Nel «De sex alis seraphim» Bonaventura elenca le virtù del superiore di una comunità
Con la discrezione di chi sa governare il gregge
di Inos Biffi
In uno dei suoi luminosi opuscoli, il De sex alis seraphim, san Bonaventura da Bagnoregio (del quale il 15 luglio ricorre la memoria liturgica) ci ha lasciato una circostanziata e penetrante descrizione delle doti che un superiore deve avere per reggere bene una comunità. Nel maestro francescano, infatti, l'ardore e la perspicacia teologica si accompagnavano felicemente a un'acuta conoscenza dell'indole umana e del comportamento consueto nelle comunità dei frati.
Attingendo all'immagine del crocifisso alato apparso a san Francesco, il Dottore serafico, nel quale abitualmente il concetto si riveste di immagine, definisce col nome di «ali» le sei “virtù” che devono distinguere il superiore, ossia: lo zelo per la giustizia, la pietà, la pazienza, l'esemplarità della vita, l'oculata discrezione, la devozione a Dio.
Ci soffermiamo su l'“oculata discrezione”, dove risaltano particolarmente la finezza spirituale e la saggezza pratica di Bonaventura.
Il superiore -- egli osserva -- è il «conduttore del gregge; se sbaglia, il gregge si troverebbe disperso e perirebbe». La sua funzione è paragonabile a quella dell'occhio: «Come l'occhio è la luce di tutto il corpo, così il pastore è la luce per il gregge affidatogli». Ed è duplice l'oculatezza che gli è necessaria: l'una riguarda ciò che si deve fare, l'altra il come lo si debba fare, dal momento che il bene se non vien ben fatto, ossia con discrezione, cessa di essere bene, com'è detto da san Bernardo. «Togli la discrezione, e la virtù diventa vizio».
Non è possibile, nota Bonaventura, fare l'elenco di tutti i singoli casi in cui il superiore è chiamato a esercitare tale discrezione, per cui si limita ad alcune situazioni più comuni e ricorrenti. Nel governo della comunità, così che questa si comporti in maniera debita, il superiore dovrà conoscere profondamente le abitudini, la mentalità e le energie di tutti i suoi sudditi, così da imporre il peso dell'osservanza della Regola, secondo quanto conviene a ciascuno. Non tutti, infatti, sono in grado di sostenere tutto allo stesso modo. Bonaventura si mostra, così, estremamente attento alle possibilità della persona e alle sue capacità concrete, contro un'anonima generalizzazione.
Lo stesso superiore deve altresì saper distinguere i diversi contenuti dell'osservanza. Se si tratta di disposizioni della Regola che obbligano gravemente, il suo atteggiamento sarà della massima fermezza: «È preferibile che non ci siano religiosi, là dove non possono o non vogliono vivere da religiosi; così non vanno in perdizione loro, e non sono motivo di scandalo per gli altri». Quando invece si tratti dell'esercizio di una maggior perfezione -- e il convento è stato istituito «perché fosse una palestra di perfezione» -- non vi si dovranno costringere i restii, ma si cercherà di invogliarli con le esortazioni e con la forza dell'esempio: «I consigli della perfezione si suggeriscono, non si impongono».
Infine, per quanto riguarda le pratiche che tradizionalmente contrassegnano e illustrano la vita religiosa (digiuni, silenzio, solenni celebrazioni, penitenze corporali) il superiore, quando veda che sia necessario o maggiormente utile, secondo i tempi e i luoghi, ne saprà dispensare senza difficoltà: essi non sono l'essenziale, ma soltanto degli strumenti e in questo è indispensabile «una notevole dose di discrezione, per saper tenere il giusto mezzo tra la rigidità e la cedevolezza».
Allo stesso modo, ci vorrà molta discrezione quando occorrerà correggere i fratelli colpevoli. A quelli che riconoscono il proprio errore e subito ne chiedono la penitenza, chi regge la comunità imporrà «una soddisfazione tale per cui riconosca la gravità del suo peccato; lo farà, tuttavia in modo clemente, così come vorrebbe che un altro facesse nei suoi confronti, se fosse caduto».
Nei confronti di quelli che invece tengono nascosta la propria colpa, il superiore, che pur ne è al corrente, si trova nell'impossibilità di intervenire. Infatti, «se corregge, non arreca giovamento e fa la figura più del diffamatore che non del correttore di vizi; se freme e dissimula, si sente interiormente bruciare e in preda all'ansia per l'anima del fratello e per se stesso, non riuscendo a emendare il colpevole. D'altronde, non essendo in grado di fare altro, non gli resta che dissimulare, esercitandosi nella pazienza e sforzandosi di ottenere con la preghiera quello che non gli riesce di conseguire con la correzione», sull'esempio di Gesù, «che a lungo ha tollerato il traditore Giuda, senza smascherarlo pubblicamente».
Certo, «una tale dissimulazione richiede tanta discrezione nel cuore del superiore, perché non abbia a deviare in nulla dalla strada giusta».
Si dà poi il caso di quelli che sono responsabili di colpe gravi, pubbliche, ma che non sono disposti a lasciarsi correggere, o fingono di accettare un emendamento, con la conseguenza dello scandalo che si diffonde in comunità o della pretesa dell'impunità. Si deve allora intervenire decisamente con un taglio netto; tale intervento non deve però avvenire «impulsivamente», ma «dopo una lunga consultazione con persone prudenti, provveduti dello spirito di Dio e del dono del consiglio».
Il Dottor serafico prosegue con una serie di avvertimenti. Il superiore deve guardarsi dall'affidare ad altri la «cura delle anime, per dedicarsi a quella delle cose temporali, dal momento che la perdita delle anime è un danno incomparabilmente più grande che non la perdita dei beni terreni»: i «beni spirituali e quanto è necessario alla salvezza e alla crescita delle virtù» appartengono alla «sostanza dell'ufficio pastorale» e quindi devono essere «l'oggetto principale del custode e del reggitore delle anime». Questi, poi, rappresenta il capo nel corpo della sua fraternità, e quindi deve provvedere al bene di tutti: come il capo in un corpo «ascolta, odora, gusta, parla» a vantaggio di tutte le membra, così fa il prelato per quelli che gli sono affidati.
E ancora: egli deve guardarsi, anche per la brevità del tempo a disposizione, dall'immergersi eccessivamente in attività non necessarie ed esteriori, come «edifici, libri» e altro. Si correrebbero molti rischi, come quello di trascurare cose più importanti, o quello di inquinare la coscienza, di «offuscare l'occhio della mente destinato alla contemplazione delle realtà spirituali e interiori», di «intiepidire il desiderio delle realtà celesti». Il «crescere degli impegni porta all'estinzione dello spirito», alla dispersione. «Sta alla discrezione del superiore valutare con prudenza ed esaminare assennatamente quali incombenze assumere e quanto sia conveniente attendervi».
Un'altra serie di avvertimenti concerne la coscienza personale del superiore -- che deve preoccuparsi di mantenere «sicura e nitida» -- e il suo comportamento esterno. Anche in quest'ambito gli si richiede «molta discrezione», per evitare di essere «o troppo triste, o troppo allegro; o troppo severo o troppo remissivo; o troppo silenzioso o troppo loquace; o troppo prodigo o troppo gretto».
«Sbaglia, comunque, meno, secondo il Dottor Serafico, se propende di più alla benignità»: con essa, infatti, «si rende più amabile ai suoi sudditi, che così sono portati a obbedirgli più volentieri, a ricorrere a lui con più larga fiducia e a imitarlo più prontamente».
È il motivo ricorrente di questo manuale bonaventuriano sul governo della comunità: «Quale vicario di Cristo il superiore deve mirare al massimo a essere amato dai suoi frati, così da attirarli più facilmente all'amore di Cristo».
(©L'Osservatore Romano 14 luglio 2013)
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