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mercoledì 16 marzo 2016

Cos’è la fede? L’intervista inedita di Servais a Benedetto XVI

Clicca qui per leggere ampi stralci dell'intervista a Papa Benedetto che si conferma in gran forma quanto a intelligenza e capacità comunicativa.
Speriamo di poter leggere altri interventi in futuro :-)
R.

Leggi anche:


Come la locanda del samaritano (Guerriero)

Convergenze sulla misericordia (Rizzi)


domenica 20 dicembre 2015

CONSIGLI PER GLI ACQUISTI: NOVITA' IN LIBRERIA

Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, "Le omelie di Pentling", Libreria Editrice Vaticana 2015

Marco Vannini, "All'ultimo papa - Lettere sull'amore, la grazia e la libertà", Il Saggiatore 2015

Benedetto XVI, "Gesù di Nazaret - Scritti di cristologi (Opera Omnia di Joseph Ratzinger), Libreria Editrice Vaticana 2015

Gianfranco Ravasi, "Dalla Bibbia alla biblioteca. Benedetto XVI e la cultura della Parola", Libreria Editrice Vaticana 2015

Marco Mancini, "Benedetto XVI - Un papa totale", Tau Editrice 2015





mercoledì 28 agosto 2013

Nei nuovi sermoni di Erfurt sant'Agostino parla dell'attenzione verso chi ha bisogno

Nei nuovi sermoni di Erfurt sant'Agostino parla dell'attenzione verso chi ha bisogno

Il vero frutto della fede

Ma la prima forma di misericordia è quella verso se stessi

Il frutto della fede è fare del bene a chi ha bisogno, perché è una fede infruttuosa credere in Dio in modo tale da trascurare le opere di misericordia. Infatti, come è inutile coltivare con cura una pianta sterile, innaffiare una pietra dura e arare la secchezza della sabbia, così, per un uomo che non vuole prestare ciò che è buono, non giova a nulla non negare ciò che è vero. Giustamente sta scritto che la fede senza le opere è morta in se stessa, per cui quelli che hanno una fede del genere sono anche paragonati ai demoni; infatti, a certuni che si vantano della fede e si tengono lontani dalle buone opere, così dice l'apostolo Giacomo: «Tu credi che c'è un solo Dio? Fai bene. Anche i demoni lo credono e tremano!». Appare così che non c'è nessuna differenza tra il timore di un demonio sofferente e la grazia di un uomo credente, se non il fatto che le azioni del primo sono cattive, quelle del secondo buone, benché entrambe le cose procedano dallo stesso credere, come dalla stessa acqua pullulano sia spine appuntite sia grappoli d'uva.
La prima forma di misericordia dell'uomo credente, inoltre, è quella rivolta a se stesso; è questa che la Scrittura comanda dicendo: «Abbi misericordia della tua anima, piacendo a Dio». Di qui la misericordia, crescendo, si estende al prossimo, in modo tale che sia adempiuto il precetto: «Amerai il prossimo tuo come te stesso». Dunque la vera misericordia che si spende per il prossimo va spesa a questo fine, che anche il prossimo piaccia a Dio: è a questo fine che il prossimo va chiamato, esortato, educato e istruito. Difatti anche le stesse elemosine che si offrono per le necessità corporali e per la vita temporale vanno fatte con il proposito e l'intenzione di far sì che coloro a cui sono fatte amino quel Dio per dono del quale sono fatte.
Questo ce lo ricorda anche il Signore dicendo: «Risplendano le vostre opere buone davanti agli uomini, perché vedano le vostre buone azioni e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli». L'uomo di Dio, dunque, «vaso santificato in onore, utile al Signore, pronto per ogni opera buona», tutto ciò che fa nella sua vita non è se non un'opera di misericordia, o verso se stesso o verso il prossimo. Ed è misericordioso verso se stesso, come abbiamo ricordato sopra, quando piace a Dio; e piace a Dio quando, nel bene che fa, Dio gli piace e, nel male che subisce, Dio non gli dispiace.
Difatti anche l'Apostolo, dopo aver detto, parlando delle sue buone opere: «Ho faticato più di tutti loro, subito ha aggiunto: non io però, ma la grazia di Dio che è con me». E Giobbe, durante la sua tentazione e tribolazione, disse: «Come è piaciuto al Signore, così è avvenuto. Sia benedetto il nome del Signore».
Verso il prossimo, invece, l'uomo di Dio è misericordioso quando fa tutto il possibile affinché anche il prossimo, come lui, possa gustare fino in fondo la dolcezza di piacere a Dio.
Mi ero proposto di parlare delle opere di misericordia, e per questo può già sembrare a qualcuno che io mi sia scostato da questo argomento e mi sia diretto verso un altro, dato che non dico: «Spezza il tuo pane con l'affamato; introduci in casa tua il misero e senza tetto; se vedi uno nudo, vestilo», e così via. Queste opere sono reputate e chiamate elemosine quasi in senso proprio, come se esse sole appartenessero alle opere di misericordia; esse vi appartengono certamente, ma non esse sole, al punto tale che sono anzi le più piccole, a meno che gli uomini non siano così insensati da ritenere che coloro che offrivano agli apostoli beni materiali da raccogliere siano stati più misericordiosi degli apostoli stessi, che seminavano beni spirituali. Sia ben lungi dal credere una cosa del genere chi ascolta con intelligenza le parole dell'Apostolo che dice: «Se noi abbiamo seminato per voi beni spirituali, è forse gran cosa se raccoglieremo i vostri beni materiali?».
Nel seminare poi i beni spirituali, guarda quale dispensatore egli si mostri lì dove dice: «Così, affezionati a voi, ci sembra bene farvi partecipi non solo del vangelo di Dio, ma anche delle anime nostre», e in un altro luogo: «Per conto mio ben volentieri mi prodigherò», dice, «anzi spenderò me stesso per le vostre anime».
Metti adesso a confronto chi spezza il suo pane con l'affamato e chi rende partecipe della sua anima il credente, metti a confronto chi per la vita temporale del bisognoso spende oro e chi per la vita eterna del fratello spende se stesso. Se giustamente è misericordioso, ed è detto e considerato tale, chi introduce nella sua casa lo straniero che ha bisogno di un tetto, e gli mette a disposizione una tavola per rifocillarlo e un letto per farlo riposare, quanto più misericordioso si scopre essere chi, richiamando colui che va errando per le vie dell'iniquità e prendendolo con sé, lo fa entrare nella casa di Dio e lo incorpora alle membra di Cristo, dove lo ristori la refezione della giustizia e lo rilassi la remissione dei peccati!
Queste opere di misericordia, le quali fanno sì che si piaccia a Dio, sono così tanto anteposte, dalla verace legge della sapienza, a quelle opere con le quali si fornisce il sostentamento necessario al bisogno materiale, che sovente, quanto più prudentemente si compiono le prime, tanto più misericordiosamente si tolgono le seconde. Difatti l'uomo che è misericordioso prima di tutto verso se stesso, memore del precetto divino che dice: «Abbi misericordia della tua anima, piacendo a Dio», per piacere a Dio spesso digiuna e, quando gli si ordina di amare il prossimo come se stesso, dà il pane al prossimo che ha fame e lo nega a se stesso, trattando duramente, s'intende, il proprio corpo e riducendolo in schiavitù, per non essere trovato falso proprio lui, che predica agli altri. (...) Quella misericordia, dunque, in virtù della quale spendiamo le nostre fatiche per piacere a Dio, proprio essa è in qualche modo cardinale. Tutte le altre azioni che si compiono misericordiosamente sono fatte rettamente, se non si allontanano mai dalla contemplazione di questa.

(©L'Osservatore Romano 28 agosto 2013)

Fai del bene a chi ti odia

C'è chi pensa che le elemosine si debbano fare soltanto ai giusti, e che invece ai peccatori non sia opportuno dare nulla del genere. In questo errore il primo posto per empietà lo occupano i manichei, i quali credono che in qualunque alimento siano trattenute delle membra di Dio, mescolate e legate insieme al cibo; essi sono del parere che di tali membra si debba avere riguardo, perché non siano contaminate dai peccatori e non vengano inviluppate con nodi più infelici. Questa follia forse non merita neppure di essere respinta, tanto essa offende l'intelligenza di tutte le persone sane di mente al solo venir esposta. Alcuni, invece, che non hanno affatto una tale opinione, pensano che non si debba dar da mangiare ai peccatori perché non accada che tentiamo di metterci contro Dio, il cui sdegno sopra di loro si mostra chiaramente, come se Egli potesse adirarsi anche con noi per il fatto che vogliamo soccorrere coloro che Lui vuole punire. Citano anche la testimonianza delle Sante Scritture, dove leggiamo: «Usa misericordia e non accogliere il peccatore, e verso empi e peccatori compi vendetta»; «Fa' del bene all'umile e non donare all'empio, perché anche l'Altissimo ha in odio i peccatori e verso gli empi compie vendetta». Non capendo come queste parole debbano essere intese, si rivestono di una detestabile crudeltà.
Perciò è opportuno che su questo argomento, fratelli, ci rivolgiamo con poche parole alla vostra carità, perché non succeda che voi, quando a causa di un aberrante modo di pensare non capite la volontà divina espressa nei Libri divini, acconsentiate alla malvagità umana. L'apostolo Paolo, infatti, insegnando con la massima chiarezza che a tutti va concessa misericordia, dice: «Quando ne abbiamo l'occasione, pertanto, operiamo il bene verso tutti infaticabilmente, soprattutto verso i fratelli nella fede». A dir il vero, da ciò risulta chiaro che nelle opere di questo genere bisogna preferire i giusti. Quali altre persone dovremmo infatti intendere per «fratelli nella fede», essendo stato affermato chiaramente in un altro luogo che «Il giusto vive per fede?». Le viscere di misericordia non vanno però chiuse agli altri uomini, anche se peccatori, neppure nel caso in cui essi abbiano verso di noi un animo ostile, come ci dice e ci ammonisce il nostro Salvatore stesso: «Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano».
E ciò non è stato passato sotto silenzio nei libri dell'Antico Testamento; lì infatti si legge: «Se il tuo nemico avrà fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere», e di questa testimonianza anche l'Apostolo ha fatto uso. Non per questo, però, sono false le parole che abbiamo citato sopra, perché anch'esse sono precetti divini: «Usa misericordia e non accogliere il peccatore». Quelle parole, infatti, sono state dette perché a nessun peccatore tu faccia del bene proprio in quanto è un peccatore, ma tu faccia del bene a chi ti odia, non in quanto è un peccatore, ma in quanto è un uomo. Così osserverai entrambi i precetti, senza essere lassista rispetto al vendicare né disumano rispetto al soccorrere. Chiunque infatti accusa giustamente un peccatore, che cos'altro vuole, se non che quello non sia un peccatore? Egli dunque odia in quello ciò che anche Dio odia, perché sia distrutto ciò che ha fatto l'uomo e sia liberato ciò che ha fatto Dio. Il peccato, infatti, l'ha fatto l'uomo, mentre l'uomo stesso l'ha fatto Dio. E quando diciamo questi due termini, “uomo” “peccatore”, essi non vengono affatto detti inutilmente. In quanto infatti è un peccatore, ammoniscilo, e in quanto è un uomo, abbine misericordia. E non libererai assolutamente l'uomo, se non l'avrai perseguito in quanto peccatore.
A questo dovere attende ogni disciplina, così com'è adatta e appropriata ad ognuno che sia dotato di responsabilità di governo: non solo al vescovo che governa il suo popolo, ma anche al povero che governa la sua casa, al ricco che governa la sua servitù, al marito che governa sua moglie, al padre che governa i suoi figli, al giudice che governa la sua provincia, al re che governa la sua nazione. Tutti costoro, quando sono buoni, vogliono senz'altro bene a quelli che essi governano e, secondo il potere loro «concesso dal Signore di tutti quanti, il quale governa anche i governanti», fanno in modo che i loro stessi governati si conservino come uomini e periscano come peccatori. Così essi adempiono ciò che sta scritto: «Usa misericordia e non accogliere il peccatore», per non volere che in lui resti salvo il fatto che è un peccatore, «e verso empi e peccatori compi vendetta», perché il fatto stesso che sono peccatori ed empi sia cancellato in loro; «fa' del bene all'umile», per la ragione che è umile, «e non donare all'empio», per la ragione che è empio, «perché anche l'Altissimo ha in odio i peccatori e verso gli empi compie vendetta»; l'Altissimo, tuttavia, poiché quelli non sono solo peccatori ed empi, ma anche uomini, «fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». Così, a nessun uomo va chiusa la propria misericordia, a nessun peccato va aperta l'impunità.
Bisogna capire come non sia da disprezzare l'elemosina che si fa a qualsiasi povero per ragioni di umanità, dal momento che il Signore alleviava l'indigenza dei poveri attingendo a quella cassa che riempiva con le ricchezze altrui. E se per caso uno dicesse che non erano peccatori né quegli invalidi e quei mendicanti che il Signore ordinò di invitare, né quelli ai quali egli era solito elargire denaro prelevandolo dalla cassa, e che pertanto dalle testimonianze evangeliche non segue che venga ordinato ai misericordiosi di accogliere o nutrire anche i peccatori, ebbene, costui faccia attenzione a quanto ho già menzionato più sopra, perché sono senz'altro peccatori e massimamente scellerati coloro che odiano e perseguitano la Chiesa, e tuttavia in riferimento ad essi si dice: «Fate del bene a quelli che vi odiano», e lo si conferma con l'esempio di Dio Padre «che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». Non accogliamo dunque i peccatori per il motivo che sono peccatori, ma trattiamo tuttavia anch'essi umanamente, perché essi sono anche uomini.

(©L'Osservatore Romano 28 agosto 2013)

mercoledì 10 luglio 2013

Le radici dell'astio nei confronti di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. La “Dichiarazione di Colonia” e i suoi sostenitori

LE RADICI DELL'ASTIO NEI CONFRONTI DI JOSEPH RATZINGER-BENEDETTO XVI. LO SPECIALE DEL BLOG

Cari amici, grazie al lavoro della nostra Gemma proseguiamo nella nostra ricerca sulle radici dell'astio nei confronti di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI.
Oggi parliamo della cosiddetta "Dichiarazione di Colonia", firmata da un numero considerevole di teologi tedeschi, dal clero e da un gruppo di laici, con lo scopo di fare parecchie rivendicazioni (le stesse che si fanno oggi) circa l'autonomia della teologia ed il maggior peso delle comunita' nella scelta dei vescovi. Da notare il modo in cui si utilizza la parola "coscienza".
Molti fattori scatenarono il "caso" Colonia ma indubbiamente molti teologi trovarono il modo di riaffermare, anche mediaticamente, la loro posizione dopo la pubblicazione di "Rapporto sulla fede", il libro intervista del card. Ratzinger con Vittorio Messori.
La Dichiarazione ebbe un certo successo anche in Italia. Analizzeremo il "caso" Italia in un successivo post perche' la questione ci riguarda direttamente.
Vediamo ora la genesi del documento in lingua tedesca. Notiamo come Joseph Ratzinger, Prefetto della Cdf ma non certo Papa, sia tirato in ballo in ogni polemica possibile ed immaginabile.
Notiamo anche come persino Giovanni Paolo II fu accusato di fare troppe concessioni ai seguaci di Lefebvre. Alla fine gli argomenti sono sempre i soliti...
R.

Contro il Magisterium. La “Dichiarazione di Colonia” e i suoi sostenitori

Con il termine “Magistero della Chiesa”, la Chiesa cattolica indica il proprio insegnamento, con il quale  ritiene di conservare e trasmettere attraverso i secoli il “Deposito della Fede”, la dottrina rivelata agli Apostoli da Gesù.
Tale Magistero può essere ordinario o straordinario: il Magistero ordinario è la modalità normale con cui la Chiesa comunica il suo insegnamento tramite encicliche, lettere pastorali e altri scritti o attraverso la predicazione orale da parte del Papa e dei Vescovi, mentre il Magistero straordinario consiste in un pronunciamento di un Concilio ecumenico o del papa “ex-cathedra” che definisce una verità di fede di natura dogmatica.
Essendo il Magistero uno dei pilasti essenziali della Chiesa, chiunque si voglia considerare cattolico è tenuto ad accettare e seguire scrupolosamente i suoi dettami e, qualora si decidesse di non farlo, la conseguenza immediata è quella di porsi “extra-ecclesiam” (è accaduto, ad esempio, nel 1870 quando, non accettando alcuni Vescovi il dogma dell’infallibilità papale proclamato da Pio IX al Concilio Vaticano I, formarono una Chiesa indipendente, detta “Vetero-Cattolica”).
Ma cosa può accadere nel caso un gruppo di coloro che sono incaricati di trasmettere il Magistero e di sorvegliare sulla sua osservanza, Vescovi e Sacerdoti, decida, pur rimanendo formalmente all’interno della Chiesa cattolica, di mettere in discussione l’“auctoritas” magisteriale?
E’ quanto è accaduto nel 1989 con la “rivolta” di un nutrito gruppo di teologi e Prelati tedeschi, firmatari della cosiddetta “Dichiarazione di Colonia”, che ha avuto ampio seguito internazionale e che ha segnato uno dei punti più difficili e controversi del lungo Pontificato di Giovanni Paolo II.
Per comprendere i termini della questione, dobbiamo, innanzitutto, inquadrare la situazione nel suo contesto storico.
Il 16 ottobre 1978, al termine di un Conclave piuttosto breve, venne eletto “CCLXIII Successore di Pietro” il Cardinale polacco Karol Józef Wojtyła, già noto agli “addetti ai lavori” sia per la sua grande capacità comunicativa e di appeal sui giovani che per la sua intransigenza verso ogni forma di “deviazionismo para-marxista” (cioè, sostanzialmente, legato alle tendenze di sinistra). Il nuovo Papa, che assume il nome di Giovanni Paolo II, da subito si lancia in un programma di “ricostruzione” delle basi sociali, dogmatiche e teologiche su cui si fonda la Chiesa.
In quest’ottica, il 25 novembre 1981, Papa nomina Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’organo della Santa Sede che si occupa di vigilare sulla correttezza della Dottrina cattolica, il Cardinale di Monaco e Frisinga Joseph Alois Ratzinger, teologo conservatore tra i più noti della Chiesa, che manterrà tale carica fino all’elevazione al Soglio Pontificio (19 aprile 2005) con il nome di Benedetto XVI.
Da subito l’opera di ristrutturazione della Chiesa del Papa e di quello che, a tutti gli effetti, era il suo più stretto collaboratore fu evidente, con l’instaurazione di un clima di notevole “intransigenza dogmatica” che fece sì che buona parte della “sinistra ecclesiastica” parlasse di un “passo indietro” verso le posizioni più retrive della Chiesa pre-Concilio Vaticano II.
In particolare, le idee del Cardinal Ratzinger sul governo della Chiesa diventarono molto chiare quando, nel 1985, rompendo una lunga tradizione di discrezione dell’ex Sant’Uffizio, egli accettò di farsi intervistare dal giornalista italiano Vittorio Messori, già autore di due saggi su Gesù. Dall’incontro dell’agosto 1984 in un’ala chiusa del seminario di Bressanone, nacque il libro Rapporto sulla Fede che, oltre a riscuotere successo in termini di vendite, non mancò di provocare numerose critiche all’interno e all’esterno della Chiesa cattolica.
Su cosa si appuntavano tali critiche?
Sostanzialmente, il nodo più problematico riguardava la visione del Prefetto sui risultati del Concilio Vaticano II.
Egli, infatti, aveva dichiarato che, ancor prima della fine del Concilio, si era reso conto che esso aveva provocato una crescente sensazione che nulla all’interno della Chiesa fosse stabile e che tutto potesse essere rivisto.
In particolare, il Cardinale aveva detto: “Il Concilio sembrava essere simile a un grande parlamento della Chiesa, che potesse cambiare e rivoluzionare tutto a modo suo” e in cui era evidente  “un crescente risentimento nei confronti di Roma e della Curia, che appariva come il vero nemico di ogni rinnovamento e il progresso”.
Il problema, sottolineava Ratzinger, era che, mentre le divisioni e gli scontri crescevano, si diffondevano idee egualitaristiche, tali per cui di si domandava perché se i vescovi potevano cambiare la Chiesa e la Fede stessa, il resto del popolo di Dio non poteva fare la stessa cosa.
Inoltre, tutti sapevano che i nuovi argomenti dei Vescovi nascevano dai teologi che, a loro volta, avevano “cominciato a sentirsi i i veri rappresentanti della conoscenza, e per questo motivo non potevano più mostrarsi soggetti ai Vescovi”.
Il risultato di questo processo era che nella Chiesa, a almeno per quanto riguardava l’opinione pubblica, tutto sembrava poter essere oggetto di revisione e  anche la Professione di Fede non sembrava più intoccabile, ma da sottoporsi alle verifiche degli studiosi.
Dietro a questa tendenza degli specialisti a dominare l’Istituzione ecclesiastica, si era sviluppato un altro fattore: l’idea di una sovranità ecclesiale popolare, con la propagazione dell’idea di una “Chiesa dal basso” o di una “Chiesa del popolo” che, in particolare nel contesto della teologia della liberazione, sembrava essere diventata  l’obiettivo stesso della riforma.
A seguito della pubblicazione di questa diagnosi che, per altro, trovava in quel periodo perfetta corrispondenza nelle decisioni magisteriali, improntate alla soppressione di qualunque forma di “dissenso modernista” all’interno della Chiesa, era quasi naturale che un folto gruppo di teologi tedeschi, seguiti da colleghi dell’Europa centrale e meridionale, finisse per denunciare quello che definivano il pensiero “autoritario e esclusivista” che permeava le azioni di Ratzinger e la sua mancanza di attenzione verso il parere di tutti i cristiani (il cosiddetto “sensus fidelium”), sia in materia di promulgazioni del Magistero che riguardo alla funzione dei teologi stessi nel governo della Chiesa.
Ne risultò, nel 1989, una sorta di “lettera aperta”, promossa dai teologi tubinghesi Norbert Greinacher e Dietmar Mieth e da un primo gruppo di “dissidenti” e sottoscritta da 162 professori di teologia cattolica di lingua tedesca (e, in breve tempo, in Olanda, da circa 17.000 laici ed ecclesiastici e, nella Repubblica Federale Tedesca, da circa 16.000 parroci e laici, oltre che da circa cento gruppi cattolici), a cui seguirono dichiarazioni analoghe in Belgio, Francia, Spagna, Italia, Brasile e negli Stati Uniti. La dichiarazione è stata inoltre sottoscritta, in Olanda, da circa 17.000 e, nella Repubblica Federale di Germania, da circa 16.000 parroci e laici, oltre che da circa cento gruppi cattolici.
Tale “lettera aperta”, che ebbe come motivo ultimo scatenante una questione locale di successione vescovile (l’“affare di Colonia”), passò alla storia come “Dichiarazione di Colonia” e vale oggi la pena di essere letta integralmente dal momento che, pur nella sua brevità, dà perfettamente conto delle opposte posizioni e del clima di scontro che, vent’anni fa, oppose la Chiesa romana a buona parte della sua stessa “intellighenzia”.
* * *
DICHIARAZIONE DI COLONIA – “CONTRO L’INTERDIZIONE – PER UNA CATTOLICITÀ APERTA”
Diversi fatti accaduti nella nostra chiesa cattolica ci inducono a fare una dichiarazione pubblica. Sono soprattutto tre ordini di problemi a preoccuparci:
1. La curia romana mette risolutamente in pratica l’idea di coprire unilateralmente le sedi episcopali di tutto il mondo senza tener conto delle proposte delle chiese locali e ledendo i loro diritti acquisiti.
2. In tutto il mondo, in molti casi, viene negata a teologi e teologhe qualificati l’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento. Si tratta di un grave e pericoloso attentato alla libertà di ricerca e di insegnamento, oltre che alla struttura dialogica della conoscenza teologica, che il Concilio Vaticano II ha ribadito in molti testi. Il conferimento dell’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento viene indebitamente utilizzato come strumento disciplinare.
3. Stiamo assistendo al tentativo, estremamente discutibile dal punto di vista teologico, di rafforzare ed estendere in modo indebito la competenza magisteriale del papa, oltre a quella giurisdizionale.
Prestando attenzione a questi tre ordini di problemi, vediamo i segni di una trasformazione della chiesa postconciliare:
- di uno strisciante mutamento strutturale nel senso di un’estensione indebita del potere giurisdizionale;
- di una progressiva interdizione delle chiese particolari, di un rifiuto dell’argomentazione teologica, e di una diminuzione dell’ambito di competenza dei laici nella chiesa;
- di un antagonismo proveniente dall’alto, che inasprisce i conflitti nella chiesa con il ricorso a misure disciplinari.
Siamo convinti che su queste cose non possiamo tacere. Riteniamo necessaria questa presa di posizione
- in ragione della nostra responsabilità nei confronti della fede cristiana,
- nell’esercizio del nostro servizio di docenti di teologia,
- per il rispetto che dobbiamo alla nostra coscienza,
- in solidarietà con tutte le donne e tutti gli uomini cristiani scandalizzati o addirittura disperati per i recenti sviluppi occorsi nella nostra chiesa.
1. Per quanto riguarda le recenti nomine episcopali da parte di Roma in tutto il mondo, e soprattutto in Austria, in Svizzera e qui a Colonia, dichiariamo.
Ci sono diritti tradizionali, persino codificati, favorevoli al concorso delle chiese locali, diritti che hanno caratterizzato fino a oggi la storia della chiesa. Essi fanno parte della multiforme vita della chiesa.
Quando le chiese locali (come è accaduto in America Latina, nello Sri Lanka, in Spagna, in Olanda, in Svizzera, in Austria e qui a Colonia) vengono disciplinate mediante le nomine episcopali o altre misure, spesso fondate su sospetti e analisi errate, vengono defraudate della loro autonomia.
L’apertura della chiesa cattolica alla collegialità tra papa e vescovi, che pure è stata una delle acquisizioni fondamentali del Concilio Vaticano II, viene soffocata da un nuovo centralismo romano.
L’esercizio dell’autorità, quale trova espressione nelle recenti nomine episcopali, è in contrasto con la fraternità del Vangelo, con le esperienze positive dello sviluppo dei diritti di libertà e con la collegialità dei vescovi. La prassi attuale ostacola il processo ecumenico in punti essenziali.
In riferimento all’”affare di Colonia”, riteniamo scandaloso il fatto di cambiare le norme dell’elezione con il procedimento in corso. In questo modo è stata duramente colpita la coscienza di una correttezza procedurale.
L’autorevolezza e la dignità del ministero papale richiedono una certa sensibilità nel rapporto con il potere e con le istituzioni costituite.
La scelta dei candidati all’episcopato esprime il pluralismo della chiesa in maniera adeguata; il procedimento di nomina non è una scelta privata del papa.
Il ruolo delle nunziature diventa oggi sempre più discutibile. Benché le vie di trasmissione di informazioni e i contatti personali siano semplificati, la nunziatura tende a trasformarli sempre più in un odioso servizio investigativo, che spesso con la scelta unilaterale delle informazioni crea quelle deviazioni di cui è appunto alla ricerca.
- L’obbedienza nei confronti del papa, che in tempi recenti viene sempre più spesso dichiarata e pretesa da vescovi e cardinali, ha l’aspetto di un’obbedienza cieca. L’obbedienza ecclesiale a servizio del Vangelo richiede la disponibilità a un’opposizione costruttiva (cfr. Codex Iuris Canonici, can. 212, § 3). Invitiamo i vescovi a ricordarsi dell’esempio di Paolo, che è rimasto in comunione con Pietro pur “resistendogli in faccia” nella questione della missione tra i pagani (Gal 2,11).
2. Sul problema delle cattedre di teologia e sul conferimento dell’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento noi dichiariamo:
- Vanno salvaguardate la competenza e la del vescovo locale, fondate teologicamente e a volte tutelate dai concordati, in materia di conferimento o di ritiro dell’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento. i vescovi non sono organi esecutivi del papa. L’attuale prassi, volta a violare all’interno della chiesa il principio di sussidiarietà nelle chiare competenze del vescovo locale in materia di insegnamento della fede e della morale, crea una situazione insostenibile. Un intervento romano nel conferimento o nel ritiro dell’autorizzazione all’insegnamento indipendentemente dalla chiesa locale o addirittura contro l’esplicito convincimento del vescovo locale rischia di provocare la decadenza di competenze costituite e consolidate.
- Le obiezioni contro il conferimento dell’autorizzazione all’insegnamento e, tanto più, le decisioni in questa materia devono fondarsi su argomenti motivati ed essere giustificate in base alle norme accademiche in vigore. Un arbitrio in questo campo mette in discussione la stessa esistenza della facoltà di teologia cattolica nelle università statali.
- Non tutti gli insegnamenti della chiesa sono ugualmente certi e hanno un uguale peso dal punto di vista teologico. Noi ci opponiamo alla violazione di questa dottrina dei gradi della certezza teologica ovvero della “gerarchia delle verità” nella prassi del conferimento e della negazione dell’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento. Singole questioni etiche e dogmatiche di dettaglio non possono perciò venire contrabbandate arbitrariamente come atte a stabilire l’identità della fede, mentre comportamenti morali direttamente legati alla prassi della fede (come quelli, ad esempio, contrari alle torture, alla discriminazione razziale o allo sfruttamento) non sembrano avere la stessa importanza teologica nella questione della verità.
- Il diritto all’autonomia organizzativa delle facoltà e degli istituti superiori nella scelta degli insegnanti non può essere completamente conculcato da un esercizio arbitrario della potestà di conferire o negare l’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento.
- Se nelle università, sotto la pressione di tali problemi, si perviene alla scelta dei professori e delle professoresse di teologia in base a criteri extrascientifici, ciò non può che portare a uno scadimento della dignità della teologia nelle università stesse.
3. Di fronte al tentativo di estendere in maniera inammissibile la competenza magisteriale del papa dichiariamo :
- Recentemente, rivolgendosi a teologi e a vescovi, il papa ha collegato la dottrina della regolazione delle nascite – senza tener conto del grado di certezza e del diverso peso degli asserti ecclesiastici – con verità di fede fondamentali quali la santità di Dio e la redenzione a opera di Gesù Cristo, così che coloro i quali criticano l’insegnamento papale sulla regolazione delle nascite vengono accusati di “minare i pilastri fondamentali della dottrina cristiana”, anzi con il loro richiamarsi alla dignità della coscienza essi cadrebbero nell’errore di rendere “vana la croce di Cristo”, di “distruggere il mistero di Dio” e di negare la “dignità dell’uomo”. I concetti di “verità fondamentale” e di “rivelazione divina” vengono usati dal papa per sostenere una dottrina del tutto particolare, che non può essere giustificata in base alla Sacra Scrittura, nè in base alle tradizioni della chiesa (cfr. i discorsi del 15 ottobre e del 12 novembre 1988).
- L’affinità, ribadita dal papa, tra tali verità non significa che esse abbiano un uguale valore e debbano essere poste sullo stesso piano. Il Concilio Vaticano II afferma: “Nel mettere a confronto le dottrine si ricordino che esiste un ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana” (Decreto sull’ecumenismo, n. 11). Analogamente si devono tenere presenti i diversi gradi di certezza delle affermazioni teologiche e i limiti della conoscenza teologica nelle questioni medico-antropologiche.
- Anche il magistero pontificio ha riconosciuto alla teologia la dignità di verificare gli argomenti addotti in favore delle affermazioni e delle norme di carattere teologico. Questa dignità non può essere lesa dal divieto di pensare e parlare. La verifica scientifica ha bisogno dell’argomentazione e della comunicazione.
- La coscienza non è un surrogato del magistero pontificio, come potrebbe apparire dai discorsi citati. Piuttosto, nell’interpretazione della verità, il magistero deve anche tenere conto della coscienza dei fedeli. Sopprimere la tensione tra dottrina e coscienza equivale ad attentare alla dignità di quest’ultima.
Secondo la convinzione di molti nella chiesa la norma sulla regolazione delle nascite stabilita dall’enciclica Humanae vitae del 1968 rappresenta un orientamento che non sostituisce la responsabilità della coscienza dei fedeli. Alcuni vescovi, tra i quali quelli tedeschi nella loro “Dichiarazione di Konigstein” ( 1968), e alcuni moralisti hanno ritenuto corretta questa convinzione di molti cristiani, uomini e donne, perché sono convinti che la dignità della coscienza non consiste solo nell’obbedienza, ma anche nella responsabilità. Un papa, che così spesso si richiama a questa responsabilità dei cristiani, uomini e donne, nel dominio dell’agire intramondano, non dovrebbe ignorarla sistematicamente nei casi seri. Del resto deploriamo la continua insistenza del magistero pontificio su questo ordine di problemi.
Conclusione
- La chiesa è al servizio di Gesù Cristo. Essa deve resistere alla continua tentazione di abusare del suo vangelo della giustizia, misericordia e fedeltà di Dio mediante forme discutibili di dominio a salvaguardia del proprio potere. Essa è stata concepita dal Concilio come il popolo peregrinante di Dio e la relazione di vita esistente tra i credenti (communio ) ; essa non è una città assediata, che erige i propri bastioni e si difende con durezza sia all’interno sia all’esterno.
- Condividiamo con i pastori diverse preoccupazioni per la chiesa nel mondo odierno in ragione della nostra comune testimonianza. Soccorrere le chiese povere, liberare quelle ricche da ogni sorta di irretimenti e promuovere l’unità della chiesa, sono obiettivi che comprendiamo e per i quali ci impegnamo.
- Tuttavia i teologi, che stanno al servizio della chiesa, hanno anche il dovere di esercitare pubblicamente la critica se l’autorità ecclesiastica fa un uso sbagliato del suo potere, contraddicendo così le sue finalità, ostacolando il cammino verso l’ecumene, sconfessando le aperture del Concilio.
- Il papa rivendica il ministero dell’unità. Appartiene perciò alla sua funzione di comporre i casi di conflitto, cosa che egli ha fatto in maniera eccessiva nel caso di Marcel Lefebvre e dei suoi seguaci, benché questi avessero messo radicalmente in questione il magistero. Non è proprio del suo ufficio inasprire, senza alcun tentativo di dialogo, conflitti di secondaria importanza, o risolverli magisterialmente in maniera unilaterale, facendone oggetto di discriminazione. Quando il papa fa ciò che non è proprio del suo ministero, non può esigere l’obbedienza in nome della cattolicità, deve piuttosto attendersi un’opposizione.
* * *
Come anticipato, questo documento ebbe una notevole risonanza anche in Italia.
La prima presa di posizione italiana a favore della Dichiarazione, arrivò immediatamente (e piuttosto ovviamente) dalle cosiddette Comunità di base (CdB), d’origine brasiliana e notoriamente molto vicine alla “Teologia della Liberazione”, ma, ben presto anche la stampa specializzata, attraverso le sue firme più prestigiose e con pochissime eccezioni, manifestò il suo consenso.
Intanto, alla Dichiarazione di Colonia, stavano facendo seguito le “dichiarazioni” di intellettuali e teologi francesi e di sessantadue teologi spagnoli, mentre si diffondevano costantemente nuovi appelli per il “dialogo nella chiesa” e segnali di dissenso da parte di esponenti di numerosissimi ordini religiosi.
Finalmente, il 15 maggio 1989, anche teologi italiani diffusero il loro cosiddetto “Documento dei Sessantatre”, che, essendo il primo manifesto pubblico di dissenso verso il Papa sottoscritto da docenti ed esponenti della teologia e della cultura (la maggior parte dei quali esercitava in seminari ed istituzioni educative ecclesiastiche) della Nazione considerata la più cattolica d’Europa, fece emergere in tutta la sua drammaticità la condizione delle istituzioni teologiche.
Pubblicata sotto il titolo di “Lettera ai Cristiani – Oggi nella Chiesa” sulla rivista “Il Regno”, il documento nasceva dal “disagio per determinati atteggiamenti dell’autorità centrale della chiesa nell’ambito dell’insegnamento, in quello della disciplina e in quello istituzionale”, e dalla “impressione che la Chiesa cattolica sia percorsa da forti spinte regressive”.
I punti fondamentali del testo sono così sintetizzabili:
  1. il Concilio Vaticano II costituisce una svolta radicale e irreversibile, nella “comprensione della fede ecclesiale”;
  2. il Deposito della Fede custodito dalla Sede Apostolica non ha valore in sé, né valore assoluto, ma piuttosto otterrebbe valore per la sua “connotazione pastorale” che rende possibile “l’interpretazione fedele della verità dentro l’esistenza storica della comunità”;
  3. la Santa Sede si fa condizionare da una “mentalità di privilegio”, trascurando lo “stile di Cristo”;
  4. la natura gerarchica della Chiesa Visibile dovrebbe lasciare il posto a una “concezione della chiesa come comunione di chiese”;
  5. la funzione magisteriale del primato petrino non esclude la “varietà dei modi di intendere e di vivere la fede che lo Spirito suscita nelle diverse comunità”;
  6. la funzione del Magistero Pontificio “nella chiesa delle origini” non era “riducibile alla funzione di guida della comunità” e, pertanto, occorre ripensare tale funzione;
  7. non si dovrebbe parlare di infallibilità del Magistero, anche di quello ordinario universale, ma della sua funzione “pastorale”;
  8. la liceità dei pronunciamenti del Magistero in materia di etica dovrebbe certamente essere approfondita;
  9. il compito dei teologi non si svolge solo “divulgando l’insegnamento del magistero e approfondendo le ragioni che ne giustificano le prese di posizione” ma, piuttosto, “quando raccolgono e propongono le domande nuove [...] o quando percorrono [...] sentieri inesplorati”.
Siamo, evidentemente, su posizioni più caute rispetto allo scritto dei teologi tedeschi, ma provenendo da un ambito così prossimo al Vaticano, anche questo documento scuote profondamente la Curia che, comunque, interpreta entrambe le “Dichiarazioni” come inaccettabili raccomandazioni alla Chiesa sulla necessità di capitolare di fronte alla mentalità moderna e come una giustificazione per tutti i tipi di “resistenza” e di critica al Magistero cattolico.
Così, mentre in tutto il mondo si sviluppa un movimento ecclesiastico legato alle Dichiarazioni che si denomina “Noi siamo Chiesa” e mentre persino all’interno del Vaticano cominciano a circolare voci di consenso alle richieste dei teologi, la Santa Sede decide di rispondere in diverse forme: un insegnamento sulla vocazione ecclesiale del teologo da parte del Cardinal Ratzinger, teologo egli stesso (Donum Veritatis, 1990), un’enciclica sul primato della verità (Veritatis Splendor, 1993) e, soprattutto, la revisione della Professione di Fede apostolica nel documento Ad Tuendam Fidem (1998), che contiene l’esposizione formale della cosiddetta “verità definitiva”.
L’Istruzione Donum Veritatis nasce direttamente dall’urgenza di preservare l’unità della Chiesa e delle sue Verità di fronte alla “Dichiarazione di Colonia”. In essa si richiede urgentemente (e con una durezza a tratti sconcertante) di recuperare la centralità della autorità magisteriale  del ministero episcopale e si ribadisce la funzione secondaria del teologo in relazione a tale ministero: pur riconoscendo ai teologi l’importante ruolo svolto nella preparazione e nella realizzazione del Concilio Vaticano II, li si accusa di essere in parte colpevoli della crisi della Chiesa post-conciliare, per la loro volontà di imporsi sulla Fede non tenendo conto che il loro servizio nasce dalla Fede stessa. Di conseguenza, avendo il Magistero l’assistenza della Spirito Santo e, conseguentemente, essendo le sue Verità insegnate infallibilmente, il ruolo dei teologi risulta unicamente quello di approfondire tali Verità, senza mai contrapporvisi, tentando di creare un “Magistero parallelo”. Stante “la forza della verità stessa” e il rispetto ad essa dovuto, quando un teologo non è d’accordo con il giudizio della Chiesa, il suo appello ai diritti umani è irrilevante poiché egli è in Contraddizione con “lo stesso impegno da lui liberamente e consapevolmente assunto di insegnare in nome della Chiesa” e dovrebbe smettere di esercitare il suo ruolo, né ha senso fare appello alla propria coscienza nel caso sia in gioco un pronunciamento dottrinale essendo tale appello incompatibile con l’economia della Rivelazione e con la sua trasmissione della Fede nella Chiesa.
Anche questo documento viene naturalmente accolto con viva ostilità dal mondo teologico: il quotidiano cattolico ufficiale di Francia La Croix, ad esempio, lo accusa di porre “la libertà del teologo nello spazio ristretto di una obbedienza molto spirituale al magistero”, mentre il segretario dell’Associazione Teologica Spagnola, Juan José Tamayo sostiene che l’Istruzione “lascia ai teologi un unico compito, quello di essere la claque del magistero”.
Immediatamente nascono anche un “manifesto” di protesta della Società Teologica Cattolica d’America e la “Dichiarazione di Tubinga”, del 12 luglio 1990, firmata da ventidue professori di teologia tedeschi, olandesi e svizzeri, in cui si chiede che il Papa rinunci all’infallibilità in materia morale.  In Italia, la ribellione è meno organizzata ma comunque significativa, a partire dall’editoriale del periodico “Il Regno” intitolato “Richiesta di speranza”, secondo il quale la figura di teologo prospettata dalla Santa Sede sarebbe in opposizione al Concilio Vaticano II. Allo stesso modo, sul quotidiano Il Secolo XIX, Padre Ernesto Balducci si rammarica per la mancata nascita di una chiesa popolare, che tragga la sua autorità dal basso, le Comunità di Base (CdB), per bocca di don Franco Barbero, chiedono al cardinale Ratzinger di occuparsi non già dei teologi ribelli ma piuttosto di quelli “eccessivamente obbedientie, tra l’episcopato italiano, se il card. Carlo Maria Martini sostiene per il teologo la necessità della “comunione con i Vescovi e con l’intero popolo di Dio” e di evitare “il dissenso permanente e pregiudiziale che non può giovare a nessuno”, Mons.Luigi Bettazzi, Vescovo di Ivrea, non ha dubbi: “il Magistero deve ascoltare di più il popolo di Dio”.
Nonostante (e, forse, proprio in ragione di) queste reazioni, tre anni dopo l’enciclica Veritatis Splendor estende ulteriormente l’analisi della vocazione teologica in ambito ecclesiale, ribadendo le tesi ratzingeriane e criticando velatamente l’“ingenuità” dei Padri conciliari nella loro visione del rapporto tra Chiesa e mondo così come espressa nella Gaudium et Spes, ma è con la lettera apostolica Ad Tuendam Fidem del 1998 che la Santa Sede vuole porre definitivamente termine all’ormai annoso contenzioso che la oppone ai teologi progressisti.
In sostanza, la lettera apostolica si configura come un vero e proprio “giuramento di fedeltà” a cui qualunque teologo cattolico e qualunque candidato a Ministeri ecclesiali deve sottoporsi. Al “Credo niceno-costantinopolitano” vengono aggiunti tre punti fondamentali:
  1. Credo pure con ferma fede tutto ciò che è contenuto nella parola di Dio scritta o trasmessa e che la Chiesa, sia con giudizio solenne sia con magistero ordinario e universale, propone a credere come divinamente rivelato.
  2. Fermamente accolgo e ritengo anche tutte e singole le verità circa la dottrina che riguarda la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo.
  3. Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell’intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice o il Collegio Episcopale propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo.
Di fatto, dal momento che l’attuale Codice di Diritto Canonico contempla solo sanzioni per chi dissente sul primo e il terzo punto ma non si fa menzione del secondo punto la lettera apostolica si propone di colmare questa lacuna, eliminando ogni margine di dissenso interno rispetto alle “Verità definitive”.
Nel commento alla lettera, scritto a quattro mani dal Cardinal Ratzinger e dal Cardinal Tarcisio Bertone, allora Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede e oggi Segretario di Stato Vaticano, si ricorda come il testo, oltre al Magistero ordinario e al Magistero straordinario, istituisca un terzo Magistero delle “Verità definitive”, universali e irriformabili, basate sui suggerimenti dello Spirito Santo al Magistero stesso, il cui compito è di mantenere l’unità ecclesiale attorno a Verità contestate o prassi a cui è difficile aderire, ma che devono essere ammesse “tamquam definitive” anche senza una dichiarazione solenne in materia.
Appare logico che, anche in questo caso, le spiegazioni fornite da Ratzinger e Bertone abbiano provocato un senso di  generalizzata perplessità nel mondo teologico, soprattutto per le loro importanti implicazioni relative al fatto che un eventuale rifiuto di qualunque di tali Verità implica “ipso facto”  la perdita della piena comunione con la Chiesa cattolica, l’accusa di eresia e, per i teologi, la revoca dell’autorizzazione ad insegnare.
Non sorprende, quindi che la Conferenza Episcopale tedesca abbia immediatamente posto molte obiezioni all’istituzione di questo nuovo Magistero (che si configura, essenzialmente, come un sostegno al “motu proprio” papale): concretamente, la conferenza  ha sottolineato che il primo comma del giuramento viola l’unità della Scrittura e della Traditio come espressamente insegnata dal Concilio Vaticano II a favore di due realtà distinte, il secondo comma afferma, contrariamente a quanto insegnato dal Vaticano II, l’infallibilità del Papa anche in materie di Fede secondarie e il terzo comma richiede, sempre in contrapposizione con il Vaticano II, l’ “obsequium religiosum” anche per questioni non strettamente pertinenti il Magistero autentico, tutte cose inaccettabili per i fedeli.
Indifferente (si direbbe “a rigor di logica” vista la materia del contendere) alle critiche, nel 1999 la Curia vaticana ha insistito con urgenza che i Vescovi tedeschi mettessero in pratica la lettera richiedendo il giuramento, cosa che è stata decisa nell’Assemblea Episcopale della primavera del 2000.
Ciò ha messo fine, se non ai malumori già espressi dalla “Dichiarazione di Colonia”, almeno ad ogni discussione teologica in materia di Fede, rafforzando, di fatto, fino alle estreme conseguenze la posizione papale sviluppatasi dai tempi del dogma dell’infallibilità.
Ma, ci si permette di osservare, quanto siamo lontani dalla voce del Concilio Vaticano II, che aveva proclamato che i Vescovi non dovrebbero  “essere considerati vicari dei Pontefici romani” (Lumen Gentium n. 27)!
Bibliografia:

lunedì 1 luglio 2013

Continuità e rinnovamento nel Primato di Pietro (Biffi)

Su segnalazione di Fabiola leggiamo:

CONTINUITÀ E RINNOVAMENTO NEL PRIMATO DI PIETRO


Amare e servire

INOS BIFFI

Gesù Cristo ha affidato il governo della sua Chiesa a tutto il Collegio degli Apostoli, costituendo in essa Pietro quale roccia e fondamento.
Non per volontà di Pietro la Chiesa è apostolica; allo stesso modo non per la decisione dei Dodici Pietro detiene il primato: esso, infatti, non consegue a un loro accordo di eleggere Simone come primo tra di loro e come loro rappresentante; deriva invece da una esclusiva e precisa determinazione di Gesù, che sempre singolarmente a Simone ha affidato l’ufficio di Pastore, con il mandato il pascere il suo gregge.
Una Chiesa che non fosse apostolica non sarebbe la Chiesa di Cristo, come non lo sarebbe una Chiesa dove non vi! gesse il primato di Pietro.
L’ha ricordato ancora ieri Papa Francesco, nella festa dei santi Pietro e Paolo, spiegando che il Vescovo di Roma deve «confermare nell’unità: il Sinodo dei Vescovi, in armonia con il primato» e con il suo «servizio». Per una chiara disposizione di Gesù Cristo la Chiesa è apostolica e petrina.
Ed esattamente con questa essenziale identità e configurazione la ritroviamo nella Tradizione. In virtù del sacramento dell’episcopato, al Collegio apostolico è succeduto il Collegio dei Vescovi, come a Pietro è succeduto il suo vicario, cioè il Vescovo di Roma.
Il Vaticano II ripropone la dottrina di fede del Vaticano I: rimane cioè intatto quanto dichiarava la costituzione Pastor Aeternus a proposito del Romano Pontefice, che ha «la piena e suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa», potestà «ordinaria e immediata», «sia su tutte e su ciascuna delle Chiese sia su tutti e su ciascuno de! i pastori» (Denzinger, 3064).
Con la conseguenza dell’infallibilità – la stessa «di cui il divino Redentore ha voluto dotata la sua Chiesa» –, nel caso in cui il Romano Pontefice parli «ex cathedra, cioè quando, adempiendo il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani, in virtù della sua suprema autorità apostolica definisce che una dottrina riguardante la fede o i costumi dev’essere ritenuta da tutta la Chiesa».
Quindi queste definizioni sono irreformabili per virtù propria, e non per il consenso della Chiesa.
Lo stesso Vaticano I non mancava di ricordare il collegio dei Vescovi, e citava le parole di Gregorio Magno: «Mio onore è l’onore della Chiesa universale. Mio onore è il solido vigore dei miei fratelli. Allora io mi sento veramente onorato, quando ad ognuno di essi non si nega l’onore dovuto».
Il Vaticano II, tuttavia, con la dottrina relativa al Collegio dei Vescovi, completa ed esplicita ampiamente la dottrina del Vaticano I, in particolare rilevando che essi sono preposti al governo della Chiesa universale per isti! tuzione divina, quindi per la potestà ricevuta immediatamente da Cristo e con un «potere loro proprio» ( Lumen gentium , n.22). Riconosciuto questo, non è fuori luogo osservare, sulla scia della storia, che la maniera concreta di esercizio del primato può mutare, assumendo, per esempio, una forma maggiormente collegiale.
Già il Concilio di fatto ha istituito il Sinodo dei Vescovi; allo stesso modo può essere diverso, quasi meno 'giuridico', il linguaggio con cui tale primato viene espresso. Occorre, in ogni caso, che resti invariato e si riconosca imprescindibile il suo contenuto dogmatico, dovuto all’istituzione di Cristo, per la quale non esiste Collegio dei Vescovi in cui non sia presente e operante quale Capo il Vicario di Pietro ( cum Petro et sub Petro).
Ecco perché – di là dagli orientamenti o preferenze di scuole teologiche (se così si possono chiamare) o dalle simpatie e dalle buone intenzioni – non è affatto conforme con la dottrina di fede, riproposta dal Vaticano II, parlare, secondo un uso che si va diffondendo, del Sommo Pontefice semplicemente come di un «primo tra pari ( primus inter pares ) », proprio perché il Vicario di Pietro non è 'pari'. 
E, ugualmente, non è consono al dogma riconoscergli un primato solo d’onore, dovuto all’origine petrina e paolina della Sede romana, restando indubbio che la sostanza di quel presiedere e governare del successore di Pietro consiste nell’amare e nel servire.
D’altronde, la Chiesa è una realtà unica e originale; una realtà di grazia, che non ha modelli di paragone tra i vari generi di società umana, e che si può comprendere e accogliere unicamente per fede.

© Copyright Avvenire, 30 giugno 2013

lunedì 27 maggio 2013

Quando l'ecumenismo si avvera. La Trinità e l'«ut unum sint» (Biffi)

La Trinità e l'«ut unum sint»

Quando l'ecumenismo si avvera

di Inos Biffi

Abitualmente, quando si parla di ecumenismo, si cita l'espressione del vangelo di Giovanni: «Che siano una cosa sola» -- ut unum sint (17, 21) -- tuttavia quasi sempre trascurandone il contesto e lasciando, così, sfuggire il senso e l'intenzione precisi di questa domanda che Gesù rivolge al Padre. «Padre santo», egli dice, «io non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. Non prego poi solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola, perché tutti siano uno come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano uno come noi siamo uno. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me». Come si vede, si tratta di un testo dalla trama accuratamente costrutta ed elaborata, dove il tema emergente è quello dell'unità: dell'unità originaria, quella cioè che risulta dall'“inclusione” del Padre nel Figlio e del Figlio nel Padre, e dell'unità dei discepoli nei quali quell'unità divina è destinata a trapassare.
In altre parole, lo stesso unum, in atto dell'intima comunione tra il Padre e Gesù, è chiamato a trasfondersi e a prolungarsi nei discepoli e quindi a diventare visibile nella loro fraternità. «L'unità divina -- commenta il biblista Rudolf Schnackenburg -- è calata nei discepoli di Gesù in quanto “Gesù è in loro” e “il Padre in Gesù”. Poiché Gesù è nei discepoli e il Padre è in Gesù, la comunità dei discepoli è ripiena di essenza divina e quindi unita e compatta. Essa diventa una perfetta unità e a un tempo è chiamata a rendere visibile nell'amore fraterno il mistero dell'unità divina. In ciò il mondo può e deve riconoscere che Gesù, che fa della comunità cristiana la manifestazione dell'essenza divina, è l'Inviato di Dio. Una comunità che è unita e trova la forza di amare è in ultima analisi un mysterium dell'amore divino. Attraverso Gesù Dio ha accolto nel suo amore i credenti nel Figlio suo e li ha colmati della forza del suo amore».
I credenti «porteranno [nel mondo] la testimonianza della loro unità e della loro unione con Padre e col Figlio» (Ignace de la Potterie), e così creeranno la condizione perché lo stesso mondo creda in Gesù, riconoscendolo come Colui che è stato mandato dal Padre.
È come dire che la Chiesa, formata dai discepoli, deve apparire come la comunità partecipe dell'unità che annoda il Padre e il Figlio; come il segno visibile o il sacramento di tale unità. La carità reciproca dei credenti deve quindi riflettere e rappresentare quell'“uno”, che costituisce e definisce la relazione tra Gesù e il Padre.
A questo punto ci si può domandare se sia veramente questa visione dell'unità che evochiamo quando citiamo l'ut unum sint o vi ricorriamo nell'ottica dell'ecumenismo. Questo viene per lo più inteso come la riunione, per così dire paritetica od “orizzontale”, tra i cristiani. Ma in questo caso non siamo esattamente nella prospettiva della preghiera di Gesù, il quale chiedeva non che dei “fratelli separati”, come li chiamiamo, si riunissero, ma che l'unità “divina” dimorasse in quelli che il Padre gli aveva dato, che non sono affatto visti in uno stato di separazione e che, anzi, neppure sarebbero suoi discepoli, se mancasse la presenza in loro dell'unum del Padre e del Figlio. La genesi e la forma del loro essere congiunti si innestano sulla vita intima della santissima Trinità.
Non per questo, tuttavia, l'“unità”, che Gesù implora dal Padre per i “suoi”, va considerata estranea all'“ecumenismo” nel quale come discepoli del Signore ci dobbiamo sentire tutti impegnati. Al contrario: è proprio quella preghiera a illustrare sia la gravità della separazione sia il significato e l'intento della ricomposizione. Anzitutto, la gravità della separazione, che, alla luce della preghiera di Gesù, si configura come un'attenuazione o una perdita della comunione con l'unum del Padre e del Figlio e perciò con l'unica Chiesa, Corpo di Cristo, generata e stabilita da quest'unum, per cui diciamo: «Credo la Chiesa “una”». È poi illustrato il significato e l'intento della ricomposizione, la quale non mira a costituire questa Chiesa “una”, quasi fosse scomparsa, e risultasse come frutto e come sintesi delle varie comunità ecclesiali, che si rimettono insieme. L'ecumenismo si avvera se si ritorna e ci si reinserisce nell'unico Corpo di Cristo, cioè nella Tradizione dell'“unica” Chiesa, che, pur con i suoi membri peccatori e con una storia non sempre ineccepibile, non ha mai cessato di esserci, «una, santa, cattolica e apostolica», quale opera di Dio, fondata da Cristo, animata dal suo Spirito e da lui istituita sull'insfaldabile roccia che è Pietro.
Se l'ecumenismo non è concepito e avvertito a questo livello di finalità e di profondità, determinate dall'ut unum sint di Cristo, le iniziative di dialogo e di confronto in sé proficue e persino necessarie finirebbero col confondere e l'esito sarebbe un pacifismo teologico invece che la ripresa di una vera comunione.

(©L'Osservatore Romano 26 maggio 2013)