva non che dei “fratelli separati”, come li chiamiamo, si riunissero, ma che l'unità “divina” dimorasse in quelli che il Padre gli aveva dato, che non sono affatto visti in uno stato di separazione e che, anzi, neppure sarebbero suoi discepoli, se mancasse la presenza in loro dell'unum del Padre e del Figlio. La genesi e la forma del loro essere congiunti si innestano sulla vita intima della santissima Trinità.
Non per questo, tuttavia, l'“unità”, che Gesù implora dal Padre per i “suoi”, va considerata estranea all'“ecumenismo” nel quale come discepoli del Signore ci dobbiamo sentire tutti impegnati. Al contrario: è proprio quella preghiera a illustrare sia la gravità della separazione sia il significato e l'intento della ricomposizione. Anzitutto, la gravità della separazione, che, alla luce della preghiera di Gesù, si configura come un'attenuazione o una perdita della comunione con l'unum del Padre e del Figlio e perciò con l'unica Chiesa, Corpo di Cristo, generata e stabilita da quest'unum, per cui diciamo: «Credo la Chiesa “una”». È poi illustrato il significato e l'intento della ricomposizione, la quale non mira a costituire questa Chiesa “una”, quasi fosse scomparsa, e risultasse come frutto e come sintesi delle varie comunità ecclesiali, che si rimettono insieme. L'ecumenismo si avvera se si ritorna e ci si reinserisce nell'unico Corpo di Cristo, cioè nella Tradizione dell'“unica” Chiesa, che, pur con i suoi membri peccatori e con una storia non sempre ineccepibile, non ha mai cessato di esserci, «una, santa, cattolica e apostolica», quale opera di Dio, fondata da Cristo, animata dal suo Spirito e da lui istituita sull'insfaldabile roccia che è Pietro.
Se l'ecumenismo non è concepito e avvertito a questo livello di finalità e di profondità, determinate dall'ut unum sint di Cristo, le iniziative di dialogo e di confronto in sé proficue e persino necessarie finirebbero col confondere e l'esito sarebbe un pacifismo teologico invece che la ripresa di una vera comunione.
(©L'Osservatore Romano 26 maggio 2013)
Etichette:
articoli,
biffi,
osservatore romano,
teologia
domenica 19 maggio 2013
La riflessione sulla Pentecoste dall'analisi della teologia alla sintesi della poesia (Biffi)
La riflessione sulla Pentecoste dall'analisi della teologia alla sintesi della poesia
E Claudel cantò lo Spirito divoratore
di Inos Biffi
Dopo la Risurrezione di Gesù viene lo Spirito. Al termine dell'itinerario terreno del Figlio di Dio, il Padre, insieme con Lui e tramite Lui, elargisce il Dono. La pienezza dello Spirito non è data ai credenti, i «fiumi di acqua viva» (Giovanni, 7, 38) non scorrono, prima che Gesù sia stato glorificato, poiché è dal suo seno che sgorgano. E infatti, secondo Giovanni il Signore appare la sera di Pasqua ad alitare sui discepoli lo Spirito Santo. L'umanità è redenta e la storia del mondo “finisce” quando su tutti e per tutti lo Spirito è disponibile. Allora è compiuta la vicenda di Cristo e quella degli uomini. L'arcano disegno divino aveva esattamente questa sostanza e questo fine: creare una umanità che possedesse lo Spirito del Padre e del Figlio, che ricevesse il vincolo o l'amore, che li unisce e li rende presenti nell'umanità e nel cuore, o nell'esistenza, di ogni credente.
Dove c'è Gesù glorificato là c'è lo Spirito; dove c'è lo Spirito là c'è il Signore Gesù, che per mezzo dello Spirito è presente e opera. Non è facile parlare dello Spirito. Lo si avverte, ma non in una figura umana, com'è del Figlio, e non in una rappresentazione che all'uomo è immediata, quella della paternità com'è del Padre. Lo Spirito viene come alluso attraverso dei simboli: «un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, all'improvviso», «lingue come di fuoco», che si dividono ed eccitano la parola, ottenendo sorprendentemente l'unità e l'intesa, là dove ci si aspetterebbe l'incomprensione. È la prima grazia dello Spirito Santo: quella di poter credere e di poter riconoscere -- come dice Paolo -- che «Gesù è Signore» (1 Corinzi, 12, 3), quella di annunziare «le grandi opere di Dio» (Atti, 2, 11).
Lasciati a noi stessi non avremmo la fede e non potremmo essere il Popolo di Dio: rimarremmo nella confusione, dove non è possibile capirsi, dove la lingua invece di comunione provoca rissa e isolamento, e dove la freddezza del cuore ci separa reciprocamente. Lo Spirito crea la Chiesa e la tiene insieme, e chi partecipa dello Spirito ne vive e ne rivela il mistero. A verificare questa dimensione e questa condizione “spirituale” per capire la Chiesa e per essere Chiesa ci induce oggi -- dichiara Bernardo di Clairvaux -- la «solennità dello Spirito Santo, che è come la realtà più dolce che esiste in Dio, che è la benignità di Dio, colui che è il principio della santità» (Sermo in die Pentecostes, i, 1). Se lo Spirito vince le resistenze reciproche e genera la comunione, allora si rivela con chiarezza sia la radice dei carismi sia la loro finalità: la radice è lo Spirito, di cui ogni grazia è manifestazione, e la finalità è il bene di tutta la Chiesa. Lo Spirito non chiude in sé, ma apre agli, altri. Ogni impegno e ogni lavoro non può servire l'interesse personale o la vanagloria. Su questa misura si diventa cauti prima di domandare il riconoscimento di un carisma, prima di pretenderne l'esercizio, e anche prima di stupirsi che non venga riconosciuto o che sia contestato. Quando si tiene troppo a un “carisma”, la probabilità va nel senso che non sia autentico.
Sul tema dello Spirito ci illuminano alcune riflessioni di san Tommaso, forse non molto note. Egli scrive: «Cristo appare a quanti sono radunati insieme; così lo Spirito discende su quelli che sono uniti tra loro: Cristo e lo Spirito si fanno presenti soltanto a coloro che sono legati dall'amore» (Super Euangelium Iohannis reportatio, 20, 4, n. 2529); «Molto felicemente Paolo attribuisce le grazie allo Spirito che è l'Amore, poiché ogni servizio è grazia che proviene dall'amore del Signore, al quale si serve» (Super i Ad Corinthios xi - XVI reportatio, 12, 1, n. 723); «Dalla forza dello Spirito Santo otteniamo di essere rigenerati e di essere ricreati per la salvezza» (ibidem, n. 734).
San Tommaso sta commentando le parole dell'Apostolo: «Tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito» (1 Corinzi, 12, 13), e prosegue dicendo: «Questo abbeverarsi si può intendere del refrigerio interiore che lo Spirito Santo offre al cuore umano, estinguendo la sete dei desideri del peccato; oppure si può intendere della bevanda sacramentale, consacrata dallo Spirito» (Super i Ad Corinthios xi - XVI reportatio, n. 734). Infatti appartiene allo Spirito se i sacramenti non si risolvono in puri atti umani ma trascendono, nella loro intenzione e nel loro effetto, le possibilità che un uomo può raggiungere.
A Pentecoste si rinnova il senso del ministero come docilità allo Spirito del Signore, e la consapevolezza che nella Chiesa tutto riesce se viene dalla virtù dello Spirito: la Parola e la sua predicazione, i sacramenti con i loro riti, le opere con i loro traguardi. Allo stesso modo si ravviva il senso della Chiesa come mistero, luogo e manifestazione dello Spirito Santo contro ogni rischio di fraintendimento, quasi che a definirla e a farla consistere siano le nostre attività per se stesse o siano i nostri puri criteri, mentre la Chiesa è il segno della riuscita del Signore che agisce con lo Spirito Santo. Urge riportarsi a questa genesi, quando sembri che la Chiesa venga concepita come realtà che riesce all'uomo.
Ma lo Spirito anima la Chiesa inabitando l'anima dei giusti. È una inabitazione senza strepito, silenziosa, che purifica e stabilisce l'amicizia, iniziando e guidando la storia più preziosa e più segreta, quella che si svolge anzitutto agli occhi del Padre: una storia non facilmente programmabile, ricca di sorprese, poiché non è lo Spirito che dev'essere obbediente all'anima, ma l'anima allo Spirito. Allora abbiamo l'adorazione nel cuore e l'obbedienza che coincide con la vita (cfr. ibidem, n. 718). Un santo è un uomo “spirituale” la cui esistenza si muove per l'istigazione e l'inclinazione dello Spirito, il quale ha le sue vie, che sono sempre le vie di Gesù Cristo, ma non nella forma che immediatamente potremmo immaginare. Lo Spirito fa nascere la preghiera, il modo fondamentale di porsi di fronte a Dio, e ne provoca gli accenti. Lo Spirito spinge non tanto all'apparenza quanto alla “latitanza”, poiché la vita che egli sostiene è la vita “interiore”, che ha sempre, se è sana e autentica, una buona dose di distacco, di indifferenza e di segreto.
San Bernardo descrive così l'opera dello Spirito: «Solo lo Spirito Santo ti spinge a camminare con sollecitudine insieme con il tuo Dio. Egli scruta le profondità dei nostri cuori, opera il discernimento dei pensieri e delle intenzioni e non tollera nell'abitacolo del cuore, che è suo possesso, neanche una minima pagliuzza, ma subito la brucia con il fuoco del suo sguardo penetrante. Egli ammonisce la memoria, le ispira pensieri santi, allontana la nostra pigrizia e il nostro torpore; fa da maestro al nostro intelletto e muove la volontà, aiuta la nostra infermità» (Sermo in die Pentecostes, ii, 8; i, 5).
Ma non solo dei teologi santi e dei mistici hanno interpretato così lo Spirito Santo. Lo hanno interpretato anche dei poeti cristiani. Claudel nel suo Hymne de la Pentecôte lo invoca con questi accenti: «O sole della luce di Dio con noi! O bellezza della luce di Dio concepita prima dell'aurora! Guarisci questo occhio mortale! Risuscita questo cuore addormentato. Vieni, Spirito divoratore! Vieni, o morte della morte! Vieni, ansia dell'amore, punta che distrugge la pigrizia. Vieni, giudizio e gusto, scienza del bene e del male, forza ingenua dei Martiri, vibrazione dell'intelligenza e della conoscenza saporosa. O Dio, io sento la mia anima folle in me che piange e che canta».
(©L'Osservatore Romano 19 maggio 2013)
E Claudel cantò lo Spirito divoratore
di Inos Biffi
Dopo la Risurrezione di Gesù viene lo Spirito. Al termine dell'itinerario terreno del Figlio di Dio, il Padre, insieme con Lui e tramite Lui, elargisce il Dono. La pienezza dello Spirito non è data ai credenti, i «fiumi di acqua viva» (Giovanni, 7, 38) non scorrono, prima che Gesù sia stato glorificato, poiché è dal suo seno che sgorgano. E infatti, secondo Giovanni il Signore appare la sera di Pasqua ad alitare sui discepoli lo Spirito Santo. L'umanità è redenta e la storia del mondo “finisce” quando su tutti e per tutti lo Spirito è disponibile. Allora è compiuta la vicenda di Cristo e quella degli uomini. L'arcano disegno divino aveva esattamente questa sostanza e questo fine: creare una umanità che possedesse lo Spirito del Padre e del Figlio, che ricevesse il vincolo o l'amore, che li unisce e li rende presenti nell'umanità e nel cuore, o nell'esistenza, di ogni credente.
Dove c'è Gesù glorificato là c'è lo Spirito; dove c'è lo Spirito là c'è il Signore Gesù, che per mezzo dello Spirito è presente e opera. Non è facile parlare dello Spirito. Lo si avverte, ma non in una figura umana, com'è del Figlio, e non in una rappresentazione che all'uomo è immediata, quella della paternità com'è del Padre. Lo Spirito viene come alluso attraverso dei simboli: «un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, all'improvviso», «lingue come di fuoco», che si dividono ed eccitano la parola, ottenendo sorprendentemente l'unità e l'intesa, là dove ci si aspetterebbe l'incomprensione. È la prima grazia dello Spirito Santo: quella di poter credere e di poter riconoscere -- come dice Paolo -- che «Gesù è Signore» (1 Corinzi, 12, 3), quella di annunziare «le grandi opere di Dio» (Atti, 2, 11).
Lasciati a noi stessi non avremmo la fede e non potremmo essere il Popolo di Dio: rimarremmo nella confusione, dove non è possibile capirsi, dove la lingua invece di comunione provoca rissa e isolamento, e dove la freddezza del cuore ci separa reciprocamente. Lo Spirito crea la Chiesa e la tiene insieme, e chi partecipa dello Spirito ne vive e ne rivela il mistero. A verificare questa dimensione e questa condizione “spirituale” per capire la Chiesa e per essere Chiesa ci induce oggi -- dichiara Bernardo di Clairvaux -- la «solennità dello Spirito Santo, che è come la realtà più dolce che esiste in Dio, che è la benignità di Dio, colui che è il principio della santità» (Sermo in die Pentecostes, i, 1). Se lo Spirito vince le resistenze reciproche e genera la comunione, allora si rivela con chiarezza sia la radice dei carismi sia la loro finalità: la radice è lo Spirito, di cui ogni grazia è manifestazione, e la finalità è il bene di tutta la Chiesa. Lo Spirito non chiude in sé, ma apre agli, altri. Ogni impegno e ogni lavoro non può servire l'interesse personale o la vanagloria. Su questa misura si diventa cauti prima di domandare il riconoscimento di un carisma, prima di pretenderne l'esercizio, e anche prima di stupirsi che non venga riconosciuto o che sia contestato. Quando si tiene troppo a un “carisma”, la probabilità va nel senso che non sia autentico.
Sul tema dello Spirito ci illuminano alcune riflessioni di san Tommaso, forse non molto note. Egli scrive: «Cristo appare a quanti sono radunati insieme; così lo Spirito discende su quelli che sono uniti tra loro: Cristo e lo Spirito si fanno presenti soltanto a coloro che sono legati dall'amore» (Super Euangelium Iohannis reportatio, 20, 4, n. 2529); «Molto felicemente Paolo attribuisce le grazie allo Spirito che è l'Amore, poiché ogni servizio è grazia che proviene dall'amore del Signore, al quale si serve» (Super i Ad Corinthios xi - XVI reportatio, 12, 1, n. 723); «Dalla forza dello Spirito Santo otteniamo di essere rigenerati e di essere ricreati per la salvezza» (ibidem, n. 734).
San Tommaso sta commentando le parole dell'Apostolo: «Tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito» (1 Corinzi, 12, 13), e prosegue dicendo: «Questo abbeverarsi si può intendere del refrigerio interiore che lo Spirito Santo offre al cuore umano, estinguendo la sete dei desideri del peccato; oppure si può intendere della bevanda sacramentale, consacrata dallo Spirito» (Super i Ad Corinthios xi - XVI reportatio, n. 734). Infatti appartiene allo Spirito se i sacramenti non si risolvono in puri atti umani ma trascendono, nella loro intenzione e nel loro effetto, le possibilità che un uomo può raggiungere.
A Pentecoste si rinnova il senso del ministero come docilità allo Spirito del Signore, e la consapevolezza che nella Chiesa tutto riesce se viene dalla virtù dello Spirito: la Parola e la sua predicazione, i sacramenti con i loro riti, le opere con i loro traguardi. Allo stesso modo si ravviva il senso della Chiesa come mistero, luogo e manifestazione dello Spirito Santo contro ogni rischio di fraintendimento, quasi che a definirla e a farla consistere siano le nostre attività per se stesse o siano i nostri puri criteri, mentre la Chiesa è il segno della riuscita del Signore che agisce con lo Spirito Santo. Urge riportarsi a questa genesi, quando sembri che la Chiesa venga concepita come realtà che riesce all'uomo.
Ma lo Spirito anima la Chiesa inabitando l'anima dei giusti. È una inabitazione senza strepito, silenziosa, che purifica e stabilisce l'amicizia, iniziando e guidando la storia più preziosa e più segreta, quella che si svolge anzitutto agli occhi del Padre: una storia non facilmente programmabile, ricca di sorprese, poiché non è lo Spirito che dev'essere obbediente all'anima, ma l'anima allo Spirito. Allora abbiamo l'adorazione nel cuore e l'obbedienza che coincide con la vita (cfr. ibidem, n. 718). Un santo è un uomo “spirituale” la cui esistenza si muove per l'istigazione e l'inclinazione dello Spirito, il quale ha le sue vie, che sono sempre le vie di Gesù Cristo, ma non nella forma che immediatamente potremmo immaginare. Lo Spirito fa nascere la preghiera, il modo fondamentale di porsi di fronte a Dio, e ne provoca gli accenti. Lo Spirito spinge non tanto all'apparenza quanto alla “latitanza”, poiché la vita che egli sostiene è la vita “interiore”, che ha sempre, se è sana e autentica, una buona dose di distacco, di indifferenza e di segreto.
San Bernardo descrive così l'opera dello Spirito: «Solo lo Spirito Santo ti spinge a camminare con sollecitudine insieme con il tuo Dio. Egli scruta le profondità dei nostri cuori, opera il discernimento dei pensieri e delle intenzioni e non tollera nell'abitacolo del cuore, che è suo possesso, neanche una minima pagliuzza, ma subito la brucia con il fuoco del suo sguardo penetrante. Egli ammonisce la memoria, le ispira pensieri santi, allontana la nostra pigrizia e il nostro torpore; fa da maestro al nostro intelletto e muove la volontà, aiuta la nostra infermità» (Sermo in die Pentecostes, ii, 8; i, 5).
Ma non solo dei teologi santi e dei mistici hanno interpretato così lo Spirito Santo. Lo hanno interpretato anche dei poeti cristiani. Claudel nel suo Hymne de la Pentecôte lo invoca con questi accenti: «O sole della luce di Dio con noi! O bellezza della luce di Dio concepita prima dell'aurora! Guarisci questo occhio mortale! Risuscita questo cuore addormentato. Vieni, Spirito divoratore! Vieni, o morte della morte! Vieni, ansia dell'amore, punta che distrugge la pigrizia. Vieni, giudizio e gusto, scienza del bene e del male, forza ingenua dei Martiri, vibrazione dell'intelligenza e della conoscenza saporosa. O Dio, io sento la mia anima folle in me che piange e che canta».
(©L'Osservatore Romano 19 maggio 2013)
Etichette:
articoli,
biffi,
cultura,
osservatore romano
giovedì 9 maggio 2013
Il seme della fiducia. Nell'Ascensione di Gesù al cielo (Biffi)
Nell'Ascensione di Gesù al cielo
Il seme della fiducia
di Inos Biffi
Con l'ascensione al cielo Gesù termina il suo itinerario terreno per iniziare la sua condizione gloriosa alla destra del Padre, dove la sua opera di salvezza trova il riconoscimento, il suo sacrificio è accolto, la sua preghiera diviene intercessione universale, la sua presenza è estesa a ogni tempo, la sua signoria diventa efficace in ogni spazio e il suo potere si diffonde in ogni situazione, «in cielo e in terra» (Matteo, 28, 18). In apparenza quello di Gesù è un allontanarsi: i discepoli non lo vedranno più; in realtà l'ascensione lo rende prossimo e interiore a essi, che lo sentiranno vicino non più dentro i limitati e privilegiati confini dei loro brevi giorni e luoghi: l'umanità gloriosa del Signore sarà dappertutto e presso ciascuno, in una “contemporaneità” che supera ogni genere di obiezione e di resistenza. Con suggestiva espressione san Bernardo scrive: Gesù, ascendendo al cielo, «ha lasciato in noi il seme della fiducia e dell'attesa, ha creato la speranza nei credenti» (Sermo in ascensione Domini, iv, 1).
È precisamente con questa presenza del Signore e questa speranza che i discepoli compiono la missione, che predicano il Vangelo, perché sia accolto nella fede e nel battesimo e così avvenga la salvezza. La loro non è un'attività svolta a nome e per virtù propria. Essi sono in missione per fedeltà a un mandato: «Andate e fate discepoli tutti i popoli» (Matteo, 28, 19). Dall'ascensione parte la missione, che diffonde nel mondo il senso della vita di Cristo, la vita nuova iniziata nella risurrezione. La Chiesa non può ripiegarsi soddisfatta su se stessa o intimidita dalle difficoltà di annunziare la Parola di Dio; né può mettere in discussione la materia del mandato: predicare e battezzare, per suscitare la fede; né può convincersi che la salvezza è possibile anche a chi non crede: «Chi non crederà sarà condannato» (Marco, 16, 16). Il rifiuto del Vangelo esclude dalla salvezza, anche se certamente soltanto Dio conosce chi veramente crede e chi rigetta la fede.
«Il Signore operava insieme con loro e confermava la Parola con i prodigi che l'accompagnavano» (Marco, 16, 20). Sempre il Signore opera con la Chiesa: diversamente essa non riuscirebbe in nulla. La Chiesa non ha il potere di salvare; essa è anzitutto salvata, e diviene segno e strumento di Colui che è in ogni tempo l'unico Salvatore, che dà forza all'annunzio, che colma i riti della sua presenza e del suo Spirito, che apre il cuore all'ascolto e all'accoglienza e li sostiene nella perseveranza. È Cristo che nei discepoli «percorre il mondo intero» (Franz Schweizer), dal momento che la sua è anche una “vittoria sul tempo”, non perché il tempo non esista più, ma perché non riesce a renderlo un sorpassato, costituito com'è in un “oggi” che non declina.
La presenza del Signore è visibile nei prodigi che confermano la Parola annunziata: i demoni scacciati, le nuove lingue, l'indennità tra i pericoli, la guarigione dei malati. È il mondo della risurrezione, il mondo nuovo che incomincia a rivelarsi nella sconfitta del demonio, abbattuto dalla signoria di Gesù. Per chi crede non c'è più circostanza che possa compromettere seriamente e per sempre la sua vita, e il motivo è la comunione con il Signore che ha «vinto il mondo» (Giovanni, 16, 33).
Perciò un cristiano non si deprime fino in fondo; anzi non si deprime affatto come per l'irreparabile. Ma bisogna che sia intensa e continua la contemplazione del Figlio di Dio nel quale «la nostra umanità è innalzata accanto al Padre» (cfr. Messa dell'Ascensione, orazione dopo la comunione). È questa umanità la speranza e l'attrattiva del mondo, di cui l'ascensione ha rappresentato l'apertura definitiva a Dio, la “risoluzione”.
L'umanità di Gesù risorta e ascesa al cielo è il vincolo indissolubile tra gli uomini e Dio, l'evidenza dell'amore divino per l'uomo, tanto da averlo per sempre accanto a sé in una compiacenza eterna. L'uomo è portato nell'intimità trinitaria. È già vero per Cristo esemplarmente, ossia come primizia di quanto avverrà per tutti quelli che avranno fede, per le membra del Corpo di Gesù, «nostro capo nella gloria» (colletta).
Se ci limitiamo a considerare l'uomo con un giudizio “naturale”, o a partire dai dati dell'esperienza immediata, non riusciamo a scorgere questa sua destinazione divina, tanto ci appare fragile, talvolta deplorevole e inattraente, e alla fine corroso e consumato dalla morte. In realtà solo Dio può dirci veramente chi è l'uomo e qual è il suo destino; può dirci con quale amore lui lo ha amato e creato e ce lo rivela in modo perfetto con l'esaltazione dell'umanità di Gesù alla sua destra: là dove «si sedette», come scrive Marco nel suo Vangelo (16, 19), ma non in una quiete soddisfatta e indifferente per noi; al contrario: per proseguire in noi. Con l'ascensione appare che l'uomo è riuscito e non fallito, e che in Gesù ognuno è chiamato a riuscire nella forma che nessun umanesimo potrebbe immaginare.
San Bernardo definisce l'ascensione «consumazione e adempimento di tutte le altre solennità, conclusione felice di tutto l'itinerario del Figlio di Dio» (Sermo in ascensione Domini, ii, 1), e quindi modello del termine di ogni itinerario umano. L'ascensione è il festeggiamento dell'uomo. Ma dell'uomo che crede, e perciò che imita Gesù Cristo, innalzato per il suo abbassamento; glorificato per la sua croce; gratificato della signoria dopo l'umiliazione del servizio. È sempre il Crocifisso che diviene glorioso; ma nella croce, che ora è della Chiesa e delle anime, agisce questa forza dell'ascensione, questa signoria che costituisce il seme della fiducia.
La vocazione cui siamo stati chiamati -- esorta oggi san Paolo -- domanda un comportamento conforme, e in particolare: l'umiltà, la mansuetudine, la pazienza, la reciproca sopportazione nell'amore, l'impegno a conservare l'unità (Efesini, 4, 1-2). Un altro richiamo è fatto da Paolo partendo dall'ascensione di Gesù al cielo: quello di riconoscere la varietà dei doni che il Risorto ha fatto, l'origine in lui delle diverse missioni, quella dell'apostolo, o del profeta, o dell'evangelista o del pastore o del maestro. Nessuno si autodona queste grazie, tutte allo stesso modo sono ricevute, e tutte allo stesso modo vanno finalizzate a «edificare il corpo di Cristo» (Efesini, 4, 12): non quindi a suscitare confronti, a generare risse e accaparramenti, poiché, oltre e più importante delle “grazie” ricevute, c'è il Signore e la sua Chiesa, c'è la «generazione dei fedeli» (Super euangelium Matthaei reportatio, cap. 28, n. 2469), come la chiama Tommaso d'Aquino.
Gesù, assunto fino al cielo, tornerà «un giorno»: gli angeli lo assicurano agli uomini di Galilea che«stavano fissando il cielo mentre egli se n'andava» (Atti, 1, 10). Viviamo in questa attesa della venuta.
Meditando il passo degli Atti san Bernardo pregava: «Chi mi consolerà, Signore Gesù, del fatto che io non ti ho visto appeso alla croce, illividito dalle piaghe, pallido per la morte; non ho patito con te crocifisso, non ti ho ossequiato da morto, non ho inumidito almeno di lacrime i luoghi delle ferite? Come mai mi hai abbandonato senza il tuo saluto, quando, o Re della gloria, nella bellezza della tua stola, sei entrato nell'alto dei cieli? La mia anima avrebbe rifiutato ogni consolazione se gli angeli con voce gioiosa, non mi avessero preannunziato: un giorno tornerà» (Sermo in ascensione Domini, III, 4). Un giorno lo incontreremo e ne faremo la conoscenza, personalmente.
(©L'Osservatore Romano 9 maggio 2013)
Iscriviti a:
Post (Atom)