I padri della Chiesa e l'azione salvifica di Gesù
Il vero medico
di Lucio Coco
La letteratura patristica ha sempre considerato con grande attenzione il particolare attributo di Gesù di essere medico. La medicina si presta infatti molto bene a giocare sullo scarto semantico tra una cura dei corpi (ìasis) e la salvezza (soterìa) delle anime. Emblematico in tal senso resta l'episodio dei dieci lebbrosi che implorano l'intervento di Gesù (cfr. Luca, 17, 11-19) e che furono tutti purificati e guariti dalla lebbra che li affliggeva, ma uno solo, quello che tornò a ringraziare, fu salvato.
I Padri della Chiesa affrontano con una certa gradazione il discorso dell'azione salvifica di Cristo medico. Innanzitutto, tiene a precisare Cirillo di Gerusalemme, prima di essere colui che salva (sotèr), Gesù è «colui che guarisce (iòmenos); infatti è medico delle anime e dei corpi e il guaritore degli spiriti» (Catechesi, 10, 13). Eusebio di Cesarea, citando un brano dell'Apologia di Kodratos, sottolinea la realtà della pratica medica di Cristo: «Le opere del nostro Salvatore sono sempre presenti perché erano vere. Quelli che ha guarito, quelli che ha risuscitato dai morti, costoro -- i guariti e i risuscitati -- non solo sono stati visti, ma sono anche ancora presenti» (Storia ecclesiastica, iv, 3, 2). E anche Origene ricorda quei medici la cui cura era risultata inefficace che, «vedendo che per mano del maestro la cancrena si fermava, non sono invidiosi e non sono tormentati dalla gelosia, [ma] prorompono in lodi all'indirizzo di questo archiatra e celebrano Dio, che ha inviato a loro e ai malati, un uomo di una così grande scienza» (Omelie su Luca, 13).
In primo luogo quindi la fattualità della medicina di Gesù, vero medico dei corpi, contro la tendenza gnostica al deprezzamento del corpo (cfr. Gervais Dumeige, Le Christ médecin dans la littérature chrétienne des premiers siècles, «Rivista di archeologia cristiana» 48, 1972, pp. 127-128). Accanto a questa azione curativa c'è l'attività terapeutica di Cristo che va a incidere sulle coscienze. Lo stesso Signore ha dimostrato che tale tipo di cura è addirittura più difficile di quella del fisico: «Che cosa è più facile: dire “Ti sono perdonati i tuoi peccati”, oppure dire “Àlzati e cammina”?», domanda Gesù nella circostanza della guarigione di un paralitico (Luca, 5, 23). Proprio per quest'azione sugli spiriti Origene chiama Gesù «medico dell'anima (iatròs psychès)» (Sull'Esodo, PG, 12, 269) e Clemente Alessandrino lo definisce «il terapeuta delle passioni dell'anima» (Il pedagogo, 1, 6, 1), mentre per Agostino «il divino Maestro è anche medico delle coscienze (medicus mentium)» (De civitate Dei, 5, 14).
Altre indicazioni che possano avere delle ricadute benefiche sulla odierna pratica medica si possono ricavare dall'insistenza che i Padri dimostrano nello spiegare che Gesù guarisce entrando nell'umanità, facendosi prossimo dell'uomo. Il modello è sempre quello dell'incarnazione: «[Cristo] si è fatto uomo per noi perché, prendendo parte alle nostre passioni, ne diventasse la medicina (ìasin)», scrive Giustino (Apologia, 2, 12) e sullo stesso registro sono allineati tanti altri autori (cfr. Cipriano, Liber de opere et eleemosynis, 1; Gregorio di Nazianzo, Poesie morali, 1, 2, 38 vv. 140-148; Giovanni Crisostomo, Homiliae in Genesim, 27, 1).
San Pietro Crisologo definisce chiaramente questo parallelismo del medico con Cristo: «Cristo è venuto a prendersi le nostre infermità e a conferirci le sue virtù, a farsi carico dell'umano e a donarci il divino, ad accogliere le ingiurie e a rendere merito, a sopportare il fastidio e a restituire la salute. Il medico infatti che non si fa carico delle malattie non le sa curare e colui che non è malato con il malato non gli può dare la salute» (Sermones, 50). L'azione di Cristo è ancorata alla sym-pàtheia, alla capacità del patire insieme, alla qualità del con-patire. Con la sua venuta Gesù introduce un nuovo contratto terapeutico. Egli invita a incontrarsi sul campo delle affinità: un sano può curare chi non lo è solo se è anch'egli malato con il malato. È l'antica cura che offriva il centauro Chirone alla gente ferita che andava a visitarlo, di essere un curante perché a sua volta ferito. Al di là della metafora, questa sovrapposizione, questa identificazione tra chi cura e chi è curato tende fatalmente ad annullare la distanza tra medico e paziente. Il rapporto si impasta, si fa materia viva della terapia e non è più il freddo appuntamento della “visita”, in cui non c'è affatto compenetrazione di ruoli ma solo clinica osservazione del caso.
La figura del Christus medicus, come si profila nelle parole dei Padri della Chiesa, ci dice dunque che essa è già di per sé cura ed è già guarigione -- che si potrebbe definire spirituale -- anche se il male procede e continua a lavorare e a scavare. Si tratta della guarigione di chi rimane malato, della sanità di colui al quale il male non trova una risoluzione, eppure rimane sanato e guarito lo stesso, perché alle sue ferite si sovrappongono quelle di Cristo e in esse egli trova la sua consolazione perché avverte con più valore quel discrimine di salvezza e di salute che il Salvatore rappresenta per chi ha fede.
(©L'Osservatore Romano 26-27 agosto 2013)
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