La logica della fede e della realtà
Samuel Fernández, Pontificia Università Cattolica del Cile
Questa identità tra il Dio della fede e il Dio creatore di tutta la realtà implica una corrispondenza tra quella che potremmo chiamare la logica della fede e la logica della realtà. Se Dio non avesse nulla a che vedere con il mondo, come pensavano i manichei, o se il Salvatore fosse un Dio straniero, come pensava Marcione, allora il mondo non sarebbe comprensibile alla luce della fede e, a sua volta, la Parola della fede non sarebbe comprensibile per la società umana. Bisognerebbe scegliere tra Dio e la realtà creata. E la salvezza offerta da un Dio estraneo alla creazione consisterebbe semplicemente nel liberarsi di questo mondo. Ma il mondo è creazione di Dio e pertanto la salvezza non consiste nel rifiutare il mondo, bensì nel portarlo alla sua pienezza; poiché il mondo, sebbene ferito dal peccato e dall’ingiustizia, non smette di essere opera di Dio e, provenendo da Lui, soltanto in Lui trova la sua pienezza. Solo così «la fede si mostra universale, cattolica, perché la sua luce cresce per illuminare tutto il cosmo e tutta la storia» (n. 48). Al contrario, una visione puramente negativa del mondo smette di essere cattolica.
Questo stretto rapporto con la creazione indica che la fede non è destinata a restare solo dentro il cuore dei cristiani, e neppure nell’ambito ristretto dei credenti: «La conoscenza della fede illumina non solo il percorso particolare di un popolo, ma il corso intero del mondo creato, dalla sua origine alla sua consumazione» (n. 28). La fede permette di capire il significato della storia e dell’esistenza umana. Non si può perciò ridurre a una questione meramente individuale, «non è un fatto privato, una concezione individualistica, un’opinione soggettiva» (n. 22). Nasce da qui una delle idee su cui più insiste l’enciclica: la fede illumina le relazioni umane e perciò offre un orientamento per costruire la città comune, ovvero «fa comprendere l’architettura dei rapporti umani, perché ne coglie il fondamento ultimo e il destino definitivo in Dio» (n. 51). In tal modo la fede è anche chiamata a illuminare la sfera pubblica e a collaborare al bene comune. Di fatto è a partire da un sguardo di fede che in occidente fu scoperta la radicale dignità di ogni persona, che non era così evidente per il mondo antico (cfr. n. 54). Quando i rapporti umani non sono illuminati dalla fede, sia gli altri sia la creazione possono trasformarsi in mercanzia.
Questo vincolo tra fede e creazione, su cui insiste l’enciclica (n. 11), ha importanti conseguenze per la missione della Chiesa, poiché mostra che la teologia dell’evangelizzazione va elaborata alla luce della teologia della creazione. Un’evangelizzazione che riconosce questo vincolo si alimenta di ferme convinzioni: che la parola della fede è la chiave per comprendere la realtà in quanto tale, che la parola della fede illumina le strutture più profonde e proprie dell’essere umano e che la parola della fede non rifiuta nulla di autenticamente umano, bensì è la chiave che permette di discernere la genuina identità dell’uomo. Lo stretto vincolo esistente tra fede e creazione implica che la Parola che chiama a credere non è estranea o esterna all’uomo; anzi, nella sua novità, essa porta l’uomo ad altezze insospettabili. Su questa base, si comprende che il Vangelo non restringe la vita umana, bensì la porta alla pienezza che le è propria. Detto in parole semplici, il Vangelo non è inumano e perciò la fede non è un ostacolo, bensì uno stimolo per la vita umana. Se nell’enciclica abbondano termini come «aprirsi», «uscire» lasciarsi «illuminare», «ampliare», andare «oltre», «dilatarsi», è perché è scritta con la convinzione che la Parola della fede illumina tutta la creazione, fa uscire l’uomo dalla sua chiusura e lo proietta oltre se stesso, affinché realizzi la sua vocazione più profonda.
(©L'Osservatore Romano 13 luglio 2013)
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